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Ferrara film corto festival

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Il diritto di emigrare, il dovere di regolare

Sull’immigrazione possiamo avere due posizioni. La prima dice che tutti hanno diritto di farlo, sapendo però che ciò non modifica la situazione esistente, in quanto una immigrazione senza limiti e regole non è voluta, prima ancora che dai Governi, dagli stessi cittadini, i quali, in grande maggioranza, non sono disposti a vedere stravolta la vita delle proprie comunità con l’inserimento rapido di migliaia di disoccupati questuanti. La seconda fa proposte concrete per migliorare la vita di chi vuole emigrare. In tal senso moltissimo si è fatto in vari paesi europei negli ultimi 20 anni, non in Italia.

Il diritto di emigrare è riconosciuto in tutti i paesi per i rifugiati (che scappano da guerre e persecuzioni nei loro paesi) ma varie sono le limitazioni per i migranti “economici”, coloro che emigrano per migliorare la loro vita e che cercano prima di tutto un lavoro decente. L’accoglienza può essere di due tipi:

  1. quella che interessa agli immigrati e che prevede anche un lavoro che apra ad una inclusione;
  2. il “caso Italia”, che prevede vitto e alloggio per un periodo determinato e poi il “si salvi chi può”, cioè un’accoglienza finta che può tacitare la nostra coscienza e li tiene lontani sia dalla nostra vita che dalla loro, in quanto senza lavoro non c’è autonomia.

Affinché ci sia vera inclusione (e quindi anche un lavoro), l’immigrazione non può essere per definizione illimitata. Nessun paese, per quanto prospero e aperto, è in grado di allocare in breve tempo milioni di immigrati al lavoro. Tantomeno un paese disorganizzato come l’Italia, che non è riuscito ad aumentare la sua occupazione dal 1961 ad oggi. La Germania ha accolto un milione di siriani per una emergenza da guerra ed è riuscita (ma in 3 anni) ad allocarne il 60%. Anche in Italia, per via del calo demografico, sono possibili flussi legali annuali di circa 150-200mila immigrati. Ciò ridurrebbe drasticamente il flusso illegale (che rimarrebbe, ma sarebbe più gestibile, con meno sofferenze e morti). Flussi illimitati non solo non sono mai stati sperimentati da alcun paese, ma avrebbero l’effetto di lasciare centinaia di migliaia di immigrati senza lavoro, alla mercé dello sfruttamento.

Quali sarebbero infatti i principali effetti sociali di una immigrazione di massa?

  1. Un abbassamento dei salari dei lavoratori nativi, in quanto molte imprese marginali sfrutterebbero l’eccesso di offerta di manodopera sostituendo lavoratori già poveri italiani con immigrati.
  2. La distruzione di molte comunità locali, in quanto il caos sociale prodotto da un rapido incremento di disoccupati e poveri aumenterebbe tutte le forme di criminalità che sfrutterebbero il bisogno di sopravvivenza di una moltitudine di persone.
  3. Una svolta securitaria nella grande maggioranza delle persone, che porterebbe ad una ulteriore divisione sociale, alla crescita del razzismo e all’ascesa al governo di partiti di estrema destra, come puntualmente è avvenuto nel passato.

Ecco perché in una politica a favore degli immigrati (e dei ceti deboli nativi) e dell’incontro tra i popoli si deve usare la parola chiave “gradualità”. Senza gradualità e proporzionalità la comunità locale si trasforma da accogliente a respingente, i salari nelle professioni non qualificate da medio-alti a medio-bassi… quello che vuole il capitalismo liberista che, non a caso, è a favore della “libera circolazione dei capitali, delle merci, dei servizi e delle persone ” e non assegna alcuna priorità all’occupazione (come prevede la nostra Costituzione ma non i Trattati europei). La destabilizzazione del Medio Oriente da parte degli Stati Uniti, prima con l’Iraq e poi con la Libia, con l’attivazione di imponenti flussi migratori verso l’Europa, è stata la più micidiale politica di distruzione dell’Europa politica, al servizio di una logica (americana) dentro cui l’Europa è solo un grande mercato unico.

L’emigrazione è spesso una scelta dolorosa, traumatica prima di tutto per i bambini. Tutti i popoli preferirebbero vivere dove sono nati e il mondo ideale è quello dove l’emigrazione è una scelta libera e comunque non imposta dal bisogno. Ecco perché, pur coi limiti di una società capitalistica, le politiche più efficaci sono quelle della cooperazione che creano le condizioni, nei paesi poveri, di un loro sviluppo che non sia la “fotocopia” del nostro.

Le multinazionali lavorano per un mondo omologato, individualista e consumista, in cui sia erogato ai poveri un sussidio per ragioni di sicurezza sociale, in modo che la massa dei “paria” (nativi e immigrati) non disturbi il benessere dei più abbienti, e che un eccesso di offerta di lavoro riduca i salari dei dipendenti. Se poi ci sono “lotte tra poveri”, ancor meglio.

Una immigrazione programmata e ordinata è nell’interesse prima di tutto degli immigrati, ma anche dei lavoratori indigeni, dei ceti deboli locali e delle tradizioni stesse dei singoli popoli che il capitalismo finanziario vorrebbe omologare, distruggendo le identità locali, culturali, religiose e spirituali.

Da dove verranno questi immigrati? In gran parte dai paesi i cui connazionali hanno già trovato qui lavoro perché sono apprezzati. Del resto gli immigrati stessi arrivano per costruire una vita migliore, la cui base fondamentale è un lavoro dignitoso. Ed è per questo che moltissimi sbarcano in Italia ma poi vanno altrove.

L’idea che si possano accogliere nelle nostre società “abbienti” (sempre meno capaci di proteggere i nostri stessi ceti medi e deboli) milioni di poveri immigrati senza produrre un ulteriore sfacelo sociale (dalle comunità locali, alla moltiplicazione dei conflitti), è una fantasticheria.

I flussi migratori sono, almeno in buona parte, regolabili come il fluire dei fiumi, che hanno bisogno di manutenzione e cura. Sta a noi decidere se lasciarli alla mercé dei trafficanti e (per i più fortunati) del click day del 27 marzo (un modo per assumere in realtà irregolari) e quindi perpetuare una finzione collettiva o risolvere i problemi nell’interesse nostro e loro.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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