Presto di mattina. Il giacinto e la rosa
Due mondi
Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
(C. Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991)
Visibile e invisibile, due mondi sono quelli di Cristina Campo (1923-1977): il mondo del senso preciso delle cose, della realtà tangibile e quello dell’invisibile. Celata realtà e tuttavia nello sprofondo del mondo tutta raccolta: “Lume coperto”, “sepolto Sole”, “portentoso Fiore”. Tesoro nascosto nel campo pure, «un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44).
Di lei abbiamo appena ricordato il centenario della nascita, il 29 aprile, e una raccolta di saggi ne ritrae ora e rilancia un profilo nel segno dell’amicizia: Cristina Campo. “Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile”, Mimesis edizioni, Milano 2023. Scrive la curatrice e coautrice Chiara Zamboni: «È la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo, per il quale l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà. È allora che la vita risplende» (ivi, 7). Nell’attesa un attimo di perfezione appare, fulgore di bellezza, un soffio si leva e subito si smorza.
Questo avviene grazie alla parola ascoltata, alla voce che come un filo di spola è tessitura nel visibile dell’invisibile, nel tremendum del fascinans: «poiché qui Dio non parla nel vento,/ Dio non parla nel tuono:/ parla in un piccolo alito/ e ci si vela il capo per il terrore» (La tigre assenza, 48).
Gli Imperdonabili
«Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,14).
Vi è come un diaframma tra due mondi, un taglio vivente che congiunge e, al contempo, separa ciò che fa luce e ciò che oscura la vita. Non tutte le voci dicono questa tessitura del mondo nell’ordito dell’invisibile. Solo quelle degli “imperdonabili”, che come nel racconto di Belinda, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, chiedono come dono «una rosa, solo una rosa in pieno inverno» (“Una rosa”, in Gli imperdonabili, Milano 2014, 11). E l’amore di Belinda trasformerà il mostro in un giovane principe.
Ma pure il cantico spirituale di Giovanni della Croce è una storia d’amore: «una classica storia d’amore e di viaggio alla ricerca del Principe incomparabile. Vi si parla di monti e di riviere, di tane di leoni e di isole strane, di superfici argentee nelle quali affiorano occhi, di letti nuziali difesi da scudi d’oro. Si fa voto partendo di non cogliere i fiori, di non temere le fiere, di valicare fortezze e frontiere. La fiaba delle fiabe, il viaggio dei viaggi, Il libro di Tobia, s’illumina di un vivido bagliore allorché il vecchio padre proferisce, rivolto allo sconosciuto dal pesce e dal bordone (L’angelo Raffaele): «O tu che conduci agli Inferi, tu che ne riconduci… » (Gli Imperdonabili, 22-23).
Gli imperdonabili sono coloro che non rinunciano alla propria bontà, che è come dire al proprio destino. Essi sono quei personaggi o autori e le loro opere – riportati, tradotti e interpretati da Cristina Campo nel libro omonimo – che amano il loro tempo nonostante tutto sembri venir meno; anzi sembrano appassionarsi proprio a quanto è perduto o dimenticato. Essi, come Cristina, sfidano il destino perché si ostinano a cercare attraverso la fiaba, la poesia e la preghiera, la mistica e il rito, nelle loro fragilità e contingenze, forza e stabilità, nell’imperfezione la perfezione, nell’orrido la bellezza, nella maledizione la benedizione, nel rifiuto la grazia, nel peccato il perdono, nella necessità la libertà, nella disperazione la gioia e nella morte la vita sempre di nuovo risorgente.
«L’esempio di quei poeti – scrive Cristina Campo – era soltanto un esempio. Imperdonabile è, per il mondo d’oggi, tutto ciò che somiglia al giacinto di Persefone», Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? È un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. Questo dovrebbe fare la poesia», (Sotto falso nome, Adelphi, Milano 200, 203).
Gli imperdonabili, ostinati, più forti di ogni altra ostinazione, di una ostinazione dell’altro mondo. Essi vedono nelle ferite la guarigione, scorgono nella paura il coraggio, nella fine un inizio e, continuando ad essere abbandonati, offesi e calpestati, si abbandonano fiduciosi. Intravedono nell’umiliazione la gloria, nella liturgia e nel rito che si ripete i segni di una metamorfosi, l’incontro che apre a una trasformazione; nella mistica, nella liturgia e nella poetica sta la tessitura inconsutile – priva di cuciture – come la tunica del Cristo al calvario, tra il tempo e l’eterno, la carne e lo spirito, parola di carne che rivela alla fine il buon annuncio come ai piccoli, agli ultimi, ai semplici appartenga il Regno dei cieli, perché è già in loro ed è attraverso loro che l’Invisibile si fa visibile, il Lontano vicino, presente e reale l’Assente.
Sono imperdonabili perché si lasciano ferire e sedurre dalla parola ascoltata, la mettono in pratica, credono alla sua voce, la riconoscono come quella del pastore e si lasciano allora rialzare e condurre e portare via da lui verso un altrove. Si fanno essi stessi dolorosa e insieme dolcissima soglia anche per noi tra visibile e invisibile: la soglia del cuore trafitto a pasqua. Si lasciano attraversare come da una lama di luce, che discerne nel cuore i pensieri e le azioni, distinguendo quelle che mortificano, falsificando la realtà, da quelle che la vivificano portandola a salvazione. Gli Imperdonabili si fanno ricettacolo ospitale dell’illuminazione, della grazia, della bellezza taciuta; sono voci del visibile nell’invisibile, tessitori come la stessa Cristina Campo dell’inesprimibile nelle parole già udite, del nuovo latente nella tradizione. Veglia su tutti contro la tenebra «il santo ideogramma»: la mano benedicente del Cristo Pantocrator dei mosaici bizantini.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni
Due mondi – e io vengo dall’altro.
(ivi, 45-46).
…
O chiave che apri e non chiudi,
chiudi e non apri e conduci
teneramente il vinto fuor della casa del carcere
e fuor dell’ombra della morte
e il senzatetto negli atri luminosi
dei mille occhi impassibili
di chi ha compiutamente patito
e delle mani contro la notte levate
nel santo ideogramma della benedizione.
L’invisibile? Ciò che mi interessa
È questo il titolo del saggio della teologa Antonietta Potente nella raccolta ricordata prima. Sono pagine che ritraggono Cristina Campo come lei ritrasse a sua volta l’amica María Zambrano: un volto e un dito sul labbro. Come a indicare «lo stupore di chi sta sulla soglia di quel Mistero che piaceva molto a entrambe e che, entrambe, accoglievano con “le labbra chiuse”, come avviene in ogni via mistica» (ivi, 67).
E continua: «In lei l’amore per l’invisibile non distrae, ma attrae lo sguardo sulla realtà che, per Cristina Campo, riluce grazie, appunto, all’invisibile: “Credo pochissimo al visibile, credo molto all’invisibile ed è forse la cosa che mi interessa di più” dichiarò nell’unica intervista rilasciata nel corso della sua vita. Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli; testi ricchi di realtà e invisibilità, che scavalcano l’orizzonte del visibile e lasciano sempre e solo intravedere l’altrove. Mi sembra questa una delle luci più belle dell’amorosa sapienza che Cristina Campo ci ha lasciato: l’unione tra realtà e invisibilità» (ivi, 68).
Per Cristina Campo tuttavia l’invisibile non si impone dall’alto, né dissolve il visibile, ma è nascosto in esso come semente. L’invisibilità germoglia dalla terra, fermenta come lievito la realtà, non si vergogna di rivestirsi o meglio di incarnarsi nell’umano attraverso i suoi sensi. Questo il suo insegnamento: «Lei insegna che all’invisibile si arriva per l’apertura dei sensi e la percezione; quei cinque sensi, che diventano cinque porte per far entrare l’invisibile» (ivi, 69).
Così ama l’invisibile colui che ama le storie e i racconti, che nel caso della Campo sono «quelle storie di vita di pellegrini e mendicanti che nella loro vita “cambiano improvvisamente rotta nell’inseguimento di una visione ignota e spesso soltanto per un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati, folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo ‘che è dietro quello vero’ soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti”. Queste persone non si rendono visibili a causa della giustizia o chissà per quali diritti, ma perché c’è un mondo dietro a quello vero che soccorre e guida» (ivi).
L’albero capovolto, radicato nell’invisibile nel visibile fruttifero
«Due mondi – e io vengo dall’altro» ha chiarito fin dall’inizio Cristina Campo. Come a dire io vengo da quello invisibile, senza cedere all’onnipotenza del visibile. E tuttavia quest’altro mondo determina un rovesciamento dello sguardo: così – sembra dire – riconosco e sono radicata nelle radici aeree dell’albero rovesciato, che distende le sue radici in alto mentre i suoi frutti sono raccolti in basso. Vi è così un rapporto di analogia tra i due mondi simile a quello esistente tra l’albero e l’uomo.
Rabbi Judah Loew ben Bezalel (1526-1609), detto il Maharal di Praga – acronimo di “Il Nostro Maestro il Rabbino Loew” – esegeta, talmudista e mistico affermava: «In verità l’uomo è chiamato albero del campo come è scritto: perché l’uomo è un albero del campo (Dt 20,19), ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa nella terra, mentre l’uomo ha la radice in alto. Infatti la sua radice è l’anima che viene dai cieli, le mani sono i rami dell’albero, le gambe sono rami sovrapposti a rami e il corpo è il tronco dell’albero. E perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha la radice in basso perché deriva la sua vitalità dal suolo, mentre l’uomo deriva la vitalità della sua anima dai Cieli» (Nétzach Jisra’el 7,26).
Pregare con gli alberi
È invece Rabbi Nachman di Breslav, a farci comprendere il rapporto che lega piante, animali e uomo nella preghiera, quando afferma: «Sappi che quando un uomo prega nel campo, allora tutte le erbe entrano nella preghiera, lo aiutano e danno forza alla sua preghiera. Questa è la ragione per cui la preghiera viene chiamata meditazione/ sichà, sulla base di quanto è detto: ogni arbusto/ sìach del campo (Gen 2,5). Ogni arbusto del campo dà forza e aiuta la preghiera. (Liqquté Moharan, II, Il)». Ed egli pregava così: «Tutta la vegetazione del campo e tutte le erbe e gli alberi e tutti i germogli si sveglino per venirmi incontro, si alzino e diano la loro forza e la loro vitalità alle parole della mia meditazione e della mia preghiera. Possano la mia meditazione e la mia preghiera raggiungere la più completa perfezione con l’aiuto di tutta la vegetazione del campo, in modo che tutte loro, con la loro forza e vitalità e con la loro spiritualità che sale fino alla loro radice superna, possano esse incorporate nella mia preghiera. (Liqquté Tefillòt II, 11)».
Il canto degli alberi
Quello degli alberi è un canto che trabocca nel silenzio, come ogni la preghiera trabocca nell’invisibile presenza: «Gioia canti insieme la campagna con le sue verzure e messi e animali/ Sì di gioia fremano gli alberi,/ la selvaggia foresta ne moduli il suono/ davanti a Colui che sempre viene» (Sal 96 [95]).
Sappi
che ogni pastore e pastore
ha un suo canto speciale.
Sappi
che ogni pianta e pianta
ha un suo canto speciale
e dal canto delle piante sapir
si crea la melodia del pastore.
Quanto è bello
quanto è bello e gradevole
quando si ascolta il loro canto
è molto bello stare tra loro in preghiera
e con gioia servire il Signore.
E dal canto delle piante
il cuore si riempie e anela.
E quando il cuore si riempie di canto
e anela alla Terra di Israele
una grande luce
allora si protrae e dilaga
dalla santità della terra su di lui.
E dal canto delle piante
si crea la melodia del cuore.
(Naomi Sapir Shemer (1930 -2004) cantautrice, compositrice e poetessa israeliana)
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Andrea Zerbini
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