Donne afghane (2)
Il grido della rifugiata Hamida contro i taleban: «Torneremo libere»
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Le giornaliste di Avvenire – uno dei pochi grandi quotidiani italiani che ‘canta fuori dal coro’ e con cui ci sentiamo spesso in sintonia – inaugurano oggi un’iniziativa che ci pare di grande valore. Dare voce alle bambine, alle ragazze e alle donne afghane. E, soprattutto, ripetere questo impegno ogni giorno (fino all’8 marzo), non una tantum, inseguendo la notizia eclatante. come è in uso nei media mainstream italiani e stranieri. Solo, infatti, attraverso un impegno giornalistico costante ed appassionato è possibile restituire ai lettori la ricchezza di voci dell’altra metà del cielo e dell’altra parte del mondo.
Periscopio riporterà ogni tappa del viaggio delle giornaliste di Avvenire, mentre invita tutte le sue lettrici e lettori a dare il proprio contributo al Progetto di Scolarizzazione per le donne afghane (vedi in calce all’articolo tutti gli estremi per aderire).
(La redazione di Periscopio)
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
Il grido della rifugiata Hamida contro i taleban: «Torneremo libere»
di Lucia Bellaspiga
(articolo originale: Avvenire il 17.02.23)
L’attivista per i diritti delle donne afghane è arrivata in Italia a luglio scorso dopo mille peripezie, con la sua bellissima bimba Helèn. Il racconto della fuga e il ritratto spietato del regime
Ride molto Hamida. Ride dei taleban, persone disturbate, comiche nel loro prendersi sul serio mentre dettano “leggi” assurde. Ne ride con la sua amica Leily (che ci fa da interprete dalla lingua farsi) mentre racconta delle loro pretese di «persone tristi, condannate all’infelicità, addestrate ad odiare le madri che li hanno partoriti e le figlie che mettono al mondo». Solo due volte negli occhi di Hamida passa un lampo di terrore e la voce si incrina: quando racconta il ritorno dei taleban nell’agosto del 2021, e due mesi dopo la sua fuga con in pancia Helèn, figlia femmina da portare lontano. Una fuga finita solo il 28 luglio scorso con l’atterraggio a Roma insieme a Helèn di 4 mesi e a suo marito Sohrab, grazie ai corridoi umanitari attivati dal governo italiano e alla Comunità di Sant’Egidio.
Di istinto guarda fuori dalla finestra (siamo in Emilia Romagna, nella casa a loro offerta dall’associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi), fissa la campagna emiliana ma “rivede” l’altra scena: «Era il 21 agosto, gli americani avevano appena abbandonato l’Afghanistan al suo destino, dalla finestra li ho visti entrare a Herat come selvaggi, urlavano con gioia feroce, sparavano in aria per festeggiare. Dopo venti anni, i taleban riprendevano il potere e in pochi minuti noi piombavamo indietro di 1.400 anni. Lo choc fu vedere che i poliziotti mettevano giù le armi e scappavano… Il terrore ci toglieva il fiato, ci siamo chiusi tutti in casa, ma non è servito: loro erano il cancro e noi cominciavamo a morire. Le donne prima di tutti».
Hamida stringe la mano al presidente della Repubblica Ashraf Ghani, che è oggi rifugiato negli Emirati Arabi, per trattare a favore delle donne – .
Hamida aveva 28 anni e da un mese era sposata con Sohrab, entrambi laureati in giurisprudenza e in diritti umani, lui sindacalista per i giovani sul lavoro, lei presidente di “Promote”, associazione che mediava con il governo afghano perché anche le donne potessero svolgere il mestiere per cui avevano studiato: «Anche nell’Afghanistan libero noi donne per lavorare dovevamo pagare forti tangenti e inoltre venivamo messe a fare tutt’altro rispetto a ciò che avevamo studiato», spiega. Ma dal 21 agosto 2021, data scritta con il fuoco sulla carne delle afghane e dei loro uomini per bene, tutto è precipitato, «prima hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar a fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima comunque riservate a noi, infine di essere felici». Vietato cantare, anche ai matrimoni: due feste separate per lo sposo e la sposa. Ridere è un peccato, essere allegri è diabolico, per essere uomini veri bisogna essere truci e cattivi. «In un discorso ufficiale hanno detto che la donna vale quanto lo sterco del bestiame. Non ci ammazzano tutte solo perché serviamo per partorire». Naturalmente figli maschi. Una figlia femmina è la peggior vergogna, se il parto avviene in casa è data via e la madre viene punita, «declassata a favore di altre mogli migliori, a volte uccisa», se nasce in ospedale la abbandonano lì. «Ma se nasce un maschio, il taleban è gonfio di orgoglio, se lo porta con sé tra i suoi simili e lo addestra alle armi», spiega Hamida. È un destino segnato anche per quel bambino, «che non sa cosa vuol dire mamma, ne fanno subito un infelice e gli insegnano l’odio. Anche ai maschi il regime vieta di studiare, solo nelle scuole coraniche si può, e lì la materia principale è denigrare la donna».
Anche Hamida, in quel 21 agosto di un anno e mezzo fa ha comprato un burqa, ma ha preferito chiudersi in casa, «là sotto soffochi, è come avere la corda dell’esecuzione al collo, non vedi niente». Dall’oggi al domani per ragazze abituate a frequentare la scuola, divertirsi, andare alle feste e al cinema, amare la bellezza e fare sport, insomma a vivere, il mondo è diventato una coltre nera da guardare attraverso i forellini del burqa, stando attente a non ridere mai (vietato) e a strisciare lungo i muri, uscendo solo se accompagnate da un maschio, mai da sole (vietato anche questo).
Ma poi Hamida si scopre incinta e due mesi dopo inizia la sua fuga col marito. Il suo nome di attivista per i diritti delle donne è scritto nella lista nera dei fanatici, la sua è una condanna a morte certa, ha già visto la sua amica e collega attivista Tamanà portata via da casa e torturata, «legata su una sedia con il fuoco acceso sotto. Poi però diventata troppo famosa quando su Facebook abbiamo denunciato la sua storia e per questo è stata rilasciata». Forti con i deboli e vigliacchi con i forti, i taleban fanno così, «per questo chiedo ad Avvenire di pubblicare il mio vero nome e la mia faccia, se il mondo parla di te scappano come conigli e ti lasciano stare».
E ne serve tanta di notorietà a Hamida, perché in Afghanistan restano da salvare i familiari di suo marito, prima di tutti Mariam, 14 anni, da mesi chiusa in casa con il padre e il fratello, un sussulto ogni volta che battono alla porta. «Tutto è iniziato perché dall’Italia io e Sohrab abbiamo postato su Facebook la nostra protesta contro la chiusura delle scuole – racconta Hamida –. Subito i taleban si sono presentati a casa ad Herat per arrestare Sohrab, ma suo padre e suo fratello Bahrom, studente di 19 anni, hanno risposto che è all’estero e non sanno dove. Sono stati arrestati e torturati, poi rilasciati su cauzione, ovvero dietro il riscatto di molti soldi». Da allora minacciano: o ci consegnate Sohrab o ci prendiamo Mariam. La foto che ci mostra è di una ragazza bellissima e truccata, così simile a Saman (la 18enne pakistana uccisa dai suoi familiari a Reggio Emilia nel 2021 perché rifiutava un matrimonio combinato): «In casa ci possiamo truccare e vestire eleganti», è l’ennesima beffa. «Mariam soffre di depressione, non può sfogarsi con nessuno al mondo, tutte le amiche vivono come lei», chiuse in casa o nel burqa.
Hamida durante uno degli incontri con le donne afghane, quando ancora si trovava nel suo Paese
I rapimenti di ragazze sono all’ordine del giorno, arriva il macchinone dei taleban e trascina via la giovane schiava, specie se bella come Mariam, e padri e fratelli che provano a difenderle fanno una brutta fine. È successo anche a suo cognato, insegnante di 46 anni, uomo illuminato e padre di due ragazze, accusato di averle mandate a scuola e di essersi rifiutato di darle in matrimonio ai taleban. «Dopo due giorni che era sparito – ricorda Hamida mostrando la foto di un uomo dallo sguardo mite – ci hanno telefonato dicendoci in che campo potevamo andare a recuperare i pezzi del suo corpo. E così abbiamo fatto».
A 15 anni in Afghanistan inizia l’età adulta e ci si deve sposare (se si è maschi). Se si è nate «maledettamente femmine» l’età per andare a servire un marito sono i 9 anni. «Ho ancora nelle orecchie le grida di una bambina di 10 anni, sorella di una nostra allieva, che in ginocchio supplicava baciando i piedi del celebrante mentre la univa a un uomo di 40 anni. Ma il suo stesso padre era taleban…» racconta l’attivista.
Helèn (in lingua farsi “Lucia”, raggio di luce) ora ha 11 mesi e gioca ignara in braccio alla madre. Mentre Hamida incinta correva nel deserto per portarla in salvo, Sohrab la incitava, «corri per Helèn!». La prima tappa era l’Iran, Paese oscurantista e violento ma quasi un paradiso rispetto all’Afghanistan. «Tra la folla che correva verso il confine iraniano, almeno duemila persone, una macchina ci attendeva per portarci in salvo – per la seconda volta il terrore le passa negli occhi –, ma c’era luna piena e la polizia ci ha visti, la loro Toyota ci stava raggiungendo, all’ultimo metro mia sorella mi ha preso per i polsi e mio marito per le caviglie e mi hanno buttata in auto. Ho perso tutto ciò che avevo, tutti i gioielli nello zaino rimasto a terra» (le foto dei bei tempi la mostrano ingioiellata come una regina per la festa di fidanzamento). «Una volta in Iran, a Zabal la polizia ci ha ripresi e rimandati in Afghanistan, dove ci hanno incarcerati come “spie”, abbiamo pagato e siamo riusciti a raggiungere Teheran. Lì una ginecologa iraniana mi ha visitato e ha detto che la bimba era molto a rischio. Invece poi è nata sana con un cesareo: Helèn è un miracolo».
Il resto è una storia lunga quanto un libro, fatta di fughe durate quasi un anno, minacce e riscatti, visti falsi per espatriare (Helèn era nata su suolo iraniano e non aveva documenti), addii strazianti («due sorelle di Sohrab erano fuggite con noi ma il corridoio umanitario era per tre persone e mio marito ha “scelto” me e nostra figlia») e brandelli di famiglia in ogni dove, «ho due sorelle e un fratello in Germania, una sorella in Grecia, un fratello avvocato in Spagna, e la sorella cui il marito insegnante è stato assassinato è rimasta in Iran insieme a mia mamma. Mio padre era già morto prima dell’arrivo dei taleban, nell’Afghanistan libero».
Paese bellissimo, dove la natura fa a gara con l’arte e non si sa chi vinca. Anche Herat è una città da sogno, ricca di colori e profumi, dove si rideva senza paura di morire per questo e dove Hamida Haydari, dottore in legge, giocava a basket e incontrava il presidente della Repubblica (Ashraf Ghani, oggi rifugiato negli Emirati Arabi) per trattare a favore delle donne. «Tornerà tutto com’era e allora torneremo anche noi, i taleban non sono eterni, nessuna dittatura è per sempre», assicura lei. Insieme proviamo a capire la loro patologia, «dai 6 anni in su il bimbo maschio per legge non può più toccare il corpo della mamma e questo forse provoca uno squilibrio: hanno paura delle donne, nei vent’anni in cui le forze di pace dell’Occidente li hanno tenuti a bada le hanno viste educare i loro figli, laurearsi e lavorare nelle aziende spesso meglio dei maschi, e non potevano tollerarlo».
C’è di peggio, «loro credono che perderanno il paradiso di Allah se guarderanno il peccato, cioè la donna, che quindi va chiusa nel burqa… Capisci? Coprono noi per un problema che hanno loro», ridono Hamida e Leyli. In effetti il tragico e il comico si fondono, «noi afghane il burqa lo chiamiamo Coca Cola, perché là dentro sembriamo bottigliette, e dobbiamo andare in giro così se no i maschi si turbano». Pensare che sono dottoresse, avvocate, giornaliste, architette… Persone serie, loro. «Il bello è che i taleban sono atei, un musulmano non uccide sua moglie, non vende sua figlia, la loro unica religione sono loro stessi». Quando il regime ha chiuso le scuole femminili, gli Stati Uniti hanno tagliato i fondi, «per questo da marzo riapriranno, ma solo fino ai 6 anni – denunciano le due amiche –. La sola speranza è che gli Usa siano molto più severi: in Afghanistan c’è un detto, chi porta il pane ha il potere di dire chi può mangiare!».
Per Helèn ha un sogno, che diventi pilota d’aereo e voli alto – sorride –, molto al di sopra delle brutture della terra. E per se stessa ha le idee chiare: «Non sono qui per nascondermi ma perché i taleban mi vedano meglio, per aiutare Mariam a scappare, soprattutto per raccogliere soldi, libri, quaderni, materiale scolastico da inviare agli amici che ho nel mio Paese e che organizzeranno scuole clandestine: è importante che le ragazzine studino, che non rimangano indietro, che si preparino, così poi potranno iscriversi all’università». Quando i taleban torneranno nelle loro tane.
Cover: Hamida (al centro) insieme alla sua piccola Helèn e all’amica Leily nella casa a loro offerta dall’associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi in Emilia Romagna (da Avvenire)
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