Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci. Racconto di un concerto
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Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci
L’artista emergente Daniela Pes si è esibita mercoledì 5 giugno 2024 nella nostra città come ospite di “Ferrara sotto le stelle”. Hanno suonato con lei sul palco Mariagiulia Degli Amori e Maru Barucco. Il suo album Spira, pubblicato nel 2023 da Tanca Records, ha vinto il Premio Tenco come miglior opera prima.
Io e gli altri spettatori arrivati di buon’ora ci sediamo per terra, sul selciato del cortile del Castello Estense; sopra le nostre teste il sole delle otto di sera lavora dolcemente senza togliere il fiato. Da anni, in questo ambiente quattrocentesco, si svolge il festival Ferrara sotto le stelle; così, nel giugno e nel luglio del passato, sul palco che osservo sorseggiando il mio bicchiere di pignoletto hanno suonato tanti musicisti di culto che rinuncio a elencare. Mi limito a sbirciare quella ragazza in prima fila che gli volge con ostentazione le spalle per leggere più comodamente il suo libro, appoggiando la schiena alla transenna. Non sono sicuro di aver dato una bella risposta al mio amico fotografo Luca Pasqualini che, non conoscendo (ancora) bene l’artista per cui siamo qui stasera, mi ha fatto la madre di tutte le domande, nel tentativo di farsi un’idea sul suo stile: che genere fa?
Siamo pochi, a dir la verità, anche se gli organizzatori hanno annunciato il sold-out da diverse ore; mi do la spiegazione che dipenda dalle dimensioni del cortile, che lo rendono adatto soltanto a una quantità di pubblico ridotta, ma cambio idea un’ora dopo, intorno alle nove e mezza, quando la cantautrice che ci traghetta dai toni del tramonto ai colori della notte, scende dal palco, dicendo che anche lei non vede l’ora di ascoltare Daniela Pes, e io, voltandomi, mi accorgo che dietro, affianco e tutto intorno a me si è riempito di persone. Fra le teste, i corpi, le voci e gli sguardi di chi attende la cantante sarda riconosco il candidato sindaco del centrosinistra Fabio Anselmo, che partecipa alla contesa elettorale del nostro Comune. Con il fidato zainetto sulle spalle e la camicia azzurra, sta conversando animatamente in una zona un po’ defilata dalle parti del bar. Io, che non rinuncerei alla mia posizione, attiro l’attenzione di Luca che, vivendo con meno stress la questione, si sposta volentieri per scattargli una fotografia.
I ragazzi della squadra che allestisce lo stage portano dietro le quinte gli strumenti di Birthh, che ha dato il via alla serata con un concerto di apertura, e preparano la scena per l’arrivo di Daniela Pes: il computer, il mixer, i sonagli, il tamburo… Sulla maglia di uno di loro c’è disegnato l’astronauta russo Jurij Gagarin; è ritratto in tuta spaziale, il casco CCCP e la scritta: non c’è nessun dio quassù. Mentre loro si affannano e il fonico risolve gli ultimi capricci tecnici, mi vengono in mente i racconti di Vasco Brondi che non ancora ventenne montava e smontava i palchi di questo festival, anche quando erano venuti i Radiohead a suonarci nel 2003.
Rombo di tuono e luce di lampo, Daniela Pes si presenta a noi in silenzio. Mette le mani sul mixer; le due musiciste che la accompagnano si dispongono al suo fianco. Tutte e tre in abito nero, il loro sguardo si rivolge a un punto indefinito lontano, oltre a noi spettatori. Le prime note, alle nove e cinquanta, sono della canzone Ora. È il solo brano in cui la musica non è composta da lei, bensì da Iosonouncane, il produttore, pure lui sardo, del disco. I loro percorsi artistici sono intrecciati anche perché, parlando dei testi, entrambi hanno immaginato una lingua nuova per scriverli. Daniela ha cominciato il suo percorso lavorando sulle poesie in dialetto gallurese di un prete del Settecento che portava il suo stesso cognome – Pes. Col tempo ha fatto una scrematura, arrivando a mantenere di quelle poesie solo un nucleo di lingua arcaica; e ha sviluppato la propria cifra stilistica mescolando a ciò una serie di linee melodiche complementari di sua invenzione.
Iosonouncane ha fatto qualcosa del genere nel suo terzo album, in cui i testi sono una commistione di quattro lingue esistenti diverse.
Termino il pignoletto e, come fa il ragazzo vicino a me, infilo alla buona il bicchiere di plastica robusta nella tasca dei pantaloni, per liberarmi le mani e percepire più intensamente i suoni che infondono ritmo ai piedi e alle gambe, al collo e alla testa. Un trio di ragazze alle mie spalle già non riesce a star fermo, e la cosa mi mette di buon’umore perché, a proposito della domanda del mio amico Luca, la vera risposta che volevo dargli è che la musicista sarda ha fatto un disco di canti sacri che chiedono di essere danzati.
Mentre scorrono Ca mira, Illa sera e Carme sento che le amiche alle mie spalle, e una di loro in particolare, canta gioiosamente i versi nella lingua inventata di Daniela Pes e anche io decido di lasciarmi andare pur senza sapere che cosa sto dicendo. È una sensazione simile a quella che ho provato alla cerimonia della capanna sudatoria. La donna che mi ospitava nella piccola isola della Danimarca in cui ho vissuto per un periodo amava purificarsi con questo rito. Nella versione che io ho sperimentato con lei, l’officiante intonava degli inni nella lingua dei nativi americani, precisamente della tribù Lakota, suonando ferocemente il tamburo. Lui, Jens, aveva imparato l’idioma e i precetti del rituale trascorrendo molto tempo in America con loro, mentre lei, Daffy, era ancora un’apprendista ai primi passi. Cantando gli ultimi fonemi della canzone di Daniela Pes che sta per terminare, mi sento Daffy che cerca di ricalcare le liriche degli indiani. A questo brano ne segue un altro, un’esplosione strumentale di dieci minuti, in cui non c’è niente da intonare. Dopodiché la cantante sarda e la musicista alta e bionda, quella che suona il tamburo, lasciano sul palco l’altra, bruna e piccolina, a sperimentare dei suoni extra-album con i sintetizzatori.
Quindi tutte assieme suonano le ultime tre canzoni; poco prima delle undici terminano il concerto senza aver detto una parola che non fosse di canto; la lunga ovazione finale la accolgono con emozione e ripetuti inchini di ringraziamento come si fa a teatro. Mi soffermo senza fretta di andarmene, nella speranza che magari faranno un’ultima canzone, ma in molti hanno già cominciato a tagliare la corda, ed è chiaro che non ci sarà nessun bis; anche il ragazzo con la maglia dell’astronauta e i suoi colleghi hanno ripreso a darsi da fare e stanno sgomberando la scena dagli strumenti musicali. Mi incammino anche io: attraverso la piazza ciottolata, imbocco la via dei locali, dei bar e dei ristoranti etnici. Degli uomini asiatici, come risposta al caldo urbano improvviso, si sono seduti placidamente ai tavolini, coi piedi nudi per terra e le infradito lasciate poco più in là. Supero dei ragazzi miei coetanei, universitari forse, e sento con un pizzico di sorpresa che stanno parlando di politica e delle elezioni imminenti. Mi torna in mente il candidato sindaco che ho visto al concerto e mi chiedo come abbia trovato l’esibizione di Daniela Pes, se gli sarà piaciuto il concerto.
Per quanto mi riguarda questo non era il suo primo live a cui assistevo, l’avevo ascoltata a Milano poche settimane fa al festival Mi Ami. Avevo insistito coi miei amici perché o non la conoscevano o non ne erano incuriositi. Avevo avuto la meglio e c’eravamo andati, ma in quella gran confusione di oltre trenta artisti in poche ore e cinque palchi, non eravamo riusciti ad apprezzarla come volevo. Ricevo su whatsapp un messaggio da Luca, il mio amico fotografo, che dice: “Mi è piaciuta, molto, la riascolterò sicuramente”. Ne sono contento, non la considero una cosa scontata. In effetti, per godere di una musica sofisticata come la sua, credo che l’atmosfera del Castello Estense e di Ferrara sotto le stelle sia l’ideale. Per me ci è voluto tempo, a dire la verità. Ho iniziato ad ascoltarla in Danimarca; sentivo sei, sette ore di musica al giorno: tante playlist, tanta NTS Radio, non molti album interi. Verso la fine di quell’esperienza scandinava stavo già transitando verso una nuova esperienza di ascolto (più selettiva, con momenti di digiuno dalle canzoni, ovvero di silenzio); rientrato a Ferrara, ho ascoltato quasi soltanto dei dischi per intero. Fra questi c’è Spira, che se vi piace camminare da soli alla sera per le vie del centro o della periferia sarà un compagno dolcissimo, ma qualcosa, anzi qualcuna, una ragazza alla ricerca del proprio equilibrio interiore, mi suggerisce che va bene anche se vi piacere sudare, cantare, battere il tempo su un tamburo… insomma, se pensate di partecipare a una capanna sudatoria in futuro, please, remember the name – is it music or new vodoo?
Reportage di Emanuele Gessi, fotografie di Sara Tosi
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Emanuele Gessi
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