Il ricordo della terra
Albino Pierro, ritratto di un poeta
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Il ricordo della terra. Albino Pierro, ritratto di un poeta
Il 23 marzo del 1995 moriva a Roma il poeta Albino Pierro nato a Tursi in Lucania il 19 Novembre del 1916.
Ancora oggi, a 30 anni esatti dalla sua morte, Pierro viene considerato un “poeta dialettale”, definizione che a lui non è mai piaciuta. In una delle sue rarissime testimonianze è lo stesso Pierro a ricordare l’avvio del suo poetare nel dialetto di Tursi che, in realtà, è una lingua arcaica pre-latina:
“Il 23 Settembre del 1959, a Roma, di ritorno dalla Lucania, avvertii il bisogno di esprimermi in tursitano. Ero partito da Tursi prima del previsto, e la partenza, ingenerando in me un senso quasi angoscioso del distacco, mi aveva turbato. Prima di lasciare la grande casa di famiglia, la casa della mia infanzia, u palazze, m’ero affacciato a uno dei balconi, e avevo contemplato con intensa commozione quella che sarebbe divenuta per me un’autentica «terra del ricordo»”.
Qui comincia quella identificazione della lingua poetica con il linguaggio dell’infanzia, proprio nel momento in cui quella “terra” di fronte casa sua – tutta quella “terra” – diventava terra di ricordi a partire da quelli lontanissimi, arcaici, preistorici e dunque trasmessi e tramandati da un “linguaggio” pre-scritto, vale a dire avvertito solo attraverso suoni, voci, sogni, segni e… «gridi dell’anima».
Un idioma, anzi un idioletto che Pierro avrebbe recuperato e riordinato in una fonetica, morfologia e sintassi rispondenti a quanto di misterioso e profondo poteva e doveva accompagnare con le sue litanie e i suoi riti.
Il suo effettivo “avvio al poetare” avviene grazie alla “sottomissione” della poesia a uno dei più arcaici dialetti di tutto il sistema neolatino, studiato, in quell’estrema lingua di terra (sic!) calabro-lucana, dal glottologo Gerard Rohlfs e dal suo maestro Heinrich Lausberg e che verrà, per questo, definita area Lausberg.
Prima di questa vera e propria epifania cosmologica, Pierro aveva pubblicato Liriche nel 1946 e successivamente, fino al 1960, altre cinque raccolte poetiche tutte in lingua italiana.
Poi nel 1960, a quarantatré anni, ci fu questa famosa “svolta dialettale” con ‘A terra d’u ricorde (La terra del ricordo).
Nel 1976 Pierro vinse il il Premio Carducci e negli anni ’80 fu candidato al premio Nobel che per quei soliti “pasticciacci brutti all’italiana” non riuscì mai a portare a casa: la storia è nota ed è stata accuratamente documentata da Rocco Brancati nel suo Ritratto di poeta. Albino Pierro: intrigo a Stoccolma (RCE Edizioni, 1999).
Dal mio punto di vista Albino Pierro rappresenta una di quelle figure mitiche al pari di un tempio greco con alcune colonne ancora erette e altre coricate a terra, mezze sepolte e per questo affascinanti.
Il poeta lucano è, cioè, un simbolo di civiltà sepolte ma non scomparse; un idolo che trasmette la memoria; il ricordo di una terra e di una lingua ma, soprattutto, Pierro è l’inconsapevole esemplare, del sopravvissuto alle catastrofi. Proprio come di fatto lo è un tempio greco.
A segnare l’esistenza di Pierro furono tre episodi traumatici: la morte dopo il parto della madre; una grave malattia agli occhi, che da bambino lo costrinse spesso a restare al buio e, infine, una serie di trasferimenti in altre località, fino alla definitiva emigrazione a Roma, vissuta come un vero e proprio esilio.
Per tutte queste ragioni la sua poesia può figurarsi psicoanalitica, dominata come è da archetipi, pulsioni oniriche e intuizioni ipnotiche, dove il futuro sembra risiedere nel passato e la verità è qualcosa che vada “scoperta” a ritroso piuttosto che qualcosa da “inventare” in avanti.
Stupiscono a volte le strane coincidenze che coinvolgono le vite di individui di “provenienze” così inequivocabilmente diverse! Proprio nel 1982, quando, più o meno, ebbe inizio l’intrigo a Stoccolma che coinvolse Albino Pierro, Gabriel Garcia Marquez, l’autore colombiano e padre del cosiddetto realismo magico, vinse il Premio Nobel per la letteratura.
Ecco Macondo e Tursi sembrano essere i piccoli teatri sperduti della stessa intuizione lirica di portata universale, una intuizione che il colombiano sintetizzò mirabilmente nel seguente aforisma : “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Tornando a Pierro questa stessa intuizione si ridusse ancora di più all’osso: “la vita è ‘a terra d’u ricorde”
Questa inaspettata sovrapposizione o, meglio, incredibile coincidenza di mondi così distanti ci dispone nella condizione di cogliere un aspetto importante relativo alle acquisizione di conoscenze da parte della specie umana: le “semplici” azione di scrivere e leggere (e di riscrivere e rileggere) non corrispondo affatto a quella ingenua convinzione di stare raccontando o rievocando dei fatti, mettendoli semplicemente in ordine secondo il loro accadimento.
Scrivere per IL poeta non ha a che fare con il chronos, il tempo che scorre e dunque con una sequenza di fatti da mettere in fila, ma con il kairòs, il tempo propizio che consente di cogliere segni (e sogni) epifanici della propria vicenda storico-biografica.
E questa specie di “illuminazione” rappresenta due ben precisi aspetti primari e identificativi della specie Homo: ‘trasmettere’ e ‘tramandare’.
Pierro quella sera del 1959 si accostò a una semplice – magico realistica – intuizione: l’italiano poteva bastare a trasmettere, ma non era sufficiente a tramandare.
Un tempio greco, così come è arrivato fino a noi, può “mostrare” delle colonne ancora bene erette e conservate e alcune altre riverse a terra, ma tante, tante altre non sono visibili; rimangono ancora sepolte o sono andate distrutte, eppure…
Eppure, quasi fossero un ricordo della terra, quelle “cose” sepolte continuano a “tramandarci” .
Gli innamorati
Si guardavano zitti
e senza fiato
gli innamorati.
Avevan gli occhi fermi
e brillanti,
ma il tempo che passava vuoto
vi ammucchiava il buio
e i tremiti del pianto.
Ed ecco, una volta, come l’erba
che si trova incastrata dentro un muro,
nacque una parola,
poi un’altra, poi più assai:
solo che tutte le volte
la voce somigliava
a una cosa sognata
che la senti di notte e che poi torna
più debole durante la giornata.
Sempre che si lasciassero
sembravano come le ombre
che si allungano nelle magie;
se sentivano un rumore, aguzzavano
le orecchie e si vedevano;
e se lampeggiava la luce si trovavano
faccia a faccia nel rosso dei mattini.
Un giorno
– non saprei dirvi se nel mondo
facesse freddo o piovesse –
uscì tutt’a un tratto
la luce di mezzogiorno.
Senza che lo sapessero
gli innamorati si tenevano per mano
e nuotavano insieme nel sorriso
che le campane del paese spandono.
Non c’erano più angosce;
si sentivano più lievi di un santo,
facevano i sogni delle giovinette
coricate sull’erba e che vedono
il cielo e una colomba
che gli passa davanti.
Erano giunti proprio al punto giusto:
ora si potevano stringere
si potevan baciare
si potevano unir come nel fuoco
le vampe e come i pazzi
piangere ridere e sospirare;
ma non fecero niente:
se ne stavano assorti come la neve
rosata delle montagne
quando il sole tramonta e ad ogni cosa
strappa un lamento.
Chi lo sa!
Senza dubbio temevano
di sparire toccandosi col fiato:
eran l’uno per l’altro
la bolla di sapone colorata;
e forse lo sapevano
che dopo il fuoco scorrono torrenti
di cenere e che i pazzi
se gridano troppo
li chiudono per sempre dove nessuno
oserebbe entrar mai.
Ora non so dove sono,
se son vivi o son morti,
gli innamorati;
non so se camminano insieme
o se il demonio li abbia separati.
Non voglia Iddio
sian divenuti fango nella via.*
* Dedico questa poesia di Don Albine a tutti I’nnamurète di Ucraina e Gaza.
L’originale in dialetto tursitano
I ‘nnammurète
Si guardaàine citte/e senza fiète/i ‘nnammurète./Avìne ll’occhie ferme/e brillante,/ma u tempe ca passàite vacante/
ci ammunzillàite u scure/e i trimuìzze d’u chiante.//E tècchete, na vota, come ll’erva/
ca tròvese ‘ncastrète nda nu mure,/nascìvite ‘a paròua,/po n’ata, po cchiù assèi:/
schitte ca tutt’i vote/assimigghiàite ‘a voce/a na cosa sunnèta/ca le sìntise ‘a notte e ca po tòrnete/chiù dèbbua nd’ ‘a iurnèta.//Sempe ca si lassàine/parìne come ll’ombre/ca ièssene allunghète nd’i mascìe;/si sintìne nu frusce, appizutàine/‘a ‘ricchia e si virìne;/
e si ‘ampiàite ‘a ‘ùcia si truvàine/faccia a faccia nd’u russe d’i matine.//Nu iurne/
– nun vi sapéra dice si nd’u munne/facì’ fridde o chiuvìte –/‘ssìvite nda na botta/
‘a ‘ùcia di menziurne.//Senza ca le sapìne/i ‘nnammurète se tinìne ‘a mèna/e aunìte ci natàine nd’ ‘a rise/ca spànnene i campène d’u paìse./Nun c’èrene cchiù i scannìje;/si sintìne cchiù llègge di nu sante,/facìne i sonne d’i vacantìje/cucchète supre ll’erva e ca le vìrene/u cée e na paùmma/casi pàssete ‘nnante.//Avìne arrivète a lu punte iuste:/mo si putìna stinge/si putìna vasè/si putìna ‘ntriccè come nd’u foche/i vampe e com’i pacce/putìna chiange rire e suspirè;/
ma nun fècere nente:/stavìne appapagghiète com’a ‘a niva/rusète d’i muntagne/quanne càlete u sòue e a tutt’i cose/ni scìppite nu lagne.//Chi le sàpete./Certe si ‘mpauràine/di si scriè tuccànnese cc’u fiète;/i’èrene une cchi ll’ate
‘a mbulla di sapone culurète;/e mbàreche le sapìne/ca dopp’u foche ièssene i lavìne/d’ ‘a cìnnere e ca i pacce/si grìrene tropp assèi/lle ‘nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune/ci trasèrete mèi.//Mo nun le sacce addù su’,/si su’vive o su’morte,/i ‘nnammurète;/nun sacce si camìnene aunìte/o si u diàue ll’è voste separète./Nun mbogghia Ddie/ca si fècere zang ‘nmenz’ ‘a via.
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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Giuseppe Ferrara
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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