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Henri Cartier-Bresson: una distanza che crea empatia.
La grande mostra a Palazzo Roverella di Rovigo: 28 Settembre 2024 – 26 Gennaio 2025

Avevo visto due anni fa la piccola e splendida mostra di Henri Cartier Bresson al MUDEC di Milano. In quella, in primo piano c’era la Cina, attraverso due memorabili reportage, due momenti cruciali della storia del Paese: “La caduta del Kuomintang” (1948-1949) e il “Grande balzo in avanti” di Mao Zedong (1958).

Ora Palazzo Roverella presenta una grande  e imperdibile mostra intitolata Henri Cartier-Bresson e l’Italia”, 200 scatti del grande fotografo che coprono mezzo secolo: dal 1932 (prima visita in Italia di un giovane Cartier-Bresson ancora indeciso se dedicarsi o meno alla fotografia) fino al 1973 (poco prima del suo abbandono al mestiere di fotografo).

Henri cartier-bresson a palazzo roverella di rovigo attimi di bellezza in bianco/nero
Henri Cartier-Bresson, L’Aquila, 1951© Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos

In entrambe le mostre, e in tanti suoi scatti, talmente famosi da divenire iconici, è possibile riconoscere la medesima cifra. Quello “stile” che è stato ammirato, e anche assunto e riprodotto, più o meno bene, da tanti fotoreporter.

Ma di cosa è fatto lo stile di Cartier-Bresson, da dove viene la fascinazione delle sue immagini che catturano lo spettatore? È un  fatto prima di tutto visivo. L’occhio: gli occhi di Cartier-Besson e i nostri occhi. Tra i due, proprio in mezzo, c’è la fotografia.

Henri Cartier-Bresson, 1989.
Charles Platiau—Reuters/Alamy

L’occhio appunto. Henri Cartier-Bresson (1908-2004) è stato definito “L’occhio del secolo”,  ovvero, secondo molti,  il più grande fotografo del Novecento, anche se le classifiche, anche per la “Ottava arte”, non significano nulla e nel Secolo Breve sono stati davvero tanti, anche in Italia, i maestri della fotografia.

È un fatto però che, nel lungo periodo, la fortuna critica di Cartier-Bresson ha superato quella di un altro gigante del fotogiornalismo, quel Robert Capa suo sodale e compagno nella fondazione della celebre Agenzia Magnum Photos.

E a proposito della visione in qualche modo antitetica dei due grandi fotografi, cito (a memoria) una celebre frase di Capa: “Se le vostre foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non siete abbastanza vicino”. 

Ecco, Cartier-Bresson – e le 200 foto della mostra di Palazzo Roverella lo confermano in pieno – non sembra preoccupato di andare troppo vicino al soggetto; anzi è proprio attraverso la distanza che riesce  a raggiungere un comprensione piena ed originale della scena che si presenta al suo occhio.

La distanza gli permette di cogliere l’istante decisivo in fotografia. Scriverà infatti: “Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”.

È noto come Henri Cartier-Bresson, un uomo che ha girato come una trottola tutto il mondo, documentato guerre e rivoluzioni, ritratto decine di grandi personaggi, avesse un carattere riservato, al confine della timidezza. Forse la scelta della distanza rispondeva anche a questa sua indole, al rispetto umano verso il soggetto da fotografare.

Henri Cartier-Bresson, Scanno, L’Aquila, 1951 © Fondazione Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos

Ecco ad esempio le donne in nero sulle strade di Scanno. Come non pensare alle “scale impossibili” di Escher, che ho rivisto in mostra prima a Milano poi a Firenze, ma che non mi hanno emozionato come queste scale di Cartier-Bresson.

In entrambe le opere c’è un magistrale gioco prospettico, un’attenta armonia geometrica, ma in Escher c’è soprattutto il gioco, in Cartier-Bresson l’affresco popolare: una fotografia scattata da lontano, ma che comunica un’intima partecipazione. Un distacco, una distanza che ancora una volta crea relazione, vicinanza, empatia.

Lo stesso si può dire, la stessa vicinanza rispettosa, è in quel giovane Pasolini che parla con due bambini nella periferia romana.

Henri Cartier-Bresson, Pier Paolo Pasolini, Roma, 1959 © Fondation Henri Cartier-Bresson

Oggi che tutto deve essere o apparire extralarge, un’altra cosa colpisce nelle foto in mostra di Palazzo Roverella, ma è una caratteristica di tutti gli scatti di Henri Cartier-Bresson, le dimensioni ridotte. I futuri visitatori sono avvertiti: non aspettatevi gigantografie e immagini da parete, le foto di Cartier-Bresson sono piccole.

Come si sa, l’unico attrezzo del mestiere di Cartier-Bresson era una Leica 35 mm, con ottica fissa 50 mm. I negativi venivano sviluppati manualmente e le foto inviate a quotidiani e periodici di tutto il mondo.  Le stampe, quelle che vediamo in mostra, sono in formato standard, poco più grandi di quelle di un qualsiasi album privato, non superando mai le dimensioni di un foglio A4.

Sono queste misure ridotte che ci invitano ad avvicinarci, a guardare con attenzione tutti gli elementi del quadro, fino a scoprire il focus della fotografia, il punto esatto dove ha mirato l’occhio del fotografo e dove vuole accompagnare l’occhio dello spettatore.

Agli antipodi di Cartier-Bresson, almeno apparentemente, c’è il grande Sebastião Salgado. È lui oggi, come lo erano stati Capa e Cartier Bresson, il caposquadra della agenzia  Magnum, un maestro assoluto, il fotoreporter più acclamato (e copiato) delle ultime tre decadi.

Visitare una mostra di Salgado Periscopio ha ampiamente recensito e documentato la sua ultima e strepitosa AMAZÔNIA [vedi Qui e Qui] è sempre uno shock emotivo. Due anni fa, entrando nella grande sala della Fabbrica del Vapore di Milano dove era allestita AMAZÔNIA, sono stato accolto da uno sterminato cielo amazonico. Le opere di Salgado, a differenza di quelle di Cartier-Bresson, sono “pensate in grande” e in grande formato offerte alla visione.

Gli scatti di quella mostra che non posso dimenticare sono però i ritratti di un gruppo di indios Awà-Guajà scattati in un villaggio dentro la foresta.  I volti, i corpi seminudi, i pittogrammi rossi e neri sul petto e sulle braccia. Ritratti stupendi, anche se la cosa più straordinaria erano la didascalie.

Invece di leggere un semplice “Gruppo di indios Awà-Guajà”, c’erano elencati decine di nomi propri: donne, uomini, bambini, ognuno con il proprio nome. Da sinistra a destra, come nei ritratti di famiglia dell’Ottocento. Perchè Salgado era stato più di trenta volte in Amazzonia, era rimasto settimane e mesi in quei villaggi. Non ritraeva degli sconosciuti, ma persone che chiamava per nome e con cui aveva diviso le sue giornate.

Così diversi Cartier-Bresson e Salgado, surrealista il primo, visionario il secondo, mi pare abbiano in comune, un inestinguibile umanesimo, anche per questo, soprattutto nel deserto contemporaneo, abbiamo bisogno di loro e del loro sguardo.

In copertina: Henri Cartier-Bresson, Siena, 1953 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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