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Genocidio e antisemitismo, due parole da usare con grande cautela

 

“Appartengo all’unica razza che conosco, quella umana”

Albert Einstein

 

La famosa frase di Einstein è in risposta a una domanda contenuta in un questionario sull’immigrazione che dovette compilare per rimanere negli Stati Uniti, dove si trovava in visita. Era il 1933, in Germania Hitler era appena salito al potere. Il cittadino tedesco Albert Einstein era di famiglia ebraica.

Non mi metto a fare l’esegeta della frase. Tuttavia a me sembra chiaro che Einstein usi la parola “razza” (race) in questo contesto per riprendere ironicamente lo stesso vocabolo contenuto nel questionario, ma la intenda come “genere” o come “specie”: il genere umano, appunto. La razza umana intesa come l’insieme di tutte le presunte razze, costruite via via nella storia dell’uomo sulla base di assiomi prima parentali, poi biologici e fenotipici. Chiunque sia dotato di buon senso sa che non è possibile costruire un concetto di razza, perché non esiste alcun marcatore che permetta di individuare un gruppo di persone accomunate dalla medesima genetica. Piuttosto, esistono persone che sia dal punto di vista genetico che culturale si mescolano continuamente, ed è esattamente questa la bellezza del mondo.  Visitare un luogo che si pensa debba essere connotato dai segni di un tipo umano prevalente, e scoprire che in quel luogo ci sono vestigia (somatiche, linguistiche, culinarie e artistiche) del passaggio di una miriade di popolazioni, alcune le più lontane da quello che è il loro luogo di origine – pensiamo, per fare un esempio “nostrano”, alle tracce dei Normanni in Sicilia –  è parte fondamentale della fascinazione del viaggio.

Per queste ragioni, il “genocidio” si definisce non in relazione alla popolazione che ne è vittima, ma in relazione all’idea di razza che ne ha chi lo definisce tale, o chi lo pratica intenzionalmente. Se è fallace la nozione di razza, è dubbia anche la definizione di “popolo”. Chi è che stabilisce qual è il genos (greco) o il genus (latino) da sterminare? Sulla base di quali caratteristiche? Inoltre genos vuol dire stirpe, ma l’idea di sterminare un popolo è diversa: un’intera popolazione non può essere assimilata ad una stirpe, almeno per la ragione che manca il legame di sangue tra tutti i suoi membri. La parola “genocidio” va utilizzata con molta cautela, perché azzera il ragionamento, impedisce le distinzioni.  Quello che sta facendo lo Stato di Israele ai danni della popolazione della Striscia di Gaza viene da più parti definito “genocidio”. La profondità di questo assunto è pari a zero. Semplicemente, viene facile dire che chi ha subito il più celebre “genocidio” della Storia adesso si vendica commettendo lo stesso crimine. Che grado di approfondimento delle ragioni del persecutore – ci sono sempre delle ragioni, anche se non le condividiamo – può praticare chi se la cava con l’accusa di “genocidio”? E’ un’accusa che si colloca nel solco dell’integralismo, dell’intolleranza. Sarebbe più sensato parlare al limite di etnocidio, cioè di volontà di cancellare le tracce di un’etnia – concetto meno vago di popolo e meno farlocco di razza, in quanto include persone che condividono lingua, religione, costumi e (a volte) territori, e che quindi possono essere di una certa etnia pur avendo caratteri somatici minoritari (in questo senso una donna siciliana bionda e con gli occhi azzurri è sicuramente di etnia sicula).  Ma “genocidio” va di moda: evidentemente il suono evoca qualcosa di talmente terribile da esercitare una sinistra seduzione.

Allo stesso modo, chi con ottime ragioni stigmatizza e condanna le azioni persecutorie e criminali dello Stato di Israele viene spesso accusato di antisemitismo. E’ lo stesso ragionamento di prima, visto dall’altra parte: non si può prendere posizione contro Israele perché gli ebrei sono il genos più perseguitato della Storia, e questo germe è sempre pronto a contagiare le menti fanatiche. Ergo, se te la prendi con Israele sei antisemita, o almeno fiancheggi chi lo è. E’ un’accusa che azzera ogni discussione. Un’accusa che sta anch’essa nel solco dell’integralismo e dell’intolleranza.

Non è vero che lo Stato di Israele punta allo sterminio di massa di tutti gli arabi di Palestina, così come non è vero che le voci critiche che, all’interno stesso di Stati Uniti e Israele, si levano contro la politica dell’attuale governo siano da considerare dei fiancheggiatori di Hamas. E’ auspicabile che le proteste che si stanno allargando come una macchia d’olio nei più famosi campus statunitensi, a partire dalla Columbia University di New York che ha una rettrice musulmana di origini egiziane –  e che la polizia sta soffocando con goffa brutalità, probabilmente influenzata da un establishment politico ed economico che non può tollerare il dissenso contro Israele, quando esce fuori dalle pagine accademiche per diffondersi nella società – abbiano la capacità di non farsi strumentalizzare. E parlare di genocidio dei palestinesi è probabilmente il modo migliore per farsi accusare di antisemitismo.

 

Cover photo: manifestazione alla George Washington University, a Washington, 25 aprile 2024 (AP Photo/Jose Luis Magana)

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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