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Mentre l’Italia svolta pesantemente a destra, con il forte risultato di Fratelli d’Italia, nubi minacciose si affacciano nel panorama internazionale, in particolare con l’intensificazione della guerra.
Penso che vada presa molto sul serio la dichiarazione di Putin sul poter ricorrere all’uso di armi nucleari tattiche, non foss’altro perché gli Stati Uniti l’hanno fatto, dicendo, per bocca del consigliere alla sicurezza Sullivan, che tale scelta si porterebbe dietro conseguenze devastanti per la Russia, mettendo in campo risposte conseguenti.

Purtroppo si conferma il punto di vista, inascoltato dalle grandi potenze, che l’alternativa alla ricerca della pace comporta un’intensificazione del conflitto e il coinvolgimento sempre maggiore della Nato e degli USA.

La Nato e USA hanno seguito la stessa strada della Russia e dell’Ucraina: per i primi come per i secondi (i paesi direttamente coinvolti) non esiste altra possibilità se non la vittoria, e non invece una mediazione tra le parti. Questa strada conduce solamente ad un prolungamento sine die della guerra o ad un suo inasprimento, con conseguenze veramente rischiose per le popolazioni coinvolte e vicine.

Non può non colpire la sostanziale inesistenza di soggetti realmente impegnati ad aprire una via per una soluzione negoziata del conflitto – se si eccettua la Turchia di Erdogan, chiaramente poco influente a questo scopo, o le posizioni di Papa Francesco, che però viene trattato dai Grandi della Terra come ‘voce spirituale’, cui si può riconoscere un’autorità morale tanto ossequiata quanto facile da ignorare. In particolare, risulta essere veramente inaccettabile e, per certi versi, stupefacente, la completa assenza di ruolo dell’Europa, del tutto schiacciata sulla lettura della guerra avanzata dall’Ucraina e sostenuta dagli USA.

Ci si maschera dietro la considerazione che “per fare la pace bisogna essere in due” e che da Putin non proviene alcuna volontà in questo senso, o si avanza il ragionamento che l’invasione russa ha violato l’integrità nazionale di una nazione e il diritto internazionale, per concludere che non si può parlare con chi si è macchiato di tale colpa. Come se l’Occidente non avesse fatto altrettanto nel recente passato (basta pensare alla guerra con l’Iraq nel 2003, motivata dalla menzogna, costruita ad arte dal Regno Unito e dagli USA, del possesso dell’arma atomica da parte di quest’ultimo) e bastasse a salvare l’anima la narrazione, altrettanto falsa e propagandistica, per cui saremmo in presenza di un inevitabile contrasto e conflitto, anche guerreggiato, tra “mondo libero” e autocrazie. Salvo poi smentirsi, nel momento in cui si patteggia tranquillamente con Erdogan e lo si considera un pilastro fondamentale della NATO.

Oppure, da parte dell’Europa, si usano pesi e misure diverse nel giudicare il grado di democrazia esistente in Ungheria e in Polonia, due paesi che applicano praticamente le stesse misure liberticide in materia di libertà di stampa, della magistratura e di diritti delle donne e delle diverse identità di genere, ma solo la prima, e non la seconda, viene sanzionata dal Parlamento europeo.
Viene da pensare, maliziosamente, che l’una, a differenza dell’altra, sia schierata dalla “parte giusta della storia” e che c’entri poco l’effettivo livello di diritti e libertà esistenti.

Questa situazione, per cui la guerra è tornata ad essere lo strumento normale di intervento nelle controversie internazionali, trova le sue radici in guasti profondi e non di breve periodo.
Non basta a dare ragione del conflitto tra Russia e Ucraina – e di tanti altri, spesso dimenticati, che ci sono nel mondo, da quello in Siria alle vicende libiche – l’intenzione imperialistica ed espansionistica della Russia o il progressivo allargamento della Nato verso l’Europa Orientale degli ultimi decenni, questioni peraltro entrambe reali e che hanno a che fare con la guerra in corso.

Siamo, però, in presenza di dati più strutturali, che vanno guardati e affrontati per poter dare risposte non solo contingenti e tornare a fare della pace una possibilità concreta e non puramente un’esigenza astratta.
Il primo punto è che il ricorso alla guerra è uno degli esiti del tipo di globalizzazione che ha preso forma negli ultimi decenni e che ha di fatto prodotto un mondo multipolare, non più dominato dall’unica grande potenza, gli USA, rimasta dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1989.
La globalizzazione, originata per ridare fiato al capitalismo occidentale in crisi sia sul versante della diminuzione dei margini di profitto sia su quello degli sbocchi di mercato, ha creato un unico grande mercato mondiale, ma ha prodotto anche l’emergere di nuove grandi potenze mondiali e regionali, in primis la Cina, ma anche l’India, il Brasile, la stessa Russia ed altre ancora, che si affiancano agli Stati Uniti e a quella strana creatura, a metà tra entità statuale e area mercantile unificata, che è l’Europa.

La globalizzazione ha prodotto anche un nuovo capitalismo globale, con tratti differenti tra i diversi Stati, in quanto a regimi di governo e nel rapporto tra ruolo dello Stato e del mercato – dagli USA improntati al primato delle logiche ‘pure’ di mercato al capitalismo di Stato della Cina – ma tutti accomunati dalla ricerca del profitto economico come leva fondamentale del modello produttivo e sociale. Ma anche in competizione tra loro, alla ricerca di posizioni maggiormente vantaggiose e di supremazia nello scenario mondiale, sempre misurate in termini di rapporti di forza economici e politici.

Una situazione inedita, sopportata malamente dai diversi attori: dagli Stati Uniti, che fanno fatica a rassegnarsi a non essere più l’unica superpotenza mondiale, agli altri Stati emergenti, a partire dalla Cina, che reclamano un ruolo più significativo e che lo rivendicano mettendo in campo forti spinte nazionalistiche.

In questo quadro maturano scontri commerciali, ricerca di maggiore influenza nelle aree meno sviluppate, dall’Africa al Sud America, corsa all’accaparramento delle materie prime strategiche e anche potente spinta al riarmo. Testimoniata dal fatto che nel 2021 la spesa militare mondiale (USA e Cina in testa, rispettivamente con 801 e 293 miliardi di $) ha superato per la prima volta il record storico di 2.000 miliardi di $, raggiungendo precisamente la quota di 2.113 miliardi, con una crescita dello 0,7% rispetto al 2020 e un aumento del 12% in 10 anni.

Per certi versi, sembra di essere tornati a dinamiche che ricordano vagamente quelle dei conflitti interimperialistici degli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale. Con la differenza di fondo che oggi il mercato è su scala globale e non solo europea, che la superpotenza declinante sono gli USA e non il Regno Unito e che gli Stati in campo sono ben altri.

Ad accentuare gli squilibri e i conflitti potenziali connessi alla globalizzazione, paradossalmente, si è aggiunta la crisi della stessa. Sono 2 le date spartiacque.

La prima è la crisi del 2008, che ha segnato contemporaneamente la fine del ciclo espansivo della finanza e dell’egemonia economica-industriale degli USA. A questo proposito, basta menzionare che, a partire dal 2012, il valore aggiunto del settore manifatturiero della Cina ha superato, e non di poco, quello degli Stati Uniti e dell’Europa a 28 stati (più di 2.500 miliardi di $ a prezzi costanti della Cina a fronte di poco più di 2.000 miliardi di $ sia degli USA che dell’Europa).

La seconda è la crisi pandemica di questi anni, che ha avuto come effetto assolutamente rilevante il blocco delle catene lunghe di fornitura dei semilavorati e dell’energia, che la guerra in Ucraina ha ulteriormente aggravato, e la stessa rinazionalizzazione delle produzioni.
Fa una certa impressione vedere, ad esempio, come le principali aree omogenee del mondo si stanno ciascuna attrezzando per incrementare la loro produzione interna di semiconduttori, dall’Europa agli USA, dall’India a Taiwan, per non parlare della Cina che, con il proprio Made in China 2025, prevede di portare la produzione domestica dal 7% al 70%. Oppure, per stare a vertenze emblematiche, guardare come la ‘delocalizzazione’ dello stabilimento triestino Wartsila, con 415 licenziamenti annessi, avviene per il rientro nella madrepatria finlandese.

Insomma, crisi e squilibri economici, guerre commerciali, nazionalismi e instabilità sono destinati ad ampliarsi nella prossima fase di “deglobalizzazione selettiva”, come è stata eufemisticamente definita, potenzialmente foriera del rafforzarsi delle tendenze alla guerra.

Per questo non possiamo rimanere inermi spettatori. E’ venuto il tempo di rilanciare un grande movimento per la pace e il disarmo, almeno su scala europea, come si è riusciti a fare in epoche passate.
Un’occasione importante può essere rappresentata dall’incontro dei movimenti sociali europei prevista per il 10- 13 novembre a Firenze, a vent’anni di distanza dal Forum Sociale Europeo tenutosi lì nel 2002.

Messa al bando delle armi nucleari, stop al riarmo e riduzione drastica delle spese militari, immediata cessazione del fuoco e tregua in Ucraina, rilancio di una Conferenza internazionale di pace e per la sicurezza internazionale sono gli obiettivi semplici, ma decisivi per provare a costruire un’inversione di tendenza in un mondo che già oggi, come dice Papa Francesco, vede svolgersi una Terza Guerra Mondiale a pezzi e che rischia di andare verso una vera e propria guerra mondiale.
Avendo peraltro presente che tale prospettiva non può essere disgiunta dall’idea di prospettare un nuovo ordine mondiale e di ragionare sul fatto che mercato, competitività, disuguaglianze non possono costituire le stelle polari della realtà odierna. Che, detto in altri termini, il capitalismo, nelle sue varie declinazioni, non può essere considerato l’unico orizzonte possibile per il futuro dell’umanità.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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