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Un giovedì di metà novembre ci troviamo presso una nota birreria della zona io, il direttore e Marco Belli, per una sana chiacchierata tra amici.  Sembriamo un po’ il Corsaro Nero, l’Olonese e Michele il Basco che tra i fumi di una bettola delle Tortue organizzano l’assalto a Maracaibo.

Marco, oltre a essere un grande amico, è insegnante, fotografo, sommelier e direttore artistico di Elba Book festival, collabora con l’editore Millebattute e organizza workshop di scrittura e fotografia per l’Europa ed è parte integrante del collettivo di scrittori spallini L.A.P.S. Nel 2015 esordisce con “il romanzo dell’ostaggio” (Koi Press), nel 2018 “Adagio polesano” (Babbo morto editore) e con Edicola Edizioni ha scritto “Uno sbaffo di cipria” e “Canalnero”. Un intellettuale eclettico, un misto tra Gramsci e Costante Tivelli, uno scrittore che conosce i tempi del romanzo e gioca con le parole come un autore consumato; insomma, l’è fòrt. Quello che segue è il resoconto, vagamente fedele, di quella serata.

 

Periscopio: perché il giallo? Hai seguito la scia del Montalbano di Camilleri?

Marco: intanto perché ho sempre amato il genere, dal tenente Colombo a Derrick in TV, la Signora in Giallo, ecc. Inizio a leggere tardi, verso i sedici anni. Oltre alla poesia sono attratto dai gialli.

Periscopio: Quindi ora la poesia non la “pratichi” più?

Marco: diciamo che di tanto in tanto ci ricasco, mi piace inserirla nei miei romanzi, alle volte anche come forma enigmistica nei miei gialli. Il “negativo” leopardiano l’ho inserito anche nel mio primo romanzo. La mia passione per il giallo è il motivo per cui da esordiente ho iniziato da lì. Quando ho una storia spesso mi capita che inizi da un cadavere. In Italia forse il genere non è ancora stato del tutto sdoganato, ma io, frequentando gli amici di Giallo Garda, ho avuto la fortuna di confrontarmi con magistrati e studiosi che mi hanno fatto crescere molto. Negli Stati Uniti e in Inghilterra si studia il genere.

Periscopio: ho conosciuto Oreste del Buono, padre del genere giallo in Italia. Quali sono i tuoi autori preferiti?

Marco: Se mi chiedi i tre giallisti che mi hanno segnato in qualche modo ti dico che sono partito dai racconti di Poe, che continua ad essere un punto di riferimento importante per me. Poi sicuramente Dürrenmatt, (Il Giudice e il Boia) e Manuel Vasquez Montalban, un autore che mette insieme il giallo e la mia passione per l’enogastronomia, un autore fondamentale per la mia formazione.

Periscopio: Montalban parla anche di calcio…

Marco: Calcio, cibo e militanza politica mi avvicinano molto a Montalban, oltre al fatto che lui è uno dei massimi esponenti del giallo classico, il genere che io prediligo. Mi piace meno il giallo che vira verso il thriller. Sono un giallista che utilizza i tempi classici, con accelerazioni magari improvvise, senza essere adrenalinico e frenetico.

Periscopio: Perché hai utilizzato la figura di Elizabeth come personaggio dei tuoi romanzi? E’ vero che hai ritagliato la figura di Vivian prendendo spunto da Elizabeth?(ndr: Elizabeth Rose Alper è una famosa clochard che viveva a Ferrara, deceduta di recente)

Marco: Elizabeth l’ho vissuta intimamente, in quanto fondatore assieme ad altri amici del Circolo “La Resistenza” posso dire di essere stato suo amico. Mi occorreva una donna, un personaggio un po’ particolare, curiosa, magari un po’ logorroica, ma allo stesso tempo raffinata, a suo modo. Ero alla Resistenza, Elizabeth era lì, mi stressava, mi faceva un milione di domande, io ero stanco, ero appena tornato da scuola; cominciai allora a scrivere di lei, avevo voglia di un personaggio un po’ marginale, fuori dalle righe, originale, senza armi, che non fosse uno sbirro. E ce l’avevo lì davanti. Mi domandai a un certo punto: ma lei può avere le caratteristiche che mi servono? Si, è un personaggio che vede, che guarda, ha tempo per guardare, in un ipotetico pedinamento può passare inosservata in quanto “barbona”. In più lei è un medico, nel senso che è realmente laureata in medicina. Alla fine, pensandoci, quanti detective sono meno dotati di lei. Da lì sono partito e sono andato fuori a cena con lei, anche perché non era per nulla scontato che accettasse di essere ritratta fra le pagine di un libro, anzi di esserne il personaggio principale. All’inizio avevo scritto un personaggio molto simile a Elizabeth, molto spigoloso, poco empatico, paranoico, ma l’editore mi ha suggerito che occorreva smussarne gli angoli. Ne ho parlato con lei, ha letto i libri e alla fine ci ha preso gusto.

Periscopio: tra l’altro lei partecipava alle riunioni, andava all’università, alle manifestazioni…

Marco: e abitava alla Resistenza…

Periscopio: Hai lavorato con un editor?

Marco: La casa editrice con cui collaboro, non lo dico io, ha uno dei migliori editor della micro editoria italiana. Per un libro di Vivian occorre il lavoro di quasi un anno.

Periscopio: Ho notato che nei tuoi libri i cattivi sono molto cattivi e i buoni sono molto buoni, mancano le sfumature e i grigi. E’ una tua scelta?

Marco: Nel primo romanzo esiste un taglio abbastanza netto tra il bene e il male, nel secondo il cattivo sembra “buono” per quasi tutto il libro; nel terzo, che sto scrivendo in questo periodo, i grigi sono toni ben presenti nel romanzo. Sono partito da una situazione di bene contro male, nel secondo abbiamo visto che l’omicida è un misto, nel terzo le responsabilità saranno più condivise.

Periscopio: Il terzo sarà quindi il più “taoista” dei tre?

Marco: Sì, come viene naturale ambientando la vicenda in un territorio come quello del Polesine, dove vi è una grande predominanza di acqua, di fango, dove le cose si mischiano continuamente, dove l’acqua non è mai limpida e dove la terra non è mai solo terra. Sostanzialmente nel terzo romanzo questi intrecci saranno ben presenti. Ho cercato di fotografare i luoghi e metterli sulla pagina scritta, credo di essere più bravo a raccontare la psicologia dei luoghi rispetto a quella delle persone. Grazie al cielo ho una compagna psicoterapeuta, che nella terza indagine di Vivian dovrà darmi una mano.

Periscopio: Quando ci si può definire scrittore? Ad esempio io credo che chiunque abbia giocato con una maglia bianca e un numero scritto sulla schiena col pennarello può definirsi un calciatore, è la stessa cosa per chi scrive?

Marco: credo le due cose siano in parte sovrapponibili, anche se non possono essere fatte insieme: nel senso, se fai una non fai l’altra… il gioco, l’odore della canfora, il rumore dei tacchetti, mi manca come a un tossico manca la roba. Anche se, forse, mi sono disintossicato. Ho giocato fino al 2013, ho fatto una partita di calcetto all’Elba quest’estate, ma di solito dico sempre di no.

Abbiamo avuto tantissimi scrittori che facevano altro: operai, impiegati, esempi che io adopero molto spesso a scuola, per cercare di ricompattare la figura dell’intellettuale organico a chi fa qualcosa con le mani. Spesso chiedo ai miei ragazzi di immaginarsi un contadino che può fare lo scrittore, così come uno scrittore può arare la terra. Alcuni nostri vecchi insegnanti in maniera sprezzante e offensiva dicevano al meno bravo della classe “vai a zappare”, non sei buono per lo studio, creando quella frattura di cui parlavamo all’inizio tra il mondo del lavoro e quello intellettuale: una frattura che va ricompattata. Questo concetto cerco di trasmetterlo ai ragazzi a scuola.

Periscopio: La “missione” del Pci fino a quaranta anni fa era anche quella, insegnare ai cafoni a leggere, per avere opinioni, per poter aumentare la propria conoscenza, per poter ribattere al padrone…

Marco: Mao diceva che l’uomo doveva lavorare con le braccia e con la mente, l’immagine dell’intellettuale odierno è quella di una persona distaccata dalla realtà, in un salotto bene, gente che ha i soldi… ecco perché la cultura è ancora appannaggio delle classi privilegiate. I Wu Ming sono un esempio di intellettuali che cercano di ricomporre questa frattura, atavica, tra mondo del lavoro e cultura.

Periscopio: in conclusione, due parole sul rapporto tra letteratura e calcio.

Marco: forse vi deluderò, ma non mi sento un esperto di calcio. Non conosco i giocatori, i moduli, gli schemi, ma ho giocato tanto al calcio, sono stato un eroinomane di calcio, ho girato molto col pallone, ed stata per me una scuola, ho letto poco di calcio perché lo praticavo.

 

E la Spal? Non è calcio: è un’utopia in pantaloncini corti, ammantata dai colori del cielo.

 

Scritto con la collaborazione di Francesco Monini

 

 

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

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