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a sveglia suona.
Per spegnere quell’aggeggio infernale mi sono dovuta trascinare, lungo il corridoio, fino al comodino in ingresso. L’altra me, di ieri sera, ha tirato questo brutto scherzo perché mi vuole bene.
Il treno è tra meno di un’ora. Devo fare la valigia; ma perché la me di ieri non l’ha preparata? Ci butto dentro tutto quel che capita anche il ferro da stiro. Mentre mi lavo i denti penso che no, proprio no, il ferro da stiro insieme ai vestiti non si può: potrebbe strapparli con la punta d’acciaio. Torno in camera, sporgendomi sulla valigia aperta per terra, con lo spazzolino tra i denti. Scivola dalle labbra la schiuma del dentifricio. Gocce, bianche come latte, sul vestito di seta. No! Lo strofino sotto il getto d’acqua. Con il fiato del phon lo asciugo. L’alone più chiaro rimane. Chiudo la valigia. Meglio chiamare un taxi. Il mio cellulare si sta scaricando. Cerco il cavo. Lo trovo dentro a un libro. Nel prenderlo rovescio una birra aperta. Al diavolo! Attacco il cavo alla presa. “Sì grazie… Sì esatto al civico 47…. Scendo tra dieci minuti”. Oh! Stavo per dimenticare il regalo. È già stato infiocchettato dal negoziante per fortuna. E le mie solite scarpe basse e comode? Non c’è spazio.
Manca il bigliettino!
Calma! Respira. Espira. Scriverò una frase in treno.
Salgo sui tacchi.

“Ehi! Siamo arrivati!” Mi sono addormentata. Scendo dal taxi. Corro saltellando sui sampietrini. Uff! Mi lascio cadere sul sedile del treno. Vengo cullata. Mi riaddormento.

Il fischio mi fa trasalire. “Arriiivaaatiiii!”  Nella folla vedo qualcosa saltare, un braccio si agita. È la mia amica. “Ma quanto sei bella” mi bacia “Ma che fai la timida?” “Ma no! Ma che dici, è che sai, non sono riuscita a chiudere occhio da ieri”. “Per l’emozione! Che carina! Mi vuoi proprio bene tu”.
Mi piego in due per passare attraverso la porta del suo appartamento vuoto. Ci sono solo due sacchi a pelo in terra. “Staremo come ai vecchi tempi stanotte” mi dice. Istintivamente poggio le mani sui reni, ma lei me le prende stringendole tra le sue. “Per chiudere il cerchio bisogna ripartire dall’inizio!” Apre l’armadio e tira fuori il vecchio abito da Pluto. “Non posso credere che tu l’abbia conservato per tutto questo tempo”, mi viene da ridere. Era il primo costume costruito insieme, secoli fa, per carnevale. Rido, rido, rido forse troppo.  La mia risata diventa un singhiozzo. “Ma quanto mi vuoi bene tu! Sei più emozionata di me”. Mi abbraccia.
Sta per esplodere il mal di testa. Non so come ma ce l’ho fatta. Sono vestita a festa e pure pettinata: ho uno chignon. Siamo intorno a una tavola immersa tra ranuncoli e non ti scordar di me. Vicino c’è anche una piscina illuminata. Mi guardano. Perché mi fissano? Si aspettano il brindisi da me? Devo dire qualcosa? Oh cavolo… mi accorgo ora di non avere scritto il bigliettino da accompagnare al regalo. Vedo passare un vassoio di mousse traballanti. Vorrei essere una di quelle mousse per andarmene via su quel piatto d’argento. Non riesco a deglutire. La lingua è incollata, anzi, la sento più grande del solito. I piedi sono rigidi a paletta. Le gambe senza consistenza, da invertebrato, come pongo. Ma possibile che io non abbia proprio nulla da dire? Piccoli percussionisti battono le mie tempie. Vedo le parole, che non riesco a pronunciare, veleggiare per poi cadere infrangendosi in terra.
Mi guardano.
Continuano a fissarmi.
Ho candele di cera al posto delle orecchie: prima si incendiano e poi si sciolgono. Nella mia testa i percussionisti hanno chiamato l’artiglieria, colpiscono sempre più. Un sottofondo musicale emoziona la festeggiata. “Uuuh ragazze! Questa la dobbiamo ballare tutte insieme”. Lei mi tira per le braccia. “Andavamo matte per questa canzone al liceo. Ti ricordi?”. “Sì, sì! No! No! Davvero… dai! Vi guardo da qui… Vi scatto le foto.” Appena si allontanano, mi schiaffeggio, immergo i polsi nel secchiello del ghiaccio del vino bianco che tengo in grembo sotto la tavola. La bottiglia dell’acqua è troppo distante da me. Ho sete. Un gancio diretto allo stomaco mi lascia senza fiato. Un altro scherzo dei miei nemici invisibili. Ma guardati! Stai qua da sola nel tuo vestito in seta stile impero. Quello che avevi scelto con cura per starci comoda dentro. Ed eccoti qui, invece, incollata alla sedia strizzandoti il ventre. E pensare che attendevo da mesi questa serata. Volevo davvero star bene, divertirmi, condividere questa sua felicità. Oddio tornano! Tutte allegre e saltellanti loro. Le odio! Prima che propongano qualcos’altro devo inventarmi qualcosa. Qualcosa che le tenga calme e ferme. Mi butto e propongo: “Facciamo il gioco dei segreti!”. “Sì dai!”. “Ognuna deve dire il segreto che secondo lei nasconde un’altra”. “Secondo me tu sei gelosa che Sara si sposa.”. Abbasso la testa ma subito la rialzo. Guardo negli occhi il cecchino mascherato da biondina slavata che ha appena parlato. Sara fa un gridolino. Ha cambiato abito. O meglio si è mascherata. Indossa il vestito da Pluto. Soltanto ora riconosco la mia amica. Adesso sì che vorrei stringerla e abbracciarla forte, forte. È luminosa e tiene sotto il braccio, come fanno gli schermitori col casco, la testa di Pluto. Tutte ridono e poi si ammutoliscono mentre lei perde l’equilibrio cadendo in piscina. Riemerge. Tra i capelli gocciolanti solo il suo sorriso. È bellissima.
È così che voglio ricordarla.
Socchiudo gli occhi mescolando il passato al futuro:
siamo entrambe vestite di bianco, sull’altare delle nudità, con quel Sì che soltanto Sara ha pronunciato per gioco.
In quel Sì io sono rimasta impigliata.
Le altre si tuffano una dopo l’altra. Non le distinguo più.
Gli abiti, rigonfi d’acqua, danzano immersi in quel rettangolo turchese. Sembra sia caduto il cielo in terra con tutte quelle stelle galleggianti. Mi metterei seduta per terra, a gambe incrociate, per dipingere queste emozioni in un colore rosa pallido, argento e viola plumbeo. Vorrei fermare l’immagine per sempre.
Questa festa ormai è un quadro da appendere alla parete del passato.
Intorno tutto è indistinto e gommoso. Mi sento all’interno di uno di quei budini gelatinosi all’amarena che sfilano ora sulla tavola. Anche le note fanno fatica a muoversi trattenute da quell’aria densa.
È il momento della torta.
Abbraccio la pancia.  Prendo lo scialle, che avevo poggiato sullo schienale della sedia, lo annodo intorno alla vita, intorno all’alone bianco di dentifricio.
Mi alzo.
Prendo uno di quei budini vermigli e lo posiziono al centro della sedia del cecchino.
Ora sì che posso uscire di scena. Sono libera. Libera di non dare spiegazioni. Libera di lasciare gli altri interpretare. Libera di liberarmi. Libera di vomitare.
Scendo dai tacchi.

In copertina: Roma, Villa Doria Pamphilj. “Chi è la sposa solitaria tra le due? ” (Foto di Francesca Alacevich)

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Francesca Alacevich

Nata a Roma, laureata in ermeneutica filosofica, pedagogista, documentarista di immagini fotografiche e in movimento, coordinatrice di centri per le famiglie e sostegno per ragazze madri. Ha condotto, collaborando con Sergio Kraisky, corsi sul ‘Cinema e letteratura’. Partecipa come attrice alla realizzazione di spettacoli teatrali e di cortometraggi cinematografici. Divora libri e film. Scrive.

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