di Marco Revelli
Questo intervento è stato pubblicato su Volere la luna del 1 aprile 2023
Ignazio Benito La Russa ha dato un altro violento colpo di piccone alla Repubblica democratica sulla cui Costituzione ha giurato. La seconda carica dello Stato, ostentando un misto di ignoranza storica, fanatismo nostalgico, disprezzo istituzionale con quell’indecente commento su via Rasella, ha inferto un danno gravissimo, d’immagine e non solo, al Paese che dovrebbe servire “con onore e dignità” e all’Ufficio che così indegnamente ricopre e da cui dovrebbe immediatamente dimettersi.
Ma non è un unicum. Da quando è nato, il governo Meloni ha infilato, a una media di quasi uno al giorno, una serie di atti, dichiarazioni, atteggiamenti tutti egualmente improntati alla insistita ostentazione di sentimenti nostalgici del passato Regime, ispirati al suo autoritarismo, alla sua disumana concezione delle relazioni con gli altri (si pensi alla tragedia di Cutro e al suo seguito, di cui su Volere la luna si è già ampiamente trattato), alle sue peggiori retoriche: si veda la proposta di legge del “fedelissimo” Rampelli di sanzionare con multe fino a 100mila euro chi si macchi del reato di stranierofilia usando parole “non italiane” (sic), o l’uscita di quell’altro genio che vorrebbe introdurre nelle scuole l’insegnamento dell’uso delle armi, magari pensandosi in linea con gli ultimi orientamenti NATO. D’altra parte l’incapacità congenita della premier Giorgia Meloni, nell’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, a usare la parole “anti-fascisti” la dice lunga su cosa lavori nel DNA di questo ceto politico.
Ci si interroga da più parti sul motivo di questa straordinaria gittata di ciarpame anacronistico, fino a ieri confinato nell’angolo oscuro dei raduni di reduci e delle sezioni missine e oggi venuto alla luce del sole come gli umori di una discarica a lungo compressi.
La teoria che va per la maggiore, e che indubbiamente ha solide ragioni dalla sua parte, è quella dell’uso consapevole e spregiudicato di una comunicazione orientata alla ‘distrazione di massa’, dando in pasto a una cronaca giornalistica golosa di scandalismo oggetti considerati tutto sommato secondari per tener lontana l’attenzione dal nocciolo duro della questione, ovvero l’incapacità di questa armata Brancaleone che è arrivata al potere a gestire gli interessi del Paese, in primis la Caporetto del PNRR.
Il calcolo che starebbe dietro la facciata si baserebbe sulla constatazione che quella ‘galleria della vergogna’ di cui si alimenta l’identità neofascista è nota e percepita solo dal nucleo originario di Fratelli d’Italia, i duri e puri che condividono il curriculum politico della loro Capa e sono galvanizzati da quegli esercizi di riesumazione, gli altri, il 20 per cento e passa che si sono aggiunti nelle urne nell’ultima tornata elettorale se ne fregano di tutto questo, sono gli eterni indifferenti che affollano la politica non partecipata. Cosicché sdoganarne l’uso ai più alti livelli istituzionali servirebbe a consolidare lo spirito militante dei fedelissimi della prima ora senza dover pagare nessun prezzo o un prezzo minimo tra la massa dei nuovi followers. Il vero vantaggio starebbe nella possibilità di occultare, dietro il velo nero del nostalgismo fascista di pochi, la propria reale impotenza di fronte alle emergenze sociali ed economiche di tutti.
La seconda interpretazione è quella di chi vede, nell’attuale massiccia sequenza di messaggi perturbanti, il tentativo, consapevole e programmato, di produrre un mutamento sostanziale di egemonia culturale, oltre che politica. La volontà, cioè, di provocare un ribaltamento della ‘narrativa’ che sottende l’identità nazionale, sostituendo all’attuale, sia pur debole e fragile ‘narrativa democratica’ un racconto opposto, ripescato nei meandri di un’autobiografia della nazione piena di ombre e anche di violente cadute, che la cultura e la letteratura dell’Italia repubblicana aveva a lungo tenuto a bada e ricacciato dietro le quinte e che ora si vorrebbe rimettere sotto le luci della ribalta.
Non è raro vedere, nel tempo ‘caduto’ in cui ci è dato vivere, l’imposizione manu militari, per così dire, ovvero con uno stile di comunicazione perentorio e violento, di un insieme di fake news spacciate per verità (storiche, etiche, scientifiche) e offerte come campo di raccolta di eserciti di seguaci politici: l’opera di Donald Trump ne è un esempio preoccupante, in un Paese che si riteneva poco incline a lasciarsi incantare da ciarlataneschi sciamani come l’America.
C’è infine una terza spiegazione, forse la più banale, non necessariamente contrapposta alle prime due ma tendenzialmente sottesa a entrambe, ed è che Meloni e i suoi fratelli agiscono così perché ‘sono così’. Sono fascisti nella radice più profonda della loro identità. E gira e rigira non riescono a nascondere quel loro essere così intimamente radicato, anche se le circostanze consiglierebbero un profilo più basso, e sono portati a esternarlo in una forma che si potrebbe dire ‘compulsiva’ intendendo, con ciò quanto in psichiatria viene riferito a un impulso o a un comportamento “che viene eseguito da un soggetto in modo macchinale e infrenabile” (Treccani). E che trarrebbe la propria forza cogente (a ripetere) dal suo essere radicato in un nucleo problematico dell’identità caratterizzato – sono parole di uno dei maggiori studiosi del fenomeno, Jonathan S. Abramowitz – da elementi come “l’intolleranza per il dubbio, il pensiero magico, la sovrastima della minaccia, la sovrastima della propria responsabilità, l’intolleranza all’ansia” e soprattutto da “dysfunctional beliefs”, pensieri disfunzionali.
Fratelli d’Italia è la costola del Msi che aveva mal digerito la svolta di Fiuggi da cui aveva preso vita Alleanza Nazionale. Erano vissuti con disagio negli interstizi di quella vicenda, in forza dei loro dysfunctional beliefs. E quando finalmente Gianfranco Fini aveva fatto naufragio sugli scogli di Montecarlo avevano tirato fuori la testa, con tutto il repertorio di reliquie e di vecchi busti acquisiti insieme all’intero lascito dell’eredità del peggiore fascismo, quello di Salò, bordeggiando da comparse nelle acque inquinate del berlusconismo calante. Ora, sbalzati sul ponte di comando da una folle tornata elettorale giocata all’insegna del più disastroso masochismo di quanti avrebbero dovuto e potuto contrastarli, miracolati dalla debolezza di Berlusconi e Salvini e dalla insipienza di Letta e dei suoi, non riescono (del tutto) a fingere di non essere quel che sono.
Guardatevi il video della famigerata esternazione di La Russa su via Rasella. Guardatelo nella versione estesa (di un minuto e 33 secondi), e non solo in quella sintetica con i 34 secondi della frase incriminata. Si può cogliere fin dall’inizio il gusto della denigrazione della Resistenza, non solo da parte di La Russa ma del giornalista di Libero Senaldi, che carica pezzi da novanta sulla passione triste del suo interlocutore, come lui coinvolto nella damnatio memoriae dei partigiani, per certi versi più irritante di lui nell’insistenza ad affondare quei colpi che, a un osservatore esterno, potrebbero apparire come un campo minato sotto i piedi del camerata ma che in soggettiva rivelano un incomprimibile gusto della falsificazione storica.
E poi il tono, salottiero, goliardamente cazzeggiante su una tragedia storica immane, con la battuta fatua sulla composizione della lista dei fucilati, dentro la quale ci sarebbe stato di tutto, “forse anche qualche fascista” (sic) se non altro per “ragioni statistiche”, come se si parlasse di un concorso di bellezza, o di una mostra di cani…
E’ lo stile del fascismo quotidiano, quello che prima che come fenomeno storico-politico si esprime come ‘stile di comportamento’, abito mentale, psicologia e antropologia rovesciate rispetto a quelle che Hans Kelsen attribuiva all’homo democraticus.
Scherzare con leggerezza sulla lista di condannati a morte, alla cui compilazione contribuirono tra gli altri uomini che militavano dalla parte a cui vanno evidentemente le simpatie dei due protagonisti della conversazione, indica quella radicale mancanza di empatia – di capacità di coinvolgersi con le sofferenze degli altri – che costituisce appunto uno degli elementi cardine dell’”uomo fascista”. E non cambia nulla che l’indegno Presidente del Senato, dopo la bufera sollevata, abbia balbettato qualche stentata parola di rammarico per qualche parola dal sen fuggita.
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Marco Revelli
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