INFORMAZIONE E DEMOCRAZIA
Eliminare i giornalisti per eliminare le notizie
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I/le giornalisti/e sono persone che operano nel settore dell’informazione. Si occupano di scoprire, scegliere, analizzare e descrivere eventi per poi comunicarli. In questo processo intervengono attività di rielaborazione e costruzione dell’informazione che permettono ad eventi in successione, a causalità ed a serie di dati longitudinali (nel tempo T0-Tn) o verticali (insistenti sullo stesso tema andando in profondità “time in time”), di diventare delle vere e proprie notizie.
Il Newsmaking non è un processo cognitivo neutro. Le modalità di costruzione delle notizie risentono delle variabili socio-culturali di chi identifica la notizia e la propone come tale, pur garantendo, grazie alla professionalità e al rigore procedurale, quel minimo di autorevolezza e di eticità necessaria per far sì che un evento diventi a tutti gli effetti una notizia attendibile.
Questo processo è complicato, caratterizzato da variabili difficili da prevedere e potenzialmente pericoloso. Attribuisce a chi lo compie molta visibilità e gli garantisce sia autorevolezza sia pericolo di eccessiva esposizione. Questa eccessiva esposizione può dipendere dalla rilevanza dell’informazione, dalla sua curiosità, dal suo peso politico, dal grado di innovazione che porta con sé. Il tema dell’innovazione è rilevante. Più una notizia è “nuova” più è “destabilizzante” perché idonea a sovvertire un ordine già costituito. Aumenta così la responsabilità professionale del giornalista, che diventa un professionista dell’informazione esposto pubblicamente e sempre un po’ a rischio, come tutti coloro che, ricoprendo un ruolo importante, dicono ciò che pensano.
Attualmente l’attività dei giornalisti non si collega più solo a tutto ciò che interessa l’elaborazione dell’informazione e la sua successiva pubblicazione tramite la stampa. In molti casi è stata abbandonata la consuetudine di macchiarsi le dita d’inchiostro e si sono cominciati ad utilizzare altri canali di trasmissione delle informazioni, si pensi alla televisione e a tutto il panorama, in forte crescita, del giornalismo online. Secondo il “Digital News Report” del Reuters Institute for the Study of Journalism, le fonti online (inclusi i social) hanno sorpassato nel 2020 la televisione. Parallelamente, si è assistito all’ascesa dell’uso dello smartphone come dispositivo di accesso alle notizie [si veda qui].
Trattare le notizie significa utilizzare dati e altri elementi – ad esempio, testimonianze – che consentono di avere conoscenze più o meno esatte di fatti, situazioni, modi di essere; inoltre significa occuparsi anche della trasmissione dei dati stessi e dell’insieme delle strutture che lo consentono [si veda qui].
Fare il comunicatore con rigore, competenza e professionalità è molto impegnativo e sottopone l’agente della comunicazione a una riflessione costante sulle convinzioni (spesso sovvertite dai fatti) e sul livello di condizionamento che l’essere in quel tempo, in quello spazio e in quell’ancoraggio etico, veicola. In molti casi quella che potremmo definire la “professionalità del comunicatore” ha portato giornalisti a esposizioni mediatiche pericolose e le conseguenze sono state più che tangibili (denunce, minacce, ritorsioni, licenziamenti, fino a casi estremi in cui si sono verificati arresti e uccisioni). Un bravo giornalista è un soggetto che si muove in un’ arena pericolosa dove la circoscrizione del perimetro di quel che può fare e dire dipende prevalentemente da lui, dalla sua voglia di rischiare in prima persona in nome della missione comunicativa per eccellenza: “raccontare agli altri quello che succede”.
Secondo RSF (Reporters Sans Frontieres) nel 2021 sono stati assassinati in tutto il mondo 46 giornalisti mentre svolgevano il loro lavoro – per fortuna, il numero più basso degli ultimi 20 anni. Il Messico detiene il triste record del numero di reporter assassinati, in tutto 7. Seguono l’Afghanistan con 6, l’India e lo Yemen con 4. Dei 46 giornalisti assassinati, tra i quali 4 donne, 18 sono stati uccisi in zone di conflitto, 16 mentre lavoravano e altri 30 sono stati presi di mira in quanto giornalisti. Purtroppo, RSF registra anche un numero record di cronisti incarcerati: 488 (tra cui 60 donne). Si registrano infine 65 sequestrati e due “desaparecidos”. Da quando RSF ha cominciato ad occuparsi del problema (1995) non si era mai registrato un numero così alto di giornalisti imprigionati. La Cina si conferma, per il quinto anno consecutivo, la Nazione con il numero più alto di giornalisti incarcerati: 127. Seguono il Myanmar con 53, la Bielorussia con 32, il Vietnam con 43, e l’Arabia Saudita con 31 [Si veda qui].
In Francia, RSF ha osservato un aumento della violenza contro i giornalisti. Diversi giornalisti sono stati feriti da pallottole di gomma, granate lacrimogene o colpi di manganello. Altri reporter sono stati oggetto di arresti arbitrari durante l’esercizio della propria professione.
La situazione è peggiorata anche in Grecia. Più di 130 casi di violazione di tale libertà sono stati registrati negli ultimi anni. L’anno scorso due giornaliste si sono dimesse denunciando pubblicamente la censura e il controllo del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis sulla stampa libera. Inoltre, la Grecia ha assistito all’omicidio (Atene, 9 Aprile 2021) del giornalista Giorgos Karaïvaz che si occupava di cronaca giudiziaria. È il secondo omicidio di un giornalista ad Atene in undici anni.
Anche in Italia (quarantunesima su 180 Nazioni analizzate nel rapporto RSF) sono state ravvisate numerose violenze ai danni di giornalisti che presenziavano a eventi e manifestazioni, oltre al consueto numero di giornalisti minacciati dalla mafia o sotto scorta per aver pubblicato inchieste e servizi sulla criminalità organizzata.
A morire per raccontare, riflettere, selezionare informazioni, ricodificarle e renderle notizie sono spesso donne che fanno le giornaliste e le fotoreporter. “La nostra missione è raccontare gli orrori della guerra con accuratezza e senza pregiudizi… abbiamo il dovere di darne testimonianza.” Così diceva, in un discorso tenuto in un’università londinese, Marie Colvin, reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. Ad uno studente che le aveva chiesto se valesse la pena rischiare la propria vita per fare la giornalista, aveva risposto: “Molti di voi ora si staranno chiedendo: possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: sì, possiamo farla.”
Ma perché tutto questo? Perché raccontare ciò che succede è pericoloso, perché documentare gli eventi porta con sé la genesi di una possibile ribellione che spaventa, perché la trasparenza toglie vita a tutte quelle organizzazioni che sulla falsa ideologia e appartenenza prosperano, perché nella costruzione della notizia esiste una componente interpretativa forte che permette l’emersione dell’originalità e del pensiero divergente. Pensiero che sa essere tanto utile quanto pericoloso nella misura in cui pone nuovi orizzonti e sa far luce su nuove strategie che mostrano strade diverse per la risoluzione di problemi divenuti atavici. Credo che la capacità interpretativa e creativa, agita attraverso la costruzione delle notizie, sia un forte agente di indipendenza e di pensiero critico che il professionista può attuare, spaventando chi non lo possiede o l’ha perso grazie a reiterate azioni di prevaricazione. Credo infine che, pur essendo mediata socialmente e condizionata dal tempo, una notizia che si fonda su: premesse rigorose, una raccolta di dati da fonti attendibili e un processo di codifica che poggia le sue fondamenta su un principio di etica e deontologia professionale radicata, sia uno dei più forti strumenti di illuminazione e progresso.
Detto questo, sicuramente le notizie sono causa ed effetto di molti processi politici, sociali ed economici; influenzano le proposte legislative e la parità dei soggetti; influenzano i processi gestionali e il marketing; influenzano e sono influenzate dal cambiamento digitale in corso. La loro quantità e qualità può essere messa in relazione alla qualità dei processi decisionali agiti. Per tutto questo, e forse per molto altro ancora, le fake news sono una schifezza, una delle distorsioni che un sistema democratico deve provare ad arginare se vuole sopravvivere. Può esistere un mondo virtuale in cui anche una fake new diventa verità (la definizione di esistenza non è univoca e dipende dai corollari che le si attribuiscono), ma non è questo che deve interessare. Nemmeno deve preoccupare che qualunque verità porti con sé il germe della sua negazione. I germi sono germi, la notizia ha molta più dignità. La deve avere. Il rapporto fra informazione e democrazia è centrale.
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Catina Balotta
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