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Il brand washing di Autostrade passa attraverso uno spot seducente ed osceno

 

I bravi pubblicitari sono dei geni del male. Sono gli artefici della proiezione del mondo di armonia, moralità, libertà, potenza e bellezza associato ai brand delle principali aziende multinazionali. Sono i grandi ripulitori dell’immagine del capitale. E’ così da almeno quarant’anni, cioè da quando al dolo commerciale connaturato allo strumento pubblicitario, i committenti hanno preteso di aggiungere una visione del mondo da associare al proprio marchio.  In presenza di una concorrenza planetaria, pubblicizzare la caratteristica peculiare di un prodotto può non bastare, specie se questa caratteristica peculiare non esiste. Occorre veicolare e far passare la potenza di un mondo immaginario, del quale puoi (anche inconsciamente) immaginare di fare parte detenendo, più che quel prodotto, quel marchio.

Una delle prime pubblicità che utilizzò il racconto di un mondo anziché quello di una qualità, riguarda le sigarette Marlboro.  La Philip Morris doveva cominciare a vendere sigarette con filtro, fino ad allora considerate tipicamente femminili, anche agli uomini. Per raggiungere l’obiettivo non puntò sulla riduzione del danno alla salute teoricamente derivante dal fumare con un filtro: puntò tutto su un immaginario virile e mascolino, associato in origine ad un cowboy chiamato Marlboro Man, la cui evoluzione trasformò la figura in un mondo – Marlboro Country – fatto di paesaggi innevati, passeggiate a cavallo, vita all’aria aperta. Nulla a che fare con una sigaretta, ma l’associazione con un immaginario virile e salutare fece decollare le vendite presso i maschi.

 

 

 

Alcune volte l’immaginario evocato c’entra poco con il prodotto, ma risulta efficace nell’aumentarne le vendite. In altri casi, il mondo proiettato rappresenta un autentico rovesciamento di senso: come nelle pubblicità delle compagnie assicurative che mostrano esempi di altruismo e disinteresse, con un totale azzeramento del concetto centrale dell’impresa in questione, cioè erogare delle coperture purché siano largamente inferiori ai premi incassati – che non è scandaloso, ovviamente, ma non ha niente a che fare con il disinteresse.

 

Nonostante le operazioni di ” brand washing” siano innumerevoli, ci sono esempi in cui un vettore collegato ad un immaginario è piegato a pubblicizzarne uno completamente opposto. Questi casi sono particolarmente sgradevoli: anche nel pervertire il senso di un messaggio ci dovrebbe essere un limite.  E’ il caso della nuova, per un verso seducente, pubblicità di Autostrade per l’Italia, ideata dall’agenzia di Luca Josi. Capisco la necessità di rilanciare l’immagine di un’azienda demolita dallo scandalo del crollo del Ponte Morandi, ora che è tornata prevalentemente in mano pubblica – la Atlantia dei Benetton ha infatti venduto la quota di maggioranza ad una cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti. Tuttavia, utilizzare come trailer sonoro di questa ripulitura “La libertà” di Giorgio Gaber non è un’operazione audace o spregiudicata, è un’operazione oscena.

Si tratta di una canzone pubblicata nel 1972, nata dentro un clima già repressivo delle istanze di progresso sociale. Un pezzo ad un tempo perfettamente inserito nel suo tempo e premonitore di una deriva del concetto di libertà, deriva che i visionari Gaber e Luporini già intravedevano:  la libertà come spazio apparentemente libero (l’esercizio di una scelta da consumatore, o di una delega politica, l’uomo che “nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”) dentro una società che ingabbiava questo concetto dentro confini molto rigidi, fuori dai quali arrivava la repressione (vi ricorda qualcosa, a proposito del DDL che stringe il cappio attorno alle manifestazioni di piazza?). E la rivendicazione della libertà come “partecipazione”, proprio quella partecipazione che sempre più spesso manca e latita addirittura nelle sue forme mediate, come appunto la delega politica. E quando sopravvive, la si vuole reprimere.

Cosa ha a che fare una rete autostradale, malmessa e costosa, con questo? Per quale ragione usare immagini di bambini e di maestranze al lavoro (sempre eroica la manodopera quando si tratta di captare la benevolenza mediatica, ricordiamoci degli infermieri al tempo del Covid) mentre Gaber canta di una libertà che non c’entra nulla con una infrastruttura spesso scassata, posseduta fino a poco fa da una concessionaria sotto la cui gestione gli azionisti hanno incassato profitti enormi e i cittadini pagato prezzi variabili, in alcuni casi tragici? Lo so che la proprietà è passata di mano, ma se io fossi il parente di una delle vittime del crollo del Ponte, che effetto mi farebbe questa roba?

Mi meraviglio della Fondazione Giorgio Gaber che ha dato il permesso di utilizzare la canzone per uno scopo così dozzinale, ma immagino che il denaro non puzzi. Quella canzone appartiene ad una memoria collettiva che viene scippata di senso in cambio di soldi. Non era impossibile concepire una propaganda di maggiore sobrietà per rilanciare l’immagine di questa azienda.

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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