Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi
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Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi
Opere che si nutrono d’aria e che l’aria valorizza quelle di Daniela Carletti. L’artista ferrarese ha appena concluso una bella personale negli ampi e luminosi spazi del Centro mercato di Argenta e a breve aprirà il suo studio in uno dei percorsi di visita offerti dalla manifestazione Cardini Atelier Aperti (nel weekend di sabato 29 e domenica 30 marzo 2025). Dagli anni Ottanta ad oggi, Daniela si dedica a una pittura fatta prima di tutto di ricerca e di sperimentazione. Tecniche combinate in una fusione armonica di segni, sfumature, colori.
Mito e natura si fondono nelle opere basate su alcune delle metodologie di lavoro che hanno segnato lo stile delle avanguardie artistiche del Novecento e che vengono riprese, rielaborate e utilizzate in maniera personale.
Il frottage – che è un metodo di disegno che consiste nel far affiorare sul foglio di carta il rilievo sottostante, utilizzato e rilanciato da uno dei maggiori esponenti del surrealismo come Max Ernst – con Daniela si estende in chiave più pittorica e trasforma le erbe dei campi in matrici di stampo naturalistico, che sovrappongono le loro forme e scabrosità per fare riemergere grandi steli, foglie giganti e altre specie campestri sui fogli e sulle tele.
La tecnica del dripping – che consiste nel lasciar sgocciolare i colori sulla tela senza l’uso di pennelli – diventa per Carletti segno che sintetizza filamenti di origine vegetale e partiture di tela che si contrappongono a parti trattate con procedimenti diversi.
Questo sistema che sfrutta la colatura dei pigmenti è stato anticipato nella forma della scrittura automatica da esponenti del surrealismo per essere poi adottato, a partire dalla metà del Novecento, dall’artista americano Jackson Pollock con il quale nasce una vera e propria scuola dell’action painting. A livello nazionale, la metodologia si ritrova in un pittore come Mario Schifano con un’interpretazione tutta personale che non ha disdegnato rappresentazioni naturalistiche, dai ‘campi di grano’ a certi ‘paesaggi anemici’.
Daniela fa notare come il paesaggio piano del territorio padano resta per lei una costante. Un orizzonte costellato qua e là da figure di tipo vegetale o umano, di genere prevalentemente femminile. Sulla tela queste figurazioni sono più descrittive e didascaliche. Volti che mi evocano la simbologia delle stagioni – l’Estate gialla di grano di un volto di donna dalla pelle scura e la Primavera rosata e fiorita – ma che il titolo delle opere riporta a una mitologia letteraria diversa.
Il riferimento è quello antropologico della cultura aborigena australiana, recuperato attraverso la lettura dei diari romanzati dello scrittore britannico Bruce Chatwin, Le vie dei canti. Questi lavori – spiega Daniela, che dell’opera di Chatwin ha ripreso il titolo – raccontano le indagini che lo scrittore svolse nelle terre australiane sulla tradizione dei canti rituali, tramandati di generazione in generazione come conoscenza iniziatica, che danno voce contemporaneamente ai miti della creazione e alle mappe del territorio. Un riferimento, quello a Bruce Chatwin, così sentito da ritornare nel titolo stesso scelto da Daniela per questa esposizione: “Il tempo del sogno”. Un tempo che – come riporta lo scrittore britannico nel suo libro-diario di viaggio – è l’epoca che precede la creazione del mondo e che in qualche modo contiene i modelli che poi prenderanno forma nella realtà.
Il passaggio dall’idea alla realtà è una metafora che si può ritrovare nella forma nelle opere. Il profilo bidimensionale delle tele, per la maggior parte di dimensioni vaste, è predisposto per assumere anche la terza dimensione. Le cerniere, celate sullo spessore laterale dei telai, consentono infatti ai dipinti di essere anche appoggiati a terra. Le opere si trasformano così nelle quinte di una scenografia che può essere considerata il passaggio dall’immagine pura e semplice al suo inserimento nel mondo, che sfuma dalle tinte più calde (giallo, rosa, arancio) a quelle più fredde dell’azzurro e del verde.
Le sculture si caratterizzano, invece, per la totale monocromia. Di tonalità bianca, le statue si compongono di una struttura metallica composta da una rete di fili avvolti nella garza passata nel gesso e protetta da una resina finale con una metodologia specifica messa a punto dall’autrice.
Una tecnica che ancora una volta si nutre d’aria e ingloba l’ambiente intorno, proiettandosi a sua volta nel mondo in un gioco di luci e ombre.
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Giorgia Mazzotti
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Grazie a Giorgia Mazzotti per questo bellissimo articolo a me dedicato. L’attenzione e l’apprezzamento che mi ha manifestato con il suo articolo mi sono di stimolo a continuare questa splendida avventura nel mondo dell’arte.