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Dentro il lockdown. Non dimenticherò mai il mio deserto. E non lo perdono.

Sono madre di 4 figli. Quando dichiararono il primo lockdown, 10 marzo 2020, e la paura diventò la protagonista di ogni notizia, tentai di filtrare le informazioni, di fare in modo che il terrore non trovasse spazio tra le nostre quattro mura. Sapevo, come molti sanno grazie a un sapere ancestrale che è passato di generazione in generazione, quanto l’ansia e la preoccupazione possano abbassare le difese immunitarie e creare disagi psichici, se prolungate in una situazione di emergenza illimitato.

Da un giorno all’altro venne negato ogni libero spostamento, da un giorno all’altro “ l’altro “ divenne un possibile pericolo .

Il nemico era invisibile e poteva albergare ovunque e, se ci avesse aggredito, non ci sarebbe stato scampo. Diventare paranoici era più che plausibile. Spensi la televisione! Una narrazione che più procedeva più mi vedeva contraria perchè da subito mi sembrò suggerire regole antiumane.

La cura è fatta di relazione, di calore, di presenza, ( quante notti passate vicino al letto dei figli e dei nostri vecchi malati). Ma la narrazione parlava solo di isolamento, di distanziamento, di pericolo ovunque e in chiunque. Anche le parole tutte guerresche urtavano le mie viscere e iniziarono a insospettirmi.

Certo il virus c’era e certamente era pericoloso, ma perché non si spendeva una parola sul sano vivere, sul sano mangiare, sul rispetto reciproco, sull’amore reciproco proprio in un momento così duro e preoccupante?

Perché non una parola di incoraggiamento per i piccoli e i giovani che comunque, da subito si capì, che non correvano un grande pericolo?

Solo parole come guerra al virus, nemico, immagini di carri armati che portavano via le bare e i giovani chiamati al fronte della responsabilità di salvare vite umane quelle dei più vecchi, rischiando la loro stessa salute.

Quando giunse poi il famigerato vaccino e lessi che era stato approvato in via emergenziale, che i brevetti erano secretati e che i profitti erano privati il mio no fu netto. In principio fu un no politico.

Come si poteva dire che il vaccino era la soluzione alla pandemia globale se non si metteva in condizione tutto il mondo di farlo, i paesi di produrselo a prezzi ragionevoli, senza la rincorsa al profitto per lo più di 4 multinazionali?

Premetto che sono una attivista e da anni mi batto per l’abolizione della pratica della maternità surrogata, pratica che taglia definitivamente il cordone ombelicale con quel sapere ancestrale, un sapere dei corpi, intesi come corpi intelligenti, e non pure macchine a cui cambiare un pezzo per renderli sempre più omologati e perfetti, e certamente questo mio sguardo acuì la mia critica.

Era evidente che con il vaccino si apriva al mercato dei corpi, non solo più quello delle donne e dei bambini, ma a tutti i corpi viventi. Mi bastò porre delle domande su questi farmaci sperimentali per vedermi assegnata la etichetta di NO VAX. Non conoscevo i no vax ma andai un po’ a studiare e più cercavo di capire quel mondo più mi diventò chiaro che la loro battaglia, di cui mai mi ero occupata, aveva comunque a che vedere con i corpi e la legittima autodeterminazione che ogni individuo deve potere esercitare sul proprio, esattamente come nelle battaglie di noi femministe.

I più si definivano FREE VAX e contestavano, anche loro, il mercato dei corpi che la eccessiva medicalizzazione delle nostre società occidentali liberalizzava sfrontatamente sempre di più.

Insomma il mio no si radicò dentro di me con sempre maggiore forza. A questi studi poi si aggiunsero le notizie più tecniche su come era stato sviluppato il vaccino. Poco o nulla si sapeva sugli effetti a medio lungo termine. Università americane suggerivano ai propri studenti di congelare sperma e ovuli prima della inoculazione. Inutile dire che questo aggiunse al mio sentire intuitivo la convinzione che la medicalizzazione della società e la eccessiva medicalizzazione della maternità (oggi essere incinte è una patologia e non più una realtà fisiologica) su cui studiavo da tempo, si intrecciava con la pandemia.

È da qui che sono partita per tentare di convincere i miei figli a sottrarsi alla narrazione del vaccino per “il bene comune”.

E’ stata dura, durissima, cercare di informarli senza allarmarli troppo né in una direzione né nell’altra.

Ho tre figli grandi 27, 25 e 21 e una di 10 anni. I grandi dunque dovevano scegliere in autonomia. Solo una figlia ha scelto di vaccinarsi a fine novembre 2021 perché, sotto la pressione del lavoro appena trovato, non reggeva lo stigma sociale. Il primogenito, giocatore professionista di rugby è riuscito, con enormi fatiche e subendo molte discriminazioni a sottrarsi all’obbligo vaccinale e anche la terza figlia, per sua fortuna in Erasmus in Spagna, dove la realtà del green pass non ha mai raggiunto i livelli dell’Italia, ci è riuscita.

Tra dicembre 2021 e febbraio 2022 abbiamo tutti (in momenti diversi) contratto il Covid, compresa la vaccinata, con la ricompensa a tempo di vederci reintegrati nella società sia da un punto di vista morale che burocratico.

Non dimenticherò però cosa abbiamo passato, non dimenticherò la responsabilità di chi ci ha discriminato, fatto sentire dei sorci, degli scarti della società e ha chiuso possibilità ai nostri giovani a causa di un vaccino di cui oggi si sa i rischi superano i benefici e che non garantiscono nulla, tanto meno la riduzione del contagio. Il Green pass e ancora di più il super green pass è un obbrobrio giuridico e un insulto alla dignità di ogni cittadino.

La mia lotta al transumanesimo e al suo paradigma antiumano, di cui la tessera verde e l’obbligo surrettizio vaccinale, sono i primi mattoni per imporsi al mondo, sarà sempre più decisa e determinata e non finisce qui!

C’è molto da fare, continuare ad informare e a svelare come la narrazione del corpo macchina, perfettibile con l’intelligenza artificiale, con la medicina da remoto, con l’identità digitale, con l’ eugenetica praticata proprio attraverso la maternità surrogata, altro non sia che il sogno onnipotente di pochi uomini che si sostituiscono alla forza creatrice della natura o di Dio depotenziando l’enorme potere divino che alberga in ognuno di noi.

In copertina: una illustrazione di Riccardo Francaviglia

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Roberta Trucco

Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), femminista atipica, felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia con una tesi in teatro e spettacolo. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini. Amo l’arte, il cinema, il teatro e ogni tipo di lettura. Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.” Nel 2015 Ho scritto la prefazione del libro “la teologia femminista nella storia “ di Teresa Forcades.. Ho scritto la prefazione del libro “L’uomo creatore” di Angela Volpini” (2016). Ho e curato e scritto la prefazione al libro “Siamo Tutti diversi “ di Teresa Forcades. (2016). Ho scritto la prefazione del libro “Nel Ventre di un’altra” di Laura Corradi, (2017). Nel 2019 è uscito per Marlin Editore il mio primo romanzo “ Il mio nome è Maria Maddalena”. un romanzo che tratta lo spinoso tema della maternità surrogata e dell’ambiente.

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