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Sembra non finire mai la telenovela delle navi che trasportano cereali (grano e mais in particolare) dai porti dell’Ucraina verso i paesi importatori, tra i quali non figura certamente l’Italia, che sicuramente necessita di questi importanti prodotti agricoli, ma dipende marginalmente dal paese invaso dalle truppe russe per i propri approvvigionamenti.

Ma e vero che l’Italia  dipende dal grano russo e ucraino?

Le notizie apparse in questi ultimi mesi su quotidiani e telegiornali, mai così frequenti e numerose, hanno fatto pensare che molti paesi, e anche il nostro, fossero fortemente dipendenti dai paesi in conflitto per il commercio dei cereali.

Non è esattamente così, e a dirlo è ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) Ente del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, che in un recente report descrive l’attuale situazione, affermando che le anomalie “del mercato delle commodity agricole, cominciata dalla fine del 2020, è da ricondurre a una moltitudine di fattori che hanno agito in maniera concomitante: pandemia mondiale, vigorosa ripresa della domanda nelle fasi post pandemiche, forte aumento delle richieste all’estero della Cina di cereali e soia, dazi all’export imposti dalla Russia, eventi climatici estremi, guerra in Ucraina”.

Alcuni di questi fattori si sono di recente modificati e, continua il report di ISMEA:  “l’andamento del mercato mostra segnali di flessione, risentendo dell’accordo raggiunto tra Ucraina e Russia per sbloccare i porti ucraini del Mar Nero e delle prime indicazioni circa l’aumento dei raccolti nordamericani. Infatti, a luglio 2022 l’Indice FAO, che monitora l’andamento dei prezzi internazionali delle commodity agricole, evidenzia un calo dei prezzi dei cereali dell’11,5% su base mensile, rimanendo comunque più elevato del 16,6% rispetto a luglio 2021.[1]

Certo, la realtà di questo comparto è particolarmente complessa, e non da oggi si assiste periodicamente a ricorrenti crisi, associate principalmente al regime dei prezzi delle materie agricole.
A partire dalla seconda metà del 2020, afferma ISMEA, “lo scenario internazionale dei mercati è stato caratterizzato da un significativo e generalizzato incremento dei prezzi delle principali commodity energetiche e agricole, riconducibili a un insieme di fattori di natura congiunturale, strutturale e speculativa”, e della “improvvisa e intensa ripresa della domanda mondiale nella prima fase post-pandemica, e dei relativi problemi organizzativi e logistici dei principali scali mondiali”.

Come dicevo, le notizie apparse recentemente su una possibile crisi alimentare sono state spesso confuse e superficiali. In sostanza, non si comprende – o non viene fatto capire – chi e come possa essere coinvolto dalle situazioni originate dalla guerra Russo-Ucraina.
A inizio giugno, La Repubblica scriveva: “Ucraina, nel deserto del porto di Odessa: “Qui il grano arriva e poi non riparte. Così il blocco favorisce i russi e i colossi americani dell’export”. A sua volta, Il Fatto Quotidiano paventava addirittura una “guerra del pane”, spiegando poi che: “dall’inizio del conflitto in Ucraina i prezzi dei cereali hanno continuato a crescere aumentando il rischio di una carenza globale di cibo e di un impatto devastante sui Paesi in via di sviluppo”. 

Da questi pochissimi esempi si evidenzia che due sono i fattori che possono portare ad uno stato di crisi alimentare in relazione alla disponibilità dei principali cereali utilizzati a livello mondiale: da un lato le produzioni, dall’altro i prezzi. E’ ovvio, infatti, che se anche c’è disponibilità di prodotto ma i prezzi delle materie agricole sono elevati, il risultato è che molti Paesi non sono in grado di importarne le quantità necessarie al proprio fabbisogno.

A questo proposito, emblematico è stato il caso dell’India, dove, a fronte di ottimistiche dichiarazioni di disponibilità nei primi mesi dell’anno ad esportare quantitativi record di grano (10 mln di t), e che si era detta pronta a “sfamare il mondo”, a metà dello scorso maggio, a causa di un’ondata di caldo torrido che ha ridotto la produzione e rialzato i prezzi, ne ha vietato le esportazioni, mettendo in crisi molti Paesi in via di sviluppo che da quel grano dipendono. (ascolta il servizio di Radio3) 

Può essere utile quindi descrivere il comparto cerealicolo fornendo qualche dato in più, ricordando però che il mercato di queste importanti materie prime dipende non solo dai quantitativi prodotti e dai prezzi, ma anche dalle dinamiche di altri comparti, a cominciare da quello dell’energia.

Cereali: quote di produzione mondiale, import ed export

La produzione totale di cereali (mais, grano, riso, avena, orzo, ecc.) nel mondo viene stimata per il 2021 in 2.791 milioni di tonnellate secondo la FAO, un dato molto superiore a quello stimato dall’organizzazione intergovernativa International Grains Council (IGC), che lo valuta in 2.226 mln di tonnellate.

Relativamente al solo frumento tenero ISMEA, su dati dell’IGC[2], riporta una produzione media stimata nel triennio 2020-22 di circa 772 mln di t. con Cina, India. Russia, USA e Francia i primi 5 produttori mondiali (52%).
Attenzione: l’Ucraina risulta solo settima in questa classifica, contribuendo con il 4% alla produzione mondiale.
A livello di esportazioni il primo paese è la Russia con il 21% del totale commercializzato, seguita dagli USA (14%), e dal Canada (11%); a seguire Ucraina e Francia con il 10% ognuna. Le principali destinazioni dell’export, ma relativamente al triennio 2018-20, per la Russia sono l’Egitto e la Turchia, per gli USA il Messico e le Filippine e per il Canada l’Indonesia e la Cina. La Francia invece esporta principalmente in Algeria, mentre l’Ucraina in Egitto e Indonesia. L’Ungheria è il paese che esporta in Italia la quota più rilevante (23%) del totale importato, seguita dalla Francia (16%), mentre dall’Ucraina ne riceviamo solo il 3%.

Per il frumento duro, a fronte di una produzione media mondiale (anni 2020/22) di quasi 33 mln di t, i principali paesi produttori sono il Canada con il 15 % del totale, l’Italia (12%) e la Turchia (10%). Le esportazioni invece non riflettono la classifica di produttori: infatti se il Canada rimane primo anche in questo caso, le destinazioni sono principalmente l’Italia e il Marocco (19%). Secondo paese per export è la Francia che invia in Italia il 36% del duro commercializzato, poi la Repubblica Ceca che esporta in Germania e Austria e a seguire sono USA, Kazakistan, Russia e Ucraina i paesi esportatori di frumento duro. L’Italia importa il 46% di questo cereale dal Canada, mentre per Grecia, USA e Francia assieme la quota complessiva importata si assesta al 22% del totale.

Per il mais, che in termini produttivi rappresenta il cereale maggiormente coltivato al mondo, l’Ucraina detiene un ruolo rilevante nel mercato, non tanto in termini produttivi, in quanto rappresenta solo il 3%, ma per essere tra i principali esportatori, soddisfacendo il 15% delle richieste globali. La Russia, al contrario, è marginale sia in termini produttivi che di export, sempre secondo i dati elaborati da ISMEA. I principali produttori di questo cereale, che, va ricordato, viene utilizzato soprattutto per l’alimentazione animale, sono gli USA (31%), la Cina (23%), il Brasile (9%) e l’Argentina, che con il 5% si colloca prima dell’Ucraina. Il maggiore esportatore di mais sono gli USA, seguiti da Brasile, Argentina e Ucraina.
La Cina, pur essendo il secondo produttore al mondo di mais, è il primo paese destinatario dell’export dall’Ucraina.
Per quanto riguarda il nostro paese i principali fornitori di mais sono in ordine di importanza l’Ungheria (30% sul totale importato), poi Ucraina seguita da Francia, Austria, Croazia e Germania, secondo le statistiche riferite al 2021. Dall’Ucraina ne importiamo il 15%.

Il riso, infine, che nel contesto mondiale risulta il terzo cereale per quantità prodotte (oltre 500 mln di t nell’annata 2021/22 secondo le rilevazioni dell’IGC), ovviamente non riveste una grande importanza per il nostro continente. Il commercio di riso nell’anno in corso ha raggiunto quantitativi record nei mercati dell’Asia e dell’Africa. La produzione globale 2022/23 è prevista leggermente in calo a causa di potenziali riduzioni dei principali produttori, tra cui l’India, mentre la domanda mondiale di importazioni nel 2023 dovrebbe rimanere elevata per la situazione dell’Africa.

L’andamento dei prezzi 

Di notevole interesse le dinamiche dei prezzi dei vari cereali, che, nello scenario di grande incertezza che si sta vivendo, ma da valutazioni un po’ troppo superficiali, risulterebbero in aumento solo negli ultimi mesi e, principalmente, a causa del conflitto in Ucraina, in base a quanto comunicato dalla maggioranza dei media a partire dalle prime settimane dall’inizio della guerra. In realtà, stando ai dati del report di ISMEA: “gli incrementi di prezzo più consistenti per i principali cereali, si sono registrati già dallo scorso anno, mentre tra gennaio e aprile 2022 questi sono stati decisamente più contenuti”[3].

Se si analizzano i singoli casi, nel report, per quanto riguarda il frumento duro, viene riportato che “ il conflitto in atto non ha alcuna connessione diretta in ragione del fatto che produzione ed esportazione mondiale sono influenzate dal Canada, il quale nel 2021 ha perso il 60% dei propri raccolti”.

Alla luce di questa precisazione si osserva che la crescita dei prezzi del frumento duro si è verificata dal giugno 2021 – quando era quotato poco più di 269 euro/t – arrivando a 514 euro/t a novembre (+245 euro/t) e assestandosi attorno ai 500 euro/t da dicembre in poi e registrando una quotazione di 519 euro/t secondo i dati aggiornati al giugno scorso. Le semole di grano duro (in Italia di notevole importanza per la produzione della pasta secca) hanno subito un aumento dei prezzi da 412 euro/t nel giugno 2021 a circa 782 euro/t a novembre, rimanendo praticamente costanti nei mesi successivi fino alle ultime rilevazioni.
Per quanto riguarda i prezzi medi del frumento tenero i dati statistici hanno mostrato una crescita non così evidente come per il duro; dai circa 230/240 euro/t di metà 2021 si arriva, con qualche oscillazione ai circa 313 euro/t di febbraio 2022. Poi, da questo mese, i prezzi sono saliti fino a circa 409 euro/t, anche a causa del conflitto russo-ucraino, per poi scendere a poco più di 361 euro/t dello scorso luglio.

Per il mais la situazione sostanzialmente è stata di leggero aumento dall’aprile 2021 (circa 233 euro/t), con un’impennata a marzo e, ultimo dato di aprile, leggero calo a circa 371 euro/t. Permangono le preoccupazioni sulla mancanza del mais ucraino, e non sono positive le prime indicazioni per la prossima campagna di commercializzazione 2022/23.

Qualche considerazione

Al termine di questa lunga, e forse un po’noiosa, elencazione di numeri e dati, due considerazioni.
Da un lato, come già detto in apertura, è possibile affermare che l’informazione proveniente dai principali media (giornali e TV) risente di scarso approfondimento, poca chiarezza e imprecisione.

Abbiamo assistito ad episodi che possono far sorridere sia per la superficialità che per la troppa enfasi data ai fatti raccontati. Come il 13 agosto, quando una nave proveniente dall’Ucraina giunge al porto di Ravenna con un carico di 15mila tonnellate di mais per alimentazione animale. (Agenzia ANSAUcraina: a Ravenna la nave con 15mila tonnellate di mais. Prima in Italia dopo lo sblocco diplomatico, arriva da Odessa). In un notiziario TV ho potuto assistere a una diretta con una giornalista che commentava alcuni momenti delle operazioni di scarico.
Sulla pagina online del Resto del Carlino c”è anche un video  che mostra l’arrivo della nave al porto di Ravenna, lo scarico del prodotto e i relativi controlli. Tutte operazioni di routine che non presentano nulla di eccezionale e si ripetono quotidianamente in questo e in tanti altri porti italiani. Nel servizio TV e nel video si vedono gli addetti ai controlli che prelevano campioni della granella di mais per le analisi che, specie per questo cereale, vengono normalmente effettuate per verificare la eventuale presenza di tossine prodotte da muffe. Anche qui nulla di strano, ma per l’enfasi data alla notizia, e per il contesto in cui la si racconta, le operazioni descritte sembrano risultare straordinarie.

Un’ultima domanda a cui rispondere, ma dal punto di vista quantitativo il carico arrivato a Ravenna è tanto o è poco?

Si consideri che nel 2021 l’Italia ha importato dall’Ucraina 785.000 tonnellate di mais su una produzione nazionale di circa 6 milioni di tonellate (dati ISTAT). Premettendo che le importazioni di mais dell’Italia dall’Ucraina sono importanti e che nel 2020 hanno rappresentato il 13% dei volumi complessivi (prima del 2020 i volumi erano molto più elevati e il “peso” del mais ucraino arrivava al 20%), attualmente ne rappresentano poco meno del 50% della domanda interna, con un andamento crescente da alcuni anni a questa parte in conseguenza del crollo delle superfici a mais in Italia (per fattori climatici e di mercato). Le 15.000 t del carico arrivato a Ravenna rappresentano perciò circa il 2% della quantità importata dall’Ucraina lo scorso anno, e quindi per raggiungere quella stessa quota occorrerebbero più di 50 navi con un carico equivalente.
La conclusione ovvia è che il carico arrivato in Italia il 13 agosto non ha presentato nessun carattere di eccezionalità.

NOTE
[1] “Tendenze e dinamiche recenti”, ISMEA, agosto 2022.
[2] “Dinamiche fondamentali dei cereali e situazione degli scambi commerciali con Ucraina e Russia”, ISMEA, marzo 2022.
[3] “L’impatto della crisi Russia-Ucraina sui prezzi dei cereali e della soia e proiezioni per la campagna 2022/23”, Report Focus on, ISMEA, maggio 2022.

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Gian Gaetano Pinnavaia

Ho lavorato come ricercatore presso l’Alma Mater Università di Bologna nel settore delle Scienze e Tecnologie Alimentari fino al novembre 2015. Da allora svolgo attività didattica come Docente a Contratto. Ferrarese di nascita ma di origini siciliane. Ambientalista e pacifista fin dagli anni degli studi universitari sono stato attivo in Legambiente e successivamente all’interno di Rete Lilliput di Ferrara fin verso il 2010. Attualmente faccio parte della Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara. Sono socio dell’Associazione culturale Cds OdV – Centro ricerca Documentazione e Studi economico-sociali, del cui direttivo faccio parte e collaboro da anni all’Annuario socio-economico ferrarese. Nel 1990 sono stato eletto con la lista “Verdi Sole che ride” nel Consiglio Comunale di Ferrara fino al 1995; in seguito, dal 1999 al 2004 consigliere della Circoscrizione Nord per la lista “Verdi”.

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