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FINCHÉ C’É LA SALUTE
Roma, 7 agosto 2019

Certo, andare a ‘sondare gli umori del popolo’ in una città deserta, è un’impresa già partita male. Il mercato ormai sembra una fila di anonime tombe di  famiglia, dai giardini sono scappati anche gli uccelli e perfino nell’Ospedale, dove mi trovo oggi per una visita medica, sembra che, in un eccesso di intolleranza, abbiano abolito i pazienti.

Bisognerebbe forse entrare nelle case ed entrare in empatia con la solitudine urbana, capire se l’aria condizionata ha migliorato le vite di chi è rimasto in città o se ancora, nei miasmi sudoriferi dell’intimità, cresce la rabbia e lo sconforto, o invece resiste qualche forma di reazione attiva, di gente che si organizza insieme agli amici e ai vicini per vivere un po’ meglio.

La mia visita in ospedale in realtà è un ripiego: dopo aver tentato di fissare una colonscopia al servizio RECUP (diventato, con una delibera regionale di una settimana fa, a pagamento per i telefoni cellulari- sic!) e constatato che la prima disponibile è tra un anno solare, mi informo sulla possibilità di effettuarla col servizio intra-moenia.

Naturalmente ora fioccano appuntamenti in ogni quartiere: le date? Quando vuoi. Le tariffe vanno dai 350 ai 450 euro, ossia una pensione sociale intera. Penso a quando Rosi Bindi ministro della Sanità ebbe l’ardire di obbligare i medici a scegliere tra la professione privata e quella nelle strutture pubbliche. Sembrava una proposta bolscevica (eppure lei era democristiana).

L’ospedale oggi è veramente vuoto e anche questo fa un certo effetto: è vero, a Roma d’agosto (e ormai un po’ dappertutto) è difficile fare una vita normale.

Ma che ci sia un mese in cui tutte le strutture pubbliche si disintegrano per le ferie, benché sia una vecchia storia, continua a farmi rabbia. Tanto più se funzionano solo come studi privati.

Mentre aspetto nel corridoio, dove non c’è neanche un addetto delle pulizie da origliare per il mio diario, mi viene in mente l’inverno di un anno fa, quando ero venuto qui per fare una piccola operazione.

Ci avevano convocato alle 7 ed eravamo una cinquantina, ed era ancora buio, perché era dicembre inoltrato. La temperatura era vicina allo zero e i cinquanta convocati per vari interventi, erano stati ammassati davanti all’entrata: la maggior parte anziana, qualcuno in carrozzella.

“Ma perché non fanno entrare?” dico io, ingenuamente.

“Arrivano alle 7.30“, mi dicono, “dobbiamo aspettare fuori“.

“Ma è assurdo, c’è gente malata”. E come se non bastasse, oltre la vetrata chiusa c’è una comoda sala d’attesa con le sedie vuote.

“Il fatto è che è tutta colpa nostra” mi dice un tipo dall’aria rassegnata. “E perché?” dico io, polemico.

“Perché qualche mese fa, dei pazienti che aspettavano, perdendo la pazienza, hanno riempito di botte le due infermiere di turno, che da quel giorno si sono rifiutate di aprire da sole.”

“Si vabbè, ma noi che c’entriamo se c’è gente manesca? Potrebbe esserci a qualunque ora!” “Però in altre ore hanno più colleghi a dargli manforte”.

La conversazione rasentava l’assurdo. Sembrava dato per scontato che ci fosse una guerra civile tra i pazienti e il personale sanitario. E che i pazienti siano per loro natura, impazienti. Il pubblico però era diviso: la maggior parte mi dava ragione, ma c’era anche chi diceva “E’ vero, siamo degli incivili, ce la meritiamo quest’Italia!”.

Sicuramente, entrando poi nei dettagli, la situazione si sarebbe rivelata più complessa. Ma ridotta così a discussione da bar, emergeva nella sua dimensione più drastica: noi (vittime o bestie) e loro (idem).

Poi, appena si sono aperte le porte, è cominciata una corsa scomposta per accaparrarsi il numeretto, passando avanti perfino a quello sulla sedia a rotelle.

Di nuovo siamo diventati nemici fra di noi e servili coi medici.

Il potere sul corpo ci rende vulnerabili a qualunque forma di sudditanza e, inermi come siamo, chiediamo solo di essere trattati con dolcezza.

Quando esco dalla visita, mi dicono che è tutto a posto.

Naturalmente sono sollevato, ma immediatamente mi domando se invece che una ragionevole iniziativa di prevenzione, il privilegio di poter saltare un anno di attesa non sia stato invece il frutto di una costosa ossessione ipocondriaca.

Scaccio via il dubbio e lascio spazio alla buona notizia. Nei corridoi vuoti cammino come se mi fossi appena comprato l’ospedale.
(continua domani, 8 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

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Daniele Cini

è regista e autore. Dagli anni Ottanta Collabora continuativamente come regista con i programmi più importanti della Rai e realizza reportage in vari paesi del mondo. Nella fiction cura la regia di serie televisive, come “La Squadra”. Per il cinema firma il film “Last Food”, il mediometraggio “Zittitutti”, e due episodi nei film collettivi “Intolerance” e “All human rights for all”. Tra i documentari: “Sogni.com” per Rai Fiction, “Seconda Patria” per History Channel, “Noi che siamo ancora vive” per Rai 3, Globo d’oro nel 2009, “Bambini guerrieri” per Rai 1 e “Hungry and Foolish” per Rai Expo. Nel 2021, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, realizza il film documentario “La febbre di Gennaro”, Nel 2022 il documentario “Il ragazzo con la Leika”, 60 anni d’Italia nello sguardo di Gianni Berengo Gardin, trasmesso su Rai 2. Nel 2004 ha pubblicato per Voland “Io, la rivoluzione e il babbo” e nel 2020 per Giunti “Se son rose sfioriranno” .

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