L’arcano dell’ipocrisia europeista

Ventotene era un’isola dove il regime fascista aveva predisposto un carcere a cielo aperto su cui si affacciavano le celle dei confinati politici antifascisti consentendo ai carcerieri di osservare ogni loro mossa. In questa prigione ossessivamente inquisitoria Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con l’aiuto essenziale di Eugenio Colorni, redassero Il Manifesto di Ventotene, ovvero un programma politico per una nuova “Europa libera e unita” elaborato nell’agosto 1941 e diffuso con l’aiuto di Ursula Hirschmann.

In questi anni spesso e volentieri si è sentito parlare del Manifesto di Ventotene come del documento teorico-fondativo dell’Unione Europea ed è spesso stato cavalcato da alcune forze neoliberali in Italia (Radicali Italia, +Europa di Emma Bonino, Italia Viva di Renzi, sindacati come la CISL e da molti altri), come il punto di riferimento del “federalismo europeo”, dell’europeismo e del progetto degli “Stati Uniti d’Europa” su modello degli Stati Uniti d’America. Purtroppo in molti, anche in buona fede, ritengono che sia un manifesto federalista, ma non è così.

Il giornalista Michele Serra ultimamente, dalle pagine de La Repubblica, ha invitato a scendere in piazza il 15 marzo il partito unico europeista della guerra solo con le bandiere blu dell’Unione Europea per un “Europa più forte” che faccia tesoro dei “valori fondativi” dell’Europa sostenendo che sia, ora più che mai, urgente pensare agli Stati Uniti d’Europa esplicitati nel Manifesto di Ventotene.
Il 4 marzo, la Vicepresidente del Parlamento europeo ed eurodeputata PD Pina Picierno, ha lanciato l’Appello “Per un’Europa Libera e Forte” che – secondo le premesse – “nasce dall’urgenza invariata che il Manifesto di Ventotene tracciò durante il secondo conflitto mondiale, per un’Europa federale e per un nuovo europeismo in difesa delle democrazie liberali e delle libertà dei popoli”. Un appello che, al pari di quello di Michele Serra, ha riscosso successo proprio tra gli europeisti “più atlantisti” come il “socialista” francese Raphaël Glucksmann, Vittorio Emanuele Parsi, Alessandro Alfieri, Filippo Sensi, Lia Quartapelle e Nathalie Tocci.

Queste affermazioni – se vi capita di sentirle in telegiornali o talk show – non sono solo fuori contesto, ma definiscono con chiarezza che chi le sta pronunciando non ha mai letto il Manifesto di Ventotene e porta avanti una falsificazione ed una distorsione più o meno consapevole dei suoi contenuti.

I contenuti del Manifesto di Ventotene

Il Manifesto di Ventotene non è un manifesto “federalista” nè tantomeno “neoliberale” come i Radicali Italiani, Emma Bonino, Magi, Renzi, Michele Serra e tutti i neoliberali e neoliberisti possano minimamente pensare o dire. Il Manifesto di Ventotene nasce come manifesto scritto da intellettuali socialisti antifascisti, che credevano nella «definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali», così da cancellare «la linea di divisione fra i partiti progressisti e i partiti reazionari».

Per fare questo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni proponevano una confederazione (non una federazione) di Stati europei su base socialista per un’Europa sociale, democratica e dei popoli: questo intendevano con l’espressione “Per un’Europa libera e unita”.

Il Manifesto di Ventotene – basta leggerlo – si esprimeva chiaramente contro tutti i totalitarismi (nazismo e stalinismo), l’egemonia della Germania, il liberismo in tutte le sue forme, i nazionalismi sciovinisti, l’imperialismo e l’uso strumentale della geopolitica per giustificarlo, il militarismo e qualunque forma di corporativismo sia esso industriale o sindacale (afferma: “Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell’interesse della classe governante.”).

Il Manifesto di Ventotene sanciva assolutamente l’autodeterminazione dei popoli europei in un’ottica particolare: abbandonare la teoria evoluzionista del “pacifismo passivo” incarnato dalla dottrina liberale (per cui le società erano naturalmente portate a svilupparsi verso forme superiori di convivenza), per delineare un “pacifismo attivo” fondato sull’interdipendenza tra Stati sovrani “fratelli” solidali e non più sull’equilibrio di potenza tra gli Stati dipendente dalle controversie nazionalistiche.

Qui sta la vera differenza tra confederazione, che prevede unione di Stati sovrani indipendenti ed interdipendenti sotto stesse politiche economiche e sociali, e federazione, unione di Stati che cedono le loro quote di sovranità ad un governo centrale federale sovrastatale su modello USA.

Spinelli, Rossi e Colorni credevano fortemente in un’Europa alternativa (mi verrebbe da dire, soprattutto da quella attuale), in cui fosse necessario il superamento dei privilegi corporativi e delle disuguaglianze sociali.

Scrivevano nel Manifesto: Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.”

Secondo loro la “rivoluzione europea” poteva essere solo socialista e guidata da un’organizzazione partitica sovranazionale che si faceva portatrice di “riforme economico-sociali in chiave continentale”:
“Il principio veramente fondamentale del socialismo (…) è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.”

Il Manifesto di Ventotene prefigurava la necessità dell’istituzione di una confederazione europea con un parlamento europeo eletto a suffragio universale e un governo democratico con poteri reali nell’economia e nella politica estera. Un “partito rivoluzionario” di stampo socialista su scala europea avrebbe dovuto sostituire i partiti tradizionalmente intesi per consentire l’inveramento di questa prospettiva:

“Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una coalizione eterogenea di tendenze, riunite solo transitoriamente e negativamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice del disgregamento del totalitarismo, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada una volta raggiunta quella caduta.

Il partito rivoluzionario deve sapere invece che solo allora comincerà veramente la sua opera e deve perciò essere costituito di uomini che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro. Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta sentito come il più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione.

Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continua ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.”

Secondo gli autori, per questa “rivoluzione sociale europea”, era di vitale importanza il coinvolgimento in prima istanza degli intellettuali e della classe lavoratrice perché, oltre a un lavoro politico era necessario un lavoro culturale dedito alla solidarietà, alla pace e al welfare state:

“Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali.

La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Gli intellettuali di Ventotene erano consapevoli del fatto che se questa missione non fosse andata in porto, tutto il progetto sarebbe stato un fallimento.

Solo con un “partito rivoluzionario” che sapesse mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo politico si sarebbe potuto costituire uno Stato confederale ed in seguito disporre una “forza armata europea” al posto degli eserciti nazionali, porre fine alle autarchie economiche “pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”.

Colorni, Rossi e Spinelli ebbero la forza di scrivere nero su bianco che, per avanzare riforme sociali importanti, bisognava rivedere in modo cauto anche il concetto di “proprietà privata” ed analizzarlo in ogni suo caso, qualora sia oppressivo per la collettività e quando invece abbia ragione e diritto d’esistere:

“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori.”

Queste riflessioni non sono mai state prese in considerazione nella nostra Europa tanto acclamata dalla retorica europeista e dall’attuale retorica neoliberale sugli “Stati Uniti d’Europa”, ma addirittura storicamente abbiamo vissuto il contrario: la centralità della proprietà privata, dell’iniziativa privata vista proprio come sacra ed intoccabile ed un progressivo laize faire neoliberista a discapito del pubblico.

Addirittura, nel 2001, l’Italia con Prodi ha velocizzato i processi di privatizzazione delle perle industriali pubbliche come l’ILVA, l’IMI e l’IRI, con la scusa che fosse necessario per entrare in Europa, dimenticando che gli autori del Manifesto di Ventotene chiedevano espressamente il mantenimento dei settori strategici sotto l’industria pubblica:

“non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;”

L’Europa tecnocratica e finanziaria di oggi non è quella pensata a Ventotene

È certo che la Carta di Ventotene abbia dei punti controversi e non chiari, ma resta comunque un tentativo interessante di teoria politica per un’Europa dei popoli. A differenza del Progetto Pan-Europa del filosofo e conte Coudenhove Kalergi, che ebbe una grande diffusione tra le élite finanziarie e diplomatiche del tempo e che auspicava un’Unione Europea a guida tecnocratica, il Manifesto di Ventotene fece ben pochi proseliti anche nel carcere.

Fece scalpore l’atteggiamento di Sandro Pertini (1), il quale, dopo aver sottoscritto il documento mentre era confinato proprio a Ventotene, venne espulso dal PSI per la sua posizione “eterodossa”, per poi ritirare la firma per obbedienza al partito. Era la prefigurazione della scarsa fortuna dell’idea confederale a base democratica, solidale e socialista.

Quella che nacque storicamente fu l’Europa di oggi, ovvero un’unione (né una federazione né una confederazione) nata sul modello funzionalista di Jean Monnet, secondo il quale bisogna “togliere sovranità ai popoli senza che se ne accorgano”.

Un’unione che non ha una Costituzione; non ha una legittimità democratica in quanto la maggioranza dei cittadini degli Stati membri non l’ha voluta (vedasi il referendum in Francia del 2005); un’unione che è stata imposta dall’alto e che tassa i cittadini europei senza rappresentarli (2) (il Parlamento Europeo ha solo la funzione di proporre direttive e non leggi, mentre le leggi le fa la Commissione Europea che è composta da nominati e non eletti); un’unione ispirata:

  • al concetto di “Europa tecnocratica” e di “integrazione europea” del conte Richard Coudenhove-Kalergi (3) che portarono alla costituzione del Progetto Pan-Europa e alla fondazione dell’Unione Paneuropea a Vienna nel 1924 secondo i principi della dottrina di James Monroe da cui «Europa agli europei», escludendo potenze mondiali come Russia e Gran Bretagna e mettendosi in guardia da nuovi centri di potenza quali Stati Uniti, Giappone e Unione Sovietica;
  • all’idea dell’integrazione monetaria dell’economista Francois Perroux (4) del 1943 con il dichiarato intento di “togliere agli Stati la loro ragion d’essere” impedendogli di poter di gestire la moneta;
  • alla sconfitta delle teorie economiche di Keynes, l’economista secondo cui l’interesse della collettività viene sempre per primo, che avvenne alla conferenza per gli assetti monetari internazionali di Bretton Woods del 1944, ove decollerà il progetto devastante di Lippmann, Berneys, Schuman, Monnet e Perroux per la distruzione della sovranità degli stati e al trionfo di grandi oligarchi delle corporate rooms, che finanziano le scuole di economisti e di classi dirigenti secondo l’ideologia del monetarismo e dell’economia neoclassica di Milton Friedman, facendo credere che sia l’unica economia esistente (un esempio l’Università Bocconi, che non fa teoria economica e non insegna politica economica);
  • al “Piano Schuman” del 1951 che porterà alla nascita della Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio);
  • al dominio egemonico della Germania che, con i Trattati di Maastricht del 1992, ha sancito la “l’economia sociale di mercato” come sistema economico europeo, ispirato ai principi folli dell’ordoliberismo tedesco, teoria economica che sostiene che il problema non sono gli investimenti, ma il debito pubblico.

Un’Europa del commercio, delle banche e della finanza che grazie alle lobbie di grandi capitalisti ha smantellato la sovranità degli stati europei per salvaguardare i loro profitti. Nel 2001, plasmato su modello del marco tedesco, viene introdotto l’Euro: la prima “moneta senza Stato” a regime di cambi fissi che provocò una grande reazione tra grandi teorici economisti.

L’Italia, a detta di Romano Prodi, quando entrò nell’euro, svalutò la lira del 600% (5). Nel gennaio 2002, nei 16 Stati più ricchi d’Europa avanza l’idea di creare corpi sovranazionali col potere di imporre le regole. Ecco quindi l’Unione Europa, il Trattato di Lisbona, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i Mercati dei Capitali d’Investimento. Idea che vinse allora e vince in questa Europa nella quale viviamo in cui l’economia, purtroppo, domina la politica.

Questa verità è sotto gli occhi di tutti ed è emersa in tutta evidenza anche di fronte alle questioni squisitamente politiche, culturali, etiche come: la “Fortezza Europa” in termini di immigrazione; l’americanizzazione della difesa, in termini di sudditanza dell’Europa alla NATO; la guerra ai confini asimmetrici dell’Europa, in Nord Africa e in Ucraina e l’attuale riarmo da 800 miliardi di Ursula Von der Leyen.

«L’Europa di oggi non c’entra nulla con quella tratteggiata da Spinelli», spiegava Giulio Sapelli, grande storico ed economista docente ordinario di Storia Economica presso l’Università degli Studi di Milano. «Il sistema è diverso, la forma istituzionale è diversa», affermava Sapelli, e parlare di Ventotene si può fare, ma solo se si ha in mente una rifondazione totale dell’Europa. Spinelli, quando lavorava in Europa, disse chiaramente che l’Europa doveva nascere su base socialista e non sul libero mercato neoliberista.

Gli “Stati Uniti d’Europa” di cui si parla saranno neoliberali su modello atlantista

“Il Movimento Federalista Europeo non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee e, al tempo stesso, della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco l’austerità che oggi la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d’Inghilterra”.
United States of Europe in Prometeo n. 14 del 1950.

Gli “Stati Uniti d’Europa” di cui parlano tutti gli europeisti più sensazionalisti e i federalisti europei come Emma Bonino, Matteo Renzi e Michele Serra, non sono un progetto di democrazia socialista europea, ma bensì un consolidamento di una post-democrazia di stampo neoliberale su modello statunitense, ispirandosi al federalismo statunitense e al vero padre del federalismo europeo che è il liberale Luigi Einaudi (6).

Einaudi pensava ad una organizzazione come un Super-stato con sovranità diretta sui cittadini, avente il diritto di stabilire imposte e dotata di un esercito, sostenendo che solo con la diminuzione della sovranità assoluta degli Stati Europei e un’unione federale europea si sarebbe potuta superare l’anarchia internazionale, ed evitare nuove guerre.

Einaudi basava la sua teoria sullo studio fatto dal The Federalist, da cui trasse l’assetto politico per cui il federalismo poteva eliminare la guerra fra gli Stati membri . Nelle sue idee era molto chiara la distinzione dei concetti tra confederazione, federazione ed unione, basata sulla limitazione o meno della sovranità. Einaudi era un grande critico del concetto di confederazione e criticò la Società delle Nazioni che, in quanto tale – a detta sua – non era una struttura in grado di garantire una pace duratura.

In sostanza, il mantra degli “Stati Uniti d’Europa” oggi è un tentativo di perfezionare l’Unione Europea per quello che già è, proseguendo verso la via dell’espropriazione della sovranità agli Stati.

L’idea neoliberale che sta passando è una forzatura culturale: parlare di “Europa agli europei” senza che esista un sentimento di coesione europea. “L’Europa non è mai esistita. Ora si tratta di crearla davvero” – diceva Jean Monnet nel 1950.

Oggi in Europa non esiste – e non può esistere, come sosteneva l’antropologa Ida Magli – il “cittadino europeo”, né tantomeno il cittadino italiano, tedesco, francese, inglese o spagnolo che si sente o si definisce “europeo”. Questo perché l’Europa non è paragonabile agli Stati Uniti d’America, una nazione artificiale creata da immigrati europei, senza una cultura unitaria se non quella del denaro e della american view of life fatta di consumismo, ipertrofica libertà individuale e mercato.

Forse il destino pensato dalle classi dirigenti europee per l’Europa è livellare le sue diverse culture ed identità sul piano del mercato come negli USA. Così avremo una classe dirigente che non solo tifa per il default economico, ma anche per il default culturale.

Come già aveva compreso Vladimir Lenin nel 1915, “gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico non possono che essere impossibili o reazionari”, ed oggi siamo nel pieno di questa ipotesi. Un’Europa unita progressista non può dunque nascere dall’iniziativa della classe dominante, come accaduto con l’odierna Unione Europea, ma deve essere frutto dell’azione rivoluzionaria delle classi dominate.

Come ricordava Trostky“Il fine del proletariato europeo non è la perpetuazione dei confini ma, al contrario, la loro abolizione rivoluzionaria, non lo status quo, bensì gli Stati Uniti Socialisti d’Europa!”. C’è chi sostiene, in modo più o meno veritiero, che gli intellettuali di Ventotene fossero d’ispirazione trotkista (7), sottolineando ancora una volta come il Manifesto fosse un progetto neanche lontanamente paragonabile all’Europa bancocratica di oggi.

Nel frattempo, dovremo accontentarci di opporci a quest’Unione Europea e di lottare per il recupero della sovranità nazionale di ciascuno Stato, non già per fomentare la competizione tra questi, ma per stimolarne la cooperazione ed il rispetto reciproco, in attesa di tempi migliori.

Note

(1) Nel settembre 1935 Pertini esce dal carcere e viene condotto al confino di Ponza. Nel 1939 é disposto il suo trasferimento al confino, prima alle Tremiti e poi a Ventotene. Riacquisterà la libertà, dopo oltre 14 anni, nell’agosto del 1943, un mese dopo la caduta del fascismo. https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article297 https://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub4164.pdf

(2) Principio del costituzionalismo inglese: no taxation without representation

(3) R. Coudenhove-Kalergi, Paneurope: Un grande progetto per l’Europa unita, Rimini, Il Cerchio pp.60-61

(4) Il 20 dicembre 1943, veniva pubblicato sulla Revue de l’économie contemporaine un saggio di François Perroux su La monnaie dans une économie internationale organisée 

(5) https://unilira.altervista.org/valore-della-lira-e-la-sua-svalutazione/?doing_wp_cron=1741438126.4091989994049072265625

(6) Il The Federalist è una raccolta di saggi che fu pubblicata dall’Independent Journal di New York 1787, scritti da Alexander Hamilton e John Jay. Furono scritti per sostenere la ratifica della costituzione americana, in essi sono definiti i concetti di federazione. C. G. Anta, Padri dell’Europa, cit., p.100

(7) Forum Pulire 2018 | Etica e Ambiente | Dibattito https://www.youtube.com/watch?v=PkoJsww2pEE

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