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“Le tenebre non l’hanno vinta”

«Egli era la vita
e la vita era luce per gli uomini.
Quella luce risplende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta»
(Gv 1,4-5)

La Pasqua è tutta qui, in questa manciata di parole, prodighe sementi del buon Seminatore nella vita di tutti. Parole nascenti già nel prologo giovanneo, che fanno eco a quelle pronunciate fin da principio nel libro genesiaco quando «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». Là una parola ruppe il silenzio e disperse le tenebre: «“Sia la luce!” E la luce fu.» (Gn 1,2-3)

La Pasqua è tutta qui, nell’atto del passaggio dall’oscurità alla luce, dal silenzio alla parola. E tuttavia la Pasqua è anche oltre, sempre al di là, interrogante, sorgiva, come la luce che entrò e uscì da un sepolcro vuoto per la pietra rotolata via.

Allo stesso modo lo Spirito del Risorto, che in principio aleggiava sulle acque, nella Pasqua, già ora, «scova, strappa dalle tenebre le cose più recondite e trae le oscure alla luce» (Gb 12, 22) e continuerà a irradiare fin nell’ultimo scorcio, fin nell’ultima riga dell’Apocalisse come lampada orante insieme ai credenti, a chiamare fuori, a invocare la fonte stessa della luce: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”… Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù/ Marana tha» (Ap 22,20).

«La luce che viene è una voce che parla» (Fabio Pusterla)

Certo la Pasqua, come la luce, nel suo passaggio è un’immagine del mondo visibile e nondimeno rivelativa di quello invisibile. Essa delimita i contorni delle cose senza esserne delimitata. L’informe ritrova nella luce incorporea la sua forma; ma linee, volume, spazialità, non delimitano la luce e neppure la Pasqua.

Essa abita i confini e dischiude al contempo l’infinito, come uscendo dalla sua insondabile profondità. La “Pasqua-luce” dà senso alla nostra limitatezza aprendola sempre di nuovo all’illimitato e, all’insperato, disvelando il nuovo. Pasqua è una parola di luce generativa di cammini di luce dentro ogni oscurità. È nomade la luce, ma non senza una meta: così è della Pasqua, Pasqua per noi, Pasqua di tutti.

C’è una fedeltà della luce anche alle parole: sono «come l’olio che dorme nel lume, e che ben presto tutto si cambia in bagliore». Fedeltà non solo alle Scritture o ai loghia evangelici, ma alla stessa parola poetica che nel suo passaggio, nella sua Pasqua, può diventare luce aurorale, preconio pasquale, soffio e volo, attimo fuggente che si perde agli occhi e nondimeno trasparente alla luce dell’aurora che l’ha baciata:

La notte non è quel che credi, rovescio del fuoco,
crollo del giorno e negazione della luce,
ma sotterfugio necessario ad aprirci gli occhi
su ciò che resta irrivelato se lo rischiari.
A te parlo, mia alba. Eppure questo
non è che un volo di parole in aria?
È nomade la luce. Chi baciasti
si fa chi fu baciata, e poi si perde.
Ancora una volta, l’ultima, nella voce che l’implora,
si levi dunque, e risplenda, l’aurora.
(La luce dell’alba, Ph. Jaccottet, in Il barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, Einaudi, Torino 1992, 91).

Poesia è dire con la voce della luce

Philippe Jaccottet (1925-2021) ricorda Jean Starobinski è “poeta della nascita del giorno” così come del suo morire, della luce nascosta nell’oscurità: «L’incertezza è il motore, l’ombra è l’origine … In me, tramite la mia bocca, ha sempre parlato la morte. Ancora sostenuto dall’interminabile tenebra/ e alla schiena sospinto dalla notte brutale/ estenuato in quest’ alba di novembre/ vedo il vomere del freddo che avanza e divampa/ e, indietro, la terra solcata dall’ombra/ con sempre più luce» (ivi, 179).

Se la poesia è «la voce della morte», tuttavia nella terra arata dall’ombra di morte è la voce/verso della luce – con sempre più luce – che risale dal suo sprofondo.

Parola-passaggio della luce è la poesia come quella dell’annuncio pasquale, spazio aperto dalla luce che lotta con le tenebre, prodigioso duello: morte e vita si sono affrontate – dice la sequenza liturgica – ma le tenebre non l’anno vinta: «luce al suo culmine è forse lo strumento del passaggio dentro ciò che non può più essere né luce né oscurità» (Passeggiata sotto gli alberi, prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, Milano 2021, 112).

Come l’ombra della luce quella di Jaccottet è allora una poetica dell’Inafferrabile nel quotidiano, dell’Illimitato che affiora nel limite, dell’Inavvicinabile sentito vicino. È l’Impercettibile fattosi udibile, lo smisurato che si fa misura, l’inatteso che da sempre e in ogni cosa è ricercato e atteso.

«Riuscii così, per diverse settimane, a non creare ostacoli alla luce esteriore; sentii la felicità di una rinascita. Ma non ebbi la saggezza di tenerla segreta: ero troppo felice, troppo rassicurato, troppo pieno di uno spirito nuovo. E di nuovo tutto fu perso, non so per quanto tempo: forse finché non smisi di pensarci.

La poesia dunque è quel canto che non si può afferrare, quello spazio in cui non si può restare, quella chiave che tocca sempre riperdere. Cessando d’essere inafferrabile, cessando d’essere incerta, cessando d’essere altrove (si dovrebbe dire: cessando di non essere?) si abissa, non c’è più. Questo pensiero mi sostiene nelle difficoltà» (ivi, 124).

Così, tradurre il senso oscuro e luminoso dell’esistenza nella parola poetica è simile al tradurre la Pasqua nella vita di ogni giorno. Si è chiamati a frasi ricettacolo, divenendo uditori di una parola e di una luce d’altri, estranea e tuttavia vicinissima, al fine di darle voce, esserne risonanza attraverso tutto il nostro essere, la nostra lingua e il nostro agire fattosi permeabile anzi trasparente. Una forma, una trasparenza e un linguaggio nuovi a ciò che abbiamo ascoltato, a ciò che ci è venuto incontro.

Starobinski ricorda come, nei testi di Jaccottet, il richiamo continuo alla fine e al morire sia intrecciato al suo amore dichiarato per la luce: «Sì, egli l’ama tanto da voler che essa circoli tra le parole da lui tracciate, tanto da non scrivere mai una sola riga che non sia un itinerario di luce per il lettore, quand’anche parlasse dell’ombra e della notte».

Il suo – scrive Starobinski – è un “parlare con la voce della luce” (Parlare con la voce della luce, in Il barbagianni, 175). Nella sua poetica la luce fiorisce dagli steli insieme alle parole divenendo una liturgia, un canto alla luce: «C’è solo la fioritura naturale della luce in parole, come una sorta di culto reso dall’uomo alla luce» (ivi, 108).

La forza della poesia di Jaccottet non è da cercare né nell’ingegnosità combinatoria né nella creatività improvvisatrice: per Starobinski risiede piuttosto in una relazione e aderenza alla realtà; nel porre questa al centro.

Vi è anche nella sua prosa poetica «una costante esigenza di verità: esigenza tanto più imperiosa quanto meno essa è sostenuta da qualsivoglia sapere presuntivo, da una qualunque convinzione invariabile. Unico garante: la relazione interrogativa ch’essa intrattiene con il mondo.

Occorre infatti precisare che per Jaccottet la verità – così difficile da salvaguardare in mezzo a tutte le menzogne che ci assediano – non è una credenza, né un sistema d’idee, e nemmeno un’intimazione del sentimento. Essa si rivela nella qualità di una relazione con il mondo, nell’esattezza sempre rinnovata del rapporto con quel che ci sta di fronte e che ci sfugge» (ivi, 171-172).

E, tuttavia

«Quiete della notte, vicino allo spuntar dell’alba. Lo spazio intermedio, l’aperto recinto, forse la mia sola patria: il mondo che non si limita alle sue apparenze e che non si amerebbe a tal punto se non comportasse quel nocciolo invisibile che un poema come quello di san Giovanni della Croce fa risplendere meglio d’ogni altro; proprio come non si saprebbe amare una luce che ne implicasse la dimenticanza o il rifiuto» (Ph. Jaccottet, E tuttavia, seguito da Note dal Borto, Marcos y Marcos, Milano 2006, 73).

E, tuttavia” è il titolo di una raccolta poetica di Jaccottet nella traduzione di Fabio Pusterla. Tuttavia è avverbio e congiunzione composto da tutta” e via per indicare una continuità, meglio lo svolgimento di quando accade strada facendo; l’incontrare ancora qualcosa oltre il già camminato e il già compreso.

Accanto al percorso fatto, ecco una nuova circostanza, un fatto nuovo; la luce da un’altra prospettiva fa intravedere e disvela quella ancora in ombra. L’uso di tuttavia dice che la strada è questa, non muta; è così e, nondimeno, è aperta perché contiene o congiunge altro in positivo o in opposizione.

Con il titolo Et, néanmoins/E, tuttavia, Jaccottet esprime così l’ambivalenza dello sguardo che passa dall’uno ai molti, da qui a là, transitando dal già al non ancora. Sguardo che tiene insieme come il respiro il fuori e il dentro o come il soffio l’in-alto e l’in-avanti; che entra nell’oscurità come nella luce, che segna quel tratto di strada, la sola e unica via che è dato vivere a ciascuno.

Parole entro uno “spazio intermedio” e tuttavia “aperto recinto” perché comporta un prima e un dopo; spazio in cui, improvvisa, guizza la luce al modo in cui balena dentro i salici un Martin pescatore, le ali di un blu-verde come pietra di malachite, un azzurro brillante come lapislazzulo la livrea, il panciotto infine: un’opale di fuoco, come l’arancione del quarzo di corniola.

Occorre così allenare lo sguardo ai passaggi repentini passando dai luoghi d’ombra o di luce, renderlo penetrante o dilatato, aguzzo e tuttavia panoramico. È lo sguardo, infatti che per primo intravede un passaggio, un’apertura: «il problema del nostro animo è aprire dei passaggi segreti nei muri piuttosto che ammassare blocchi di marmo o edificare templi» (ivi, 40).

Il “Martin pescatore” è reminiscenza in Jaccottet della poesia di G. Hopkins, intravisto pure da lui come un gioiello alato, apparsogli e subito involato nell’scurità del fogliame e tuttavia non senza avergli suscitato in cuore queste parole:

Come il martin pescatore balena

Una sola volta basterebbe, per cosa? Per dire cosa?
Un solo lampo di piume
per lasciarti capire che la morte non è la morte?
Cacciatore, non prendere la mira: questo uccello non
è preda.
Guardalo, ma non prendere la mira, raccogli soltanto
il lampo delle piume tra i canneti e tra i salici.
Che allea tra le sue piume sole e sonno.
Non hai mai amato i gioielli più di tanto, lo ricordo.
Ma un gioiello alato, un gioiello dotato di cuore?
Un lampo selvaggio e che forse ti deride, come un tempo
certi sguardi?
Il martin pescatore balena dentro i salici.
È balenato.
E se qualcosa di simile bastasse per uscire dalla tomba
prima ancora di esservi adagiato?
(ivi, 49).

Noi, come gli alberi, i primi servitori della luce

Dialogando con il suo interlocutore durante la “passeggiata sotto gli alberi” Philippe Jaccottet racconta: «La luce è una forza inaudita e penso che l’amiamo più di ogni altra cosa, ma siccome le grandi passioni ci appaiono raramente, tramite l’impercettibile vibrazione della mano di una donna, oppure attraverso una lacrima subito asciugata, cosa sapremmo noi della luce se non ci fossero questi pioppi ad accoglierla e a illuminarcisi?

Più tardi, con tutte le loro foglie, ci faranno scoprire il vento. Evidentemente mi sono espresso male, ne convengo. Tuttavia non sente, forse oscuramente ma profondamente come me, che in questi incontri c’è la manifestazione di un alto grado di realtà e allo stesso tempo una sorta d’apertura o di cammino per lo sguardo?

Deve pur esserci una ragione della nostra felicità sotto questi alberi. Ciò che posso dirle finora, in modo del tutto provvisorio e con l’ingenuità e l’incertezza inscindibili dai suggerimenti della nostra voce profonda, è che ai miei occhi gli alberi sono i primi servitori della luce e conseguentemente – se mi permette questa follia un po’ improvvisa – che, una volta liberati dalla nostra condizione di fantasmi, è la morte a illuminare le nostre giornate.» (Passeggiata, 87-88)

E, tuttavia, il bagliore ostile della morte non spegne il lucignolo fumigante che alimenta nel la brama dell’Assoluto: «Si capisce che è verso la terra che ritorno, che non mi è possibile non ritornarvici: ma come potrei negare questa brama dell’Assoluto e, in seno all’amore per una vita resa abbagliante dalla morte, l’orrore di una morte resa inaccettabile dalla vita? Se l’Assoluto sfugge alla parola, sfuggirà alla negazione tanto quanto all’affermazione e non smetterà d’affascinarci» (ivi, 41).

Nell’inno dell’ottava di Pasqua si legge:

Ecco il gran giorno di Dio,
splendente di santa luce:
nasce nel sangue di Cristo
l’aurora di un mondo nuovo.
La colpa cerca il perdono,
l’amore vince il timore,
la morte dona la vita.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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