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Ferrara film corto festival

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Donne in carcere. Caratteristiche di un piccolo universo

Il numero di donne detenute nelle carceri italiane costituisce una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale. Nelle nostre carceri oltre il 95% dei detenuti sono maschi e solo il restante 5% appartiene al genere femminile (il dato si riferisce alla tendenza media degli ultimi dieci anni, con oscillazioni minime che possono essere attribuite a ogni singola annualità).

Il problema è quindi prevalentemente maschile e il genere delimita caratteristiche ben precise delle modalità di delinquere, dei modelli di vissuto legati alla pena, degli stili di comportamento in carcere, della qualità della vita riacquisibile una volta scontata la detenzione.

In questo caso il “disagio sociale” è maggiormente legato al genere maschile e proprio in questo segmento di popolazione si trovano coloro che hanno maggior bisogno di interventi riparativi, riadattivi, rieducativi. Il supporto al disagio si interseca con il tema della “pari opportunità per tutti”, compresi i suoi corollari di pari dignità e rispetto dei diritti umani, accompagnando le riflessioni con apporti contenutistici importanti.

Inoltre, la questione della riorganizzazione nella vita libera una volta scontata la pena, interfaccia il tema del reinserimento lavorativo e la necessaria capacità di costruire e mantenere relazioni comunitarie accettabili.

Come in tutti i fenomeni che hanno una forte rilevanza sociale e che traggono da essa alcune caratteristiche e alcune possibili motivazioni, la conoscenza possibile è pluridisciplinare e la complessità del fenomeno aumenta all’aumentare dell’esperienza diretta che in questo contesto è possibile agire. È proprio di fronte a questo problema che i paladini delle P.O. invece che occuparsi di donne devono evidentemente occuparsi di uomini.

Dopo questa premessa, appare però rilevante il fatto che le donne in carcere sono spesso dimenticate. L’attenzione delle amministrazioni è da sempre rivolta prevalentemente al genere maschile che è di gran lunga preponderante, non solo per numerosità complessiva, ma anche per “spessore criminale” (gravità del reato commesso). È inoltre noto che la ricerca contemporanea sul diritto penale e sul carcere ha ignorato le donne, concentrandosi prevalentemente sui maschi.

Alla fine di febbraio 2024 le donne in carcere erano 2.611, pari al 4,3% della popolazione detenuta totale, una quota che negli ultimi decenni ha visto solo piccole oscillazioni. (Antigone – Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione).

Le carceri interamente femminili sul territorio italiano sono quattro (Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani), mentre le restanti sono miste. A febbraio 2024 vi erano recluse 646 donne, di cui 366 al Rebibbia-femminile di Roma, il carcere per donne più grande d’Europa.

A questi spazi si aggiungono inoltre i tre ICAM (Istituti a custodia attenuata per madri) attualmente in funzione, a Milano, Torino e Lauro (Avellino). Gli ICAM sono strutture costituite in via sperimentale nel 2006 per consentire alle detenute madri, che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i loro figli. In essi sono recluse complessivamente 12 donne con i loro figli.

Le detenute transessuali, che sono circa 70 nelle carceri italiane, vengono collocate dall’Amministrazione Penitenziaria secondo il loro sesso biologico, ma vengono tenute separate dal resto della popolazione reclusa. Il tema delle detenute transessuali è impegnativo e la loro necessaria tutela in carcere è un terreno che necessita di investimento e miglioramento.

Considerando il fatto che la popolazione penitenziaria è spesso portata ad accanirsi contro le minoranze di qualunque natura esse siano e indipendentemente dalle modalità di segmentazione identitaria a loro attribuite, la tutela delle transessuali rientra a pieno titolo nei doveri di ciascun ente penitenziario. Tutte le minoranze sociali che si distinguono per processi identitari autonomi e/o sessualmente fondati sono facilmente bersaglio di discriminazione. Gli esempi sono molteplici e ognuno di noi ne conosce almeno alcuni.

Uno dei problemi più annosi legati alla permanenza in carcere delle donne è quello della contemporanea permanenza in carcere dei loro figli. Ai bambini è consentito di vivere con la madre solo i primi anni di vita, ad eccezione di specifiche circostanze. Complessivamente, tra ICAM e sezioni nido di carceri, 19 donne vivono attualmente in carcere con i loro 22 bambini. Erano 20 con 20 bambini al 31 dicembre 2023, quando le detenute incinte erano 12 (sempre dati Antigone). Il numero dei bambini in carcere è fortemente diminuito negli ultimi anni.

La consapevolezza da parte della magistratura del pericolo che il Covid-19 poteva costituire per i bambini ha fatto sì che, senza cambiamenti normativi, si applicassero le leggi già esistenti al fine di farli uscire dal carcere. L’applicazione capillare della normativa ha diminuito di molto il numero dei bambini che vivevano in carcere con effetti (solitamente) positivi per i bambini e (solitamente) negativi per le madri.

Non si conoscono approfonditamente le conseguenze sullo sviluppo che può aver causato la permanenza in carcere per la prima parte della vita, così come si conoscono solo in parte le conseguenze che possono verificarsi su bambini e adolescenti che sono stati separati da uno o entrambi i genitori.

Esistono studi che hanno portato a ritenere che la sofferenza che accompagna bambini che vivono questo tipo di esperienza, presenta delle caratteristiche da non sottovalutare. Secondo René Spitz (1887 – 1974) psicoanalista austriaco tra i primi che hanno utilizzato l’osservazione, concentrandosi sullo sviluppo del bambino e sottolineando gli effetti della deprivazione materna ed emotiva, “i bambini senza amore diventano adulti pieni di odio“.

Spitz sostiene che nei bambini che hanno subito l’esperienza del carcere e la successiva separazione dalla madre nei primissimi anni di vita, esiste un rischio di devianza superiore alla “norma”. “…l’unica strada che rimane loro aperta è la distruzione dell’ordine sociale di cui sono vittime”. (Renè Spitz, The first year of life a psychoanalytic study of normal and deviant development of object relations – Intl Universities Pr Inc).

La detenzione comporta deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale. Delimita gli spazi, li chiude, scandisce il tempo in modo rigido e innaturale. Il bambino subisce la rarefazione dei contatti e l’isolamento. Tutto ciò rischia di compromettere uno sviluppo equilibrato e sereno. Molti bambini manifestano ansia e depressione.

Ma il problema ha anche il rovescio della medaglia: come può una madre continuare a vivere in carcere dopo che suo figlio le è stato tolto dall’istituzione e affidato, di fatto, alla rete parentale che si occuperà della sua educazione? Si interrompe improvvisamente un rapporto affettivo, che lo si voglia o no.

Le conseguenze sulla madre sono sicuramente significative, tranne quei pochi casi in cui le caratteristiche di una personalità che delinque siano associate a uno stato di inaffettività radicale o le condizioni psico-fisiche della detenuta siano profondamente alterate.

E quindi cosa fare? Nessuno ha la soluzione magica a problemi così annosi che interferiscono in maniera radicale con la vita delle persone, ma l’attenzione verso questa situazione deve essere massima, come sempre dovrebbe succedere quando si tratta di tutelare un minore e, contemporaneamente, una persona adulta in situazione di grave disagio.

La vita di un delinquente prevede per il suo recupero sia il sostegno delle istituzioni che la precisa volontà della persona di non commettere più reati, è evidente come questo non abbia alcun corrispettivo nelle capacità di capire e comprendere di un bambino.  Rispetto alla questione del rapporto tra genitorialità e privazione della libertà, non è di certo positiva la perdita di vigore del dibattito sulle pene alternative, quali la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà.

Per le donne che non presentano profili di pericolosità alti, è infatti prevista anche la possibilità di risiedere in Case-famiglia protette, che, al contrario degli ICAM, sono delle strutture private, non penitenziarie, veri e propri appartamenti in cui la madre può stare con il suo bambino.

La legge 62/2011 ha tuttavia istituito le Case-famiglia protette senza prevedere oneri per lo Stato, ragion per cui, in assenza di fondi, le Case-famiglia attive in Italia sono pochissime. Si coglie così il paradosso del carcere riabilitativo. Così sosteneva Mary Belle Harris, una delle più importanti sostenitrici dei riformatori femminili dell’inizio del secolo scorso: “Come si può insegnare a esseri umani in cattività a vivere una vita da liberi e da libere?”.

In questi giorni con 163 voti favorevoli, 116 contrari e due astenuti è stato approvato l’articolo 15 del decreto sicurezza: per le donne incinte e per le madri con figli entro l’anno di età, non è più obbligatorio il rinvio della pena, ma facoltativo.

“L’art. 146 del Codice penale prevede il rinvio obbligatorio della pena detentiva nel caso di una donna incinta o di una madre di un bambino di età inferiore a un anno”, dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “L’interesse superiore del minore è, in tutta evidenza, di vivere fuori dal carcere e non è necessaria una valutazione individuale per stabilirlo. Dal primo al terzo anno di vita del bambino, la decisione di differire o meno la pena viene lasciata alla valutazione del giudice. Il nuovo articolo elimina il rinvio obbligatorio della pena creando così un vulnus intollerabile dal sistema giuridico, sociosanitario e pedagogico per il minore”.

Davvero un grave problema quello dei bambini in carcere e davvero un grave problema la sofferenza causata alla madre quando il bambino viene allontanato. Una situazione che, oltre all’allertamento di tutte le vie istituzionali, dovrebbe, più di quanto fa, suscitare l’attenzione di chi per competenza e/o mandato, si trova nelle condizioni di poter far qualcosa.

Per leggere gli articoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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