Gruppo e Comunità (2) /
Come continua la storia: I have a dream
Tempo di lettura: 6 minuti
Eravamo tutti lì per lo stesso motivo. Almeno ci sembrava… Per verificarlo, dedicammo il primo incontro a raccontarci quale sogno avevamo.
[Se non l’hai ancora fatto, leggi prima Gruppo e Comunità (1): Chi ben comincia…
Paola ci accolse in una grande sala, con le sedie predisposte in cerchio. Ci spiegò poi che il cerchio era una forma che facilitava l’inclusività e la reciprocità. Permette di vedersi in faccia e di trovarsi lungo un immaginario filo che collega tutte e tutti.
Questa disposizione favorisce alcuni tipi di riunione, come quella che aveva in mente.
Cosa vi muove? Perché siete qui?
Ci propose di raccogliere le motivazioni che ci avevano portati ad entrare nel gruppo su un grande cartellone. Lo chiamò “il Guardiano”.
Lo avremmo ritrovato ogni volta, silenzioso, ad attenderci e a ricordarci i motivi profondi del nostro agire assieme. Ci avrebbe ricordato la posta in gioco.
Paola faceva di mestiere la facilitatrice e ci spiegò che, nelle fasi iniziali in cui un gruppo si forma, è importante condividere le motivazioni ideali e profonde, quelle che spesso si danno per scontate. Mentre parlava, andavo con la memoria a tante riunioni che avevo frequentato e mii rendevo conto che sono frequentemente caratterizzate da un confronto di idee, pensieri o cose da fare ed organizzare.
Più difficile stare sui perchè.
Che erano motivi basati su bisogni profondi lo capimmo subito.
Ci sedemmo in cerchio e ciascuno fu invitato a rispondere alla domanda: Perchè sei qui?
L’invito era di connettersi con la propria “pancia”, con la parte più emozionale di quelle motivazioni, lasciando per un attimo in stand by la testa.
Non era mica facile. Ci stava chiedendo esprimere i propri sentimenti e non le proprie idee. Non siamo abituati.
Stefania prese subito la parola, quasi non aspettasse altro e, tutto d’un fiato e con molta emozione disse: “Sentire di aver finalmente trovato persone con cui condividere l’ansia e la preoccupazione per la crisi climatica e quello che comporterà nella nostra vita e soprattutto nella vita dei nostri figli, mi dà sollievo e conforto. Sono anni che leggo e mi documento e provo molta angoscia e senso di impotenza. Ho bisogno di attivarmi, di sentire che ancora ha senso agire e tentare almeno di ridurre il danno. Vedere tante persone a pochi chilometri da noi perdere tutto per una alluvione mi spaventa terribilmente.”.
La voce di Stefania si strozzò, in un attimo di commozione. Con la coda dell’occhio vidi che anche Laura si era commossa. ‘Eco ansia’ la chiamano. L’angoscia derivante dalla presa d’atto che la catastrofe climatica in cui siamo immersi è molto più grande, globalizzata e degenerata di quanto si creda comunemente.
Paola con delicatezza, lasciò qualche momento di silenzio, per permettere a tutto il gruppo di stare in questa emozione che era arrivata così forte.
Senza fretta di mettere nuove parole. Dopo un po’ Giorgio riprese il filo. Con una leggera timidezza, ci disse che soprattutto da dopo il lockdown sentiva il bisogno di stringere relazioni. L’isolamento era stato molto difficile emotivamente. Si era accorto di quanto le nostre vite siano diventate delle corse frenetiche al fare fare fare…. E di quanto i rapporti si fossero fatti superficiali, frettolosi.
Desiderava quartieri più vivibili, meno anonimi. Un ritmo più lento. Fantasticava angolini di piazza, con tavolini e panchine che favorissero la socializzazione, magari sgomberi dalle auto, dove i bambini potessero giocare, come quando era piccolo. “Forse sarà perchè sto invecchiando, ma ricordo con tanta nostalgia come erano le nostre strade alcuni decenni fa, quando il ritmo della giornata era più lento e i rapporti apparivano più solidali e gentili”.
Giorgio pensava che favorire una socialità diffusa nella città, fosse un modo per rafforzare la coesione sociale e un vicinato di prossimità. “Come fanno i cittadini a condividere i propri bisogni e idee se non ci sono spazi in cui conoscersi e ritrovarsi? Una socialità diffusa, ecco perchè sono qua”, concluse.
Poi fu il turno di Davide. Avrà avuto una trentina d’anni. Appena aprì bocca, capimmo subito che era un tipo molto carismatico. I più rimasero con gli occhi sbarrati, come ipnotizzati. Aveva la naturale capacità di infiammare i cuori, di formulare delle frasi brevi, efficaci, che facevano leva sulla necessità di prendersi il proprio pezzo di responsabilità personale, di rompere l’indifferenza e l’individualismo: “Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano. Io ho un sogno. Che in questa città, i cittadini possano mettere a disposizione i propri talenti e competenze per il bene di tutti. Potremmo censire questi talenti e competenze. Vi immaginate che laboratorio di saperi avremmo a disposizione?”
Poco alla volta il giro terminò e guardammo il Guardiano. Si era riempito di parole chiave che Paola aveva diligentemente riportato via via che ciascuno parlava. Erano parole che avevano risuonato in noi. Nel cerchio si era creata un atmosfera particolare, piena di intensità, di stupore, come un brivido ci correva lungo la schiena… e un motto di speranza. nel cuore.
Tornammo a casa un po’ scossi, quasi disorientati. Era successo qualcosa tra noi in quel cerchio.
IL CERCHIO D’ORO
Con questa rappresentazione, Simon Sinek, scrittore e saggista inglese, propone un modello interpretativo per spiegare per quale motivo alcuni gruppi (e team di lavoro) funzionano efficacemente, hanno successo rispetto alla mission per cui nascono ed altri no, nonostante siano composti da persone molto competenti.
Alla base della interpretazione che propone vi è la biologia, non la psicologia.
Di solito nei gruppi umani si procede dall’esterno all’interno; dal COSA al COME, sorvolando o accennando appena al PERCHE’. Procedere dall’esterno (dal COSA) all’interno (PERCHE?) implica l’attivazione della neocorteccia, la zona cerebrale di più recente costituzione e deputata al linguaggio, al ragionamento, alla razionalità e al pensiero analitico. Tutte funzioni importantissime ma non legate all’azione e al comportamento.
In altre parole, se comunichiamo dall’esterno all’interno, la gente comprende quello che diciamo come benefici, fatti, numeri, ma questa comprensione non guida il comportamento. E se comunichiamo solo a questo livello, è molto facile entrare in conflitto sulla sfera del pensiero e delle idee.
Quando invertiamo la direzione e comunichiamo dall’interno all’esterno, dal PERCHE’ al COSA, parliamo direttamente alla parte del cervello che controlla il comportamento, ovvero al sistema limbico. Questo sistema comprende una serie di strutture cerebrali e un insieme di circuiti neuronali presenti nella parte più profonda e antica del telencefalo, connessi al lobo limbico e correlati alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.
E’ implicato nella sfera delle emozioni, dell’umore e del senso di autocoscienza, che determinano il comportamento dell’individuo.
Quando riusciamo a comunicare dall’interno (il PERCHE’) all’esterno (il COSA), parliamo direttamente alla parte del cervello più arcaica, quella che muove all’azione.
Ciò significa che non dobbiamo parlare del come fare le cose e di quali cose occuparci?
No, significa che prima dobbiamo ascoltare e condividere cosa ci muove all’azione.
E lo si trova nelle nostre viscere. “Splagchnizomai“, l’amore viscerale, quello che muove le montagne. Quello bisogna andare a cercare per prima cosa. Quello la gente riconosce e per quello è disposta ad impegnarsi e, a volte, a dare la vita.
Simon Sinek, motivatore e consulente di marketing, in questo TED, spiega come una leadership efficace comincia con con un “cerchio d’oro” e la domanda: “Perché?”
Le organizzazioni più innovative, coinvolgenti ed efficaci agiscono e comunicano attraverso meccanismi alla cui base vi è la biologia, non la psicologia.
In copertina: friendship-affective-bond-that-unites-us-to-people – immagine tratta da baiug.org
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Anna Zonari
Commenti (1)
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Molto interessante. Sembra perfino facile…. ma allora perchè non si fa?