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di Marianna Usuelli ( Valigia Blu 11 Gennaio 2023)

Dall’Europa all’Italia: le comunità energetiche rinnovabili sono un esempio di decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori

1975. Nel pieno della crisi energetica, il governo danese vuole scommettere sul nucleare per emanciparsi dalla dipendenza dal petrolio mediorientale. Ma la popolazione si ribella. In un paesino della costa occidentale della penisola, i cittadini riuniscono competenze e manodopera e in tre anni costruiscono una turbina eolica da 2 MW per sfruttare la risorsa più abbondante e libera del paese, il vento, e produrre e condividere elettricità locale e pulita. Vogliono abbassare il prezzo delle bollette, ma anche dimostrare che un’alternativa al petrolio e al nucleare esiste, ed è alla portata di tutti. 

La crisi petrolifera degli anni ’70 ha dato uno slancio al movimento per l’energia eolica danese e oggi la Danimarca è uno dei paesi con una più antica tradizione di “comunità energetiche”, radicate sul territorio da ben prima che l’Unione Europea emanasse la Direttiva REDII 2018/2001 che ne definisce le caratteristiche.

Da allora infatti la popolazione danese ha cominciato a investire in parchi eolici, tanto che nel 2013 circa il 75% delle turbine era di proprietà delle comunità locali. Questo è anche il risultato di una serie di politiche del governo, a partire dal Danish Renewable Energy Act che già nel 2009 richiedeva che tutti i nuovi progetti eolici fossero per almeno il 20% di proprietà della popolazione locale. 

Gli Stati pionieri

Con la Direttiva sulle rinnovabili REDII del 2018, l’Unione Europea ha introdotto la definizione, i diritti e i doveri delle comunità energetiche rinnovabili (CER), richiedendo agli Stati Membri di seguire un modello più decentralizzato e rinnovabile di energia elettrica, sulla scia di quanto già avviato in Danimarca, Olanda e Germania. 

Il recepimento della Direttiva varia di paese in paese, ma in generale le comunità energetiche sono soggetti giuridici che possono produrre, consumare, condividere, accumulare e vendere energia rinnovabile tra i loro membri. Possono riunire cittadini, PMI, associazioni e enti locali di un territorio sotto lo stesso impianto di energia e non possono essere finalizzate al profitto, ma devono invece produrre benefici economici, sociali e ambientali per i membri e per i territori. 

“Se in molti paesi con una limitata tradizione storica di comunità energetiche la normativa europea ha provocato una vera e propria esplosione del fenomeno, negli Stati ‘pionieri’ non c’è stato un così forte cambiamento”, spiega Nicolien Van der Grijp, senior researcher presso l’Institute for Environmental Studies della Vrije Universiteit Amsterdam. “Ad oggi in Olanda sono già attive oltre 700 comunità energetiche perché il governo già prima della Direttiva aveva provveduto ad introdurre incentivi a favore dell’autoproduzione e della condivisione di energia tra i cittadini”. Inoltre, nel 2019 con l’Accordo olandese sul clima è stato fissato un target del 50% di energia rinnovabile di proprietà e produzione locale al 2030.

Lo slancio della normativa europea

“I paesi con sistemi elettrici decentralizzati hanno solitamente un più forte radicamento di cooperative e comunità energetiche”, spiega Maria Luisa Lode, ricercatrice dell’Università Libera di Bruxelles, “Nei sistemi energetici centralizzati di paesi come Italia e Francia, seppure molto diversi tra loro, la creazione di comunità energetiche è più complessa e meno spontanea”. Ed è proprio qui che l’introduzione della normativa europea è stata un’assoluta novità e ora vediamo la maggiore crescita del fenomeno.
La federazione delle cooperative energetiche rinnovabili europee REScoop.eu sta monitorando lo stato del recepimento della direttiva europea nei vari paesi membri attraverso il Transposition Tracker.
Secondo Stavroula Pappa, avvocata esperta di energia e project manager di REScoop, “l’Italia è uno dei paesi che si trovano allo stadio più avanzato e c’è un fermento e una crescita fortissima del numero di progetti”.

Dopo il primo recepimento con l’art. 42bis del Decreto Milleproroghe nel 2020, si è aperta una fase sperimentale. Con il successivo D.lgs. 199/2021 e l’attesa emanazione dei provvedimenti di implementazione relativi alla condivisione dell’energia e agli incentivi, inizierà una fase più matura con progetti di taglia maggiore. Se la comunità energetica italiana di oggi ha in media una ventina di membri e non supera i 200 kW di potenza, il nuovo decreto aprirà a un più ampio perimetro geografico permettendo il coinvolgimento potenziale di migliaia di famiglie e una potenza degli impianti candidabili fino a 1 MW ciascuno. Inoltre il PNRR ha allocato 2,2 miliardi di euro per sviluppare comunità energetiche in comuni al di sotto dei 5.000 abitanti e ha fissato un target di 2 GW di capacità di rinnovabili da installare entro il 2026 tramite le comunità energetiche nei piccoli paesi. 

Nonostante tutto ciò, l’iter burocratico complesso e i tempi lunghi di risposta del Gestore dei Servizi Energetici (GSE) hanno rallentato fortemente lo sviluppo di CER in Italia, tanto che al giugno 2022 Legambiente ha mappato appena un centinaio di comunità energetiche di cui solo 16 sono registrate sul portale e solo tre hanno ricevuto i primi incentivi. Nell’ultimo anno e mezzo l’Italia è stata però l’arena di significativi progetti di sperimentazione, distinguendosi dalla tradizione nordica e diventando oggetto di studi per la loro innovazione sociale.

Il carattere sociale delle Comunità energetiche rinnovabili italiane

Se nei paesi “pionieri” l’iniziativa è promossa quasi sempre dal basso, dalla volontà della popolazione locale di accelerare la transizione e di risparmiare producendo energia locale e pulita, in Italia le comunità energetiche nate da cittadini e associazioni sono solo il 14%. 

La maggior parte è infatti il risultato della mobilitazione di risorse pubbliche da parte di enti locali. Oltre alla disponibilità di tetti degli edifici comunali, questo è anche dovuto al fatto che le sovvenzioni regionali e nazionali e le fondazioni bancarie – ad esempio Fondazione Cariplo, Fondazione San Paolo e Banca di Cuneo – premiano proprio i Comuni per l’installazione di impianti fotovoltaici. E come afferma Matteo Caldera, ricercatore di ENEA, “i progetti a fondo perduto consentono di distribuire tutti i benefici tra i membri della CER oltrepassando la barriera dei costi iniziali e permettendo una maggiore focalizzazione sugli obiettivi sociali”. 

L’Associazione Comunità Energetica di Fondo Saccà – E.T.S, ad esempio, è nata nella zona periferica Maregrosso di Messina su iniziativa della Fondazione di Comunità di Messina. La CER, che trae origine da un progetto di cohousing sociale, riunisce tre edifici che ospitano quattro persone provenienti da un ex ospedale psichiatrico giudiziario impegnate in un percorso di inclusione sociale, un centro per l’infanzia, una famiglia con difficoltà socio economiche e un ufficio. I benefici economici derivanti dalla produzione dell’impianto fotovoltaico da 200 kWp, saranno redistribuiti tra i membri della comunità energetica seguendo un “algoritmo sociale”, che tiene conto del loro grado di fragilità sociale ed economica secondo logica di mutuo soccorso.

“Le CER italiane sono maggiormente centrate sulle ricadute sociali rispetto alla maggior parte dei paesi UE. In Olanda, tra le oltre 700 comunità energetiche presenti solo una dozzina ha tra gli obiettivi la lotta alla povertà energetica”, spiega van der Grijp, aggiungendo però che con l’attuale crisi energetica la situazione sta cambiando perché un numero sempre maggiore di famiglie è in difficoltà.

Così, oltre alla tutela ambientale e al risparmio energetico ed economico, in Italia hanno un ruolo preponderante la lotta alle disuguaglianze ma anche il contrasto allo spopolamento dei piccoli paesi rurali, la rivitalizzazione del tessuto sociale e la creazione di nuove opportunità di lavoro locale. E questi obiettivi sono più facilmente perseguibili quando alla guida del progetto c’è un ente locale. 

Ma ci sono anche casi di CER italiane nate dal basso, in cui il ruolo dei cittadini è stato cruciale per l’avvio dei progetti. Queste esperienze emergono soprattutto da quell’humus di cooperative che da lungo tempo promuovono un modello energetico decentralizzato e decarbonizzato. È il caso, ad esempio, della comunità di Santeramo in Colle (Bari), nata sulla spinta di un socio della cooperativa di energia rinnovabile ènostra, che è andato a bussare alla porta degli assessori della città per spingerli a costituire una CER a beneficio della cittadinanza alimentata dal fotovoltaico da 42 kWp realizzato con finanziamenti a fondo perduto sul tetto di una scuola. Ènostra, che fornisce consulenza per aiutare i promotori di comunità energetiche a districarsi nel complesso iter burocratico, ha coordinato la nascita del progetto e ha assegnato al socio un incarico retribuito in qualità di facilitatore locale del progetto CER.

Comunità e cooperative

Anche l’Italia ha una storia antica di comunità e cooperative energetiche, interrotta nel 1963 dalla nazionalizzazione del sistema elettrico e dal monopolio di Enel e riemersa dopo la liberalizzazione del mercato. È un ambiente fertile che stimola le iniziative collettive e dal basso. Al tempo stesso, è la natura stessa delle rinnovabili a spingere verso progetti locali, partecipati e decentrati. Come si legge nel libroCome si fa una comunità energetica a cura di Marco Mariano (Altreconomia 2021), “sono proprio le caratteristiche delle energie rinnovabili, estremamente diffuse sul territorio, a suggerire un modello alternativo di organizzazione del sistema energetico e in particolare del sistema elettrico. Un sistema diffuso, dove il consumatore possa anche essere produttore”. 

In questo sistema, in cui il prosumer (termine inglese crasi tra produttore e consumatore) acquista un ruolo centrale, la comunità energetica diventa lo strumento per permettere anche a chi non ha la possibilità di installare il proprio impianto fotovoltaico di diventarlo. 

Secondo uno studio del 2016 di CE Delft, metà della popolazione europea (264 milioni di persone) nel 2050 potrebbe autoprodurre energia elettrica da fonti rinnovabili. “Vista l’attuale situazione possiamo sperare di raggiungere questi numeri anche prima”, sostiene Stavroula Pappa. 

Di certo le CER non possono da sole garantire la decarbonizzazione del sistema elettrico italiano, visto che per renderci indipendenti dal gas russo seguendo lo schema di RePowerEu, dovremmo installare 10 GW di potenza rinnovabile all’anno, quasi 10 volte i tassi attuali. Nell’ottica di un così forte aumento dell’elettricità in rete, Matteo Caldera sostiene che le CER non siano solo ottimi strumenti a impatto positivo ambientale, economico e sociale, ma “premiando l’energia consumata nel momento stesso in cui l’impianto la produce, potranno anche avere un ruolo determinante nell’alleggerire il sistema elettrico e nella riduzione dei consumi energetici”.

Quando si dice che la transizione energetica non è solo un passaggio di tecnologie ma richiede anche un cambio di mentalità, le CER rappresentano uno dei pochi strumenti già esistenti per sperimentarlo, attraverso decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori.

In copertina: la turbina eolica costruita dagli abitanti di Tvindkraft in Danimarca nel 1975

Marianna Usuelli
Giornalista, collabora con la rivista Altreconomia e Valigia Blu. È tutor del Master Interdisciplinary Approaches to Climate Change della Università Statale di Milano e collabora con l’Unità Aria e Clima del Comune di Milano.

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