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Il neoliberismo è in crisi: l’alternativa è reazionaria

Scrivo queste mie considerazioni, sollecitato anche dai ragionamenti di Bruno Turra nel suo articolo del 29 dicembre scorso su Periscopio (vedi qui). Li ho trovati in gran parte interessanti e condivisibili, ma alcuni parziali e altri non convincenti, per cui mi pare importante approfondirli.

In primo luogo, occorre analizzare più precisamente il fenomeno del neoliberismo, e anche la sua evoluzione. Parlo di evoluzione, perché l’ideologia e la pratica del neoliberismo è mutata nel corso del tempo e, del resto, non poteva essere diversamente. Il neoliberismo, inteso come politiche concrete (non come teoria, che risale a molto prima, almeno dalla fondazione della Mont Pelerin Society nel 1947 da parte di economisti e intellettuali, in primis l’austriaco Friedrich von Hayek) muove i suoi passi e si afferma progressivamente a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso.

Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher nel Regno Unito sono quelli che lo promuovono, almeno a livello di scelte di governo. Il neoliberismo nasce come risposta al capitalismo keynesiano che si era affermato in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, che aveva prodotto sviluppo economico supportato da una forte spesa pubblica e da significativi incrementi salariali. Il rovescio della medaglia era stato il forte restringimento dei profitti, per cui, negli anni ‘70, secondo diversi studi, il tasso di profitto lordo relativo alle grandi imprese industriali nei Paesi del G7 aveva subito una caduta stimabile attorno al 50% rispetto ai decenni precedenti. Ciò, assieme al primo segnale di crisi dell’egemonia politica della superpotenza statunitense, rappresentata dalla sconfitta della guerra in Vietnam negli anni ‘70, ha provocato una reazione delle classi dominanti, che non hanno più accettato il compromesso keynesiano e hanno progettato un nuovo paradigma dello sviluppo capitalistico: il neoliberismo, appunto.

Partendo dalla globalizzazione dei mercati, il neoliberismo è approdato progressivamente ad un unico mercato mondiale, finalizzato, in primo luogo, ad abbattere il costo del lavoro in Occidente (assieme ad un forte attacco al potere dei sindacati), mediante lo spostamento della produzione nei Paesi meno sviluppati;  a questo ha associato una spinta all’innovazione tecnologica, trainata dal forte sviluppo dell’informatica e, successivamente, dalle piattaforme digitali.
Ulteriore componente fondamentale del neoliberismo è l’amplificazione dell’economia del debito e della finanza: la massimizzazione dei profitti non passa più semplicemente dalla fabbricazione dei prodotti, ma attraverso il “fare i soldi con i soldi”, alimentando a dismisura debito pubblico e privato e creando nuova moneta e nuova finanza al di fuori dei canali ordinari con cui sostenere l’attività economica.

Questo enorme castello di carta – giacché di questo si tratta, quando si parla di economia basata sul debito – doveva, inoltre, avere la funzione di stabilizzare i consumi e i redditi delle famiglie, assieme all’importazione di merci ad un costo minore. A corollario di quest’impostazione non poteva non esserci una forte ritrazione dell’intervento pubblico, l’attacco ai pilastri classici di fondo del Welfare (previdenza, istruzione e sanità), il riassoggettamento alle logiche di mercato dei beni comuni, dall’acqua all’energia ai trasporti, nuovamente visti come settori “produttivi” in grado di generare profitti. Insomma, un sistema compiuto e inedito, che per la prima volta si proponeva l’unificazione del mondo, un capitalismo feroce, interamente votato al predominio assoluto del mercato e della finanza globale, senza mediazioni sociali e con l’emarginazione del ruolo della politica, ma supportato dall’unica superpotenza rimasta, quella statunitense. Non a caso, esso, come tutti i sistemi pervasivi, ha prodotto una sua ideologia “forte”, contrassegnata dal mercato come unico regolatore e da un individualismo esasperato, che non ha mai sposato la causa dei diritti umani universali, anche nella loro forma astratta (il famoso motto della Thatcher per cui “la società non esiste, ci sono solo gli individui”).

Oltre a rimodellare il sistema economico e sociale, l’onda neoliberista ha letteralmente messo fuori gioco le ideologie della sinistra. Distrutta quella di ispirazione comunista, fortemente indebolita quella socialdemocratica.
Quella fascista o neofascista non ha avuto lo stesso
andamento: da una parte, perché essa era già stata fortemente ridimensionata dalla seconda guerra mondiale e dal modello economico di stampo keynesiano affermatosi subito dopo; dall’altra perché, come argomenterò dopo, la stessa non si presentava come alternativa reale al neoliberismo, ma semmai come una sua variante, non a caso oggi risorgente.

Invece, le culture del ‘900 della sinistra sono state completamente spiazzate dalla teoria e dalla pratica del neoliberismo: quella comunista, travolta dal crollo dell’Unione Sovietica, ma prima ancora dalle sue contraddizioni interne, in particolare dalla mancanza di democrazia e da una pianificazione economica rigida e centralizzata; ma anche quella di stampo socialdemocratico, costretta dapprima sulla difensiva dall’attacco alla diminuzione del prelievo fiscale e allo Stato sociale, che ne erano stati i tratti fondanti, e poi completamente subalterna, se non addirittura ancella, ai fasti della globalizzazione, vista come fenomeno progressista, e nella rincorsa alla conquista del ceto medio (la celebre “terza via” di blairiana memoria, che ha contagiato tutta la famiglia delle esperienze socialdemocratiche, facendo loro perdere l’anima). Il tutto, tentando di ritagliarsi una parvenza di identità (debole) nell’affermazione dei diritti individuali e civili, questi sì declinati in modo astratto.

Va, però, aggiunto che, a fronte dell’aggressione neoliberista, ha iniziato a muovere i suoi passi una nuova narrazione nel campo della sinistra, antiliberista, altermondialista e internazionalista. Per intenderci,  quella animata dai movimenti sociali, protagonisti della protesta a Seattle nel 1999 contro la riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e poi dai Forum sociali mondiali, da Porto Alegre nel 2001 in avanti, passando per Genova nel 2001 contro il G8, protesta duramente repressa proprio dagli artefici del neoliberismo rampante.

La storia, però, va avanti e anche il neoliberismo trova inciampi non banali. Parlo della Grande Crisi del 2007-2008, generata dall’insolvenza dei mutui “subprime”, allargatasi a tutto il sistema bancario e finanziario mondiale, a partire dal fallimento della Lehman Brothers.  Una crisi che ha segnato uno spartiacque nella storia dei sistemi economici e sociali, paragonabile a quella di Wall Street degli anni ‘30 del secolo scorso, e che, in particolare in Europa, è andata avanti negli anni successivi, con la crisi dei debiti pubblici, a partire dalle vicende greche e italiane. Non solo ci troviamo in quegli anni alla crisi del castello di carta dell’economia del debito: in realtà, dagli anni ‘80 in cui il neoliberismo si à affermato, proprio perché con la sua forza ha cambiato il mondo, lo scenario economico e sociale dell’ultimo decennio è profondamente diverso da allora, con cambiamenti che non erano del tutto previsti e neanche auspicati dai fautori del neoliberismo.

In estrema sintesi, sono almeno quattro gli sconvolgimenti epocali indotti proprio dalla fase espansiva del capitalismo neoliberista:

1 ) il mondo, inteso come mercato mondiale e modello di sviluppo, si è davvero unificato e ha iniziato a far emergere nuovi e drammatici problemi, a partire dal cambiamento climatico (che per la prima volta mette in discussione la vita umana nel Pianeta) e dai fenomeni migratori, determinando un flusso inarrestabile dai Paesi poveri a quelli del ricco Occidente e verso le metropoli urbane dei Paesi poveri – circolazione che, a differenza del movimento dei capitali, è tutt’altro che libera;

2 ) sono avanzati nuovi soggetti statuali importanti (oltre che grandi aziende monopolistiche) che assurgono al ruolo di potenze regionali significative, se non di vere e proprie superpotenze: Cina, in primo luogo, gli Stati che compongono i cosiddetti BRICS  (Brasile, Russia, India e Sudafrica), sempre meno disposti a tollerare l’egemonia statunitense e che – almeno Cina e Russia- si muovono in una logica neoimperiale;

3 ) ancora, è cresciuta notevolmente la concorrenza per il predominio tecnologico e per l’accaparramento delle materie prime tra i vari sistemi economici e statuali, che, come sempre accade, sfocia progressivamente nella guerra commerciale e nel protezionismo;

4 ) infine, è aumentata fortemente la disuguaglianza tra i Paesi nel mondo, con quelli più poveri che vedono aumentare la distanza non solo nei confronti di quelli già sviluppati, ma anche rispetto a quelli che si sono agganciati al traino della globalizzazione. La disuguaglianza sociale torna a segnare una frattura anche all’interno dei Paesi ricchi, con la forte diminuzione dei redditi che vanno al lavoro, con la sua trasformazione in lavoro precario e povero, e anche un serio impoverimento dei ceti medi, che scivolano verso il basso della scala sociale.

Tutte queste modificazioni profonde fanno sì che, oggi, la fase ascendente del neoliberismo si stia esaurendo e si stia delineando una sua “crisi strutturale.
Intendiamoci bene: non è che la “crisi” del neoliberismo significhi il venir meno dei suoi meccanismi fondativi. Il fatto che il neoliberismo non abbia mantenuto le sue “promesse” meravigliose non apre di per sé la prospettiva di un mondo migliore: le classi dominanti, in primis il mondo dell’economia e della finanza, intendono continuare come prima, ma “turbate” dall’incertezza e scoprendo un po’ di filantropia (vedi l’ultima riunione del World Economic Forum a Davos), scelgono di sostituire l’egemonia perduta con il comando.
Al posto della globalizzazione indiscriminata viene avanti la “deglobalizzazione selettiva”, cioè si privilegiano gli “amici” e non si guarda solo alle logiche di mercato, per cui si va ad investire in India e non più in Cina; il protezionismo economico avanza e si mischia con il nazionalismo e, come accaduto altre volte nella storia, le guerre commerciali e neoimperiali diventano guerre vere e proprie, che hanno anche il “pregio” di sostenere il complesso militare- tecnologico-industriale e diventano, come insegnava von Clausewitz, semplicemente un altro mezzo con cui continuare la politica.

Per non parlare del salto tecnologico che sta producendo l’intelligenza artificiale, dominata da alcuni grandi oligopoli e che si può orientare verso una logica di controllo sociale spinto e non controllabile dai ceti subalterni.

In questo scenario rientra in gioco la politica, e specificamente, quella di una destra estrema e reazionaria (non quella di una pseudosinistra sbiadita e incolore, che, al massimo, asseconda i dettati neoliberisti). Quella, per intenderci, di Trump e di tanti epigoni in giro per il mondo, da ultimo Milei in Argentina, e anche quella nostrana. Quella che restringe diritti e democrazia, che la fa sempre più rassomigliare ad un’autocrazia, che intende procedere ulteriormente a tagliare le tasse ai ricchi, privatizzare lo Stato sociale, dare un ordine al mondo semplicemente basandosi sul nazionalismo e sui rapporti di forza.
Qualcuno si sta chiedendo come Trump, una figura che ha riabilitato la possibilità del colpo di Stato in America, goda di un seguito significativo e possa rappresentare un candidato concorrenziale per le elezioni presidenziali di quest’anno negli Stati Uniti: ebbene, non è difficile vedere che Trump è un buon interprete delle paure e dei “tradimenti” della globalizzazione e del neoliberismo.

A questo punto, diventa ineludibile la famosa domanda del “che fare” per chi ha in mente e nel cuore l’idea di un altro mondo, giusto e possibile.

(1 continua)

Photo cover copyright Corey Torpie Photography

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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