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A Davos si incontra il gotha dei “potenti” della Terra (2.700 tra politici, banchieri, finanziari, imprenditori) invitati da Scwhab, presidente del World Economic Forum (Wef).

L’Italia quest’anno lo snobba, ci va solo il ministro dell’Istruzione Valditara. Il 2023 è un anno ‘novus’, perché la guerra in Ucraina ha rotto uno schema globalista e neo-liberista che andava avanti da 23 anni.

Con la pandemia (2020-21) la finanza e le grandi multinazionali avevano raggiunto i massimi profitti, guadagnando in 2 anni più che negli ultimi 20 anni. Ma nel 2022 la guerra ha sovvertito tutto e fatto perdere solo alle 5 principali big tech un terzo di capitalizzazione in borsa (mille miliardi su tremila).

Le cose non vanno troppo bene per il “business” e c’è molta preoccupazione tra i partecipanti a Davos (dice Scwhab) perché il 2023 porta con la guerra in Ucraina vari problemi:
1. una forte inflazione (che durerà per almeno due anni) con conseguente ulteriore impoverimento delle fasce povere (ma anche del ceto medio) sia in America che in Europa.
2. Il debito pubblico e privato  che è altissimo (360% del Pil mondiale, era al 100% a fine anni ‘70).
3. conflitti geopolitici con Cina e Russia che possono portare a guerre (Taiwan,…).
4. Potenziale nuovo sistema monetario mondiale con relativo declino del dollaro e difficoltà nei rifornimenti energetici e di materie prime.
5. crisi climatica che, da un lato, reclama radicali cambiamenti nel modo di produrre e consumare, dall’altro potrebbe confliggere con i nuovi business dell’ambiente se si traducono in ulteriori sacrifici, date le enormi disuguaglianze, per le classi più povere e il ceto medio, che potrebbero “rivoltarsi contro il sistema”.

C’è anche una “gara” tra sinistra e destra per avere i voti dei ceti più deboli (già impoveriti negli ultimi 20 anni), ma che lo saranno ancora di più in futuro.
Tra i banchieri e la finanza c’è la coscienza che dopo le “magnifiche sorti e progressive” del neo-liberismo avviato dopo il crollo dell’URSS, la crisi del 2008, sfociata col fallimento di Lehman Brothers, non è affatto superata. La modifica avviata nel 1999 su come operano le banche e la finanza accentua le disuguaglianze e non aiuta imprese e famiglie a prosperare nell’economia reale.
La forte spinta alla recente iper inflazione è venuta proprio dalla speculazione di 54 banche occidentali e 154 fondi finanziari che hanno acquistato tutto il possibile alla borsa del gas Ttf di Amsterdam un anno prima dell’invasione dell’Ucraina, con aumenti del prezzo del gas già dieci mesi prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino e hanno contribuito all’inflazione più della guerra stessa.
Poiché nel frattempo l’Europa politica non è nata e gli Stati si sono indeboliti, chi domina è la finanza, mentre i cittadini subiscono le conseguenze degli speculatori e delle grandi corporations.

Adesso ci si è messa di mezzo anche la Russia, invadendo il Donbass ucraino e ciò costringe a vari dilemmi: negoziare con Cina-Russia e riprendere la vecchia via o sperare di sconfiggere la Russia a costo di un allungamento del conflitto (o di un conflitto nucleare) con un ulteriore impoverimento anche dei nostri cittadini (e non solo di ucraini e russi)?
Se si sconfiggesse la Russia si potrebbe togliere alla Cina un partner importante, ma quali sarebbero le conseguenze geopolitiche della “scomparsa” della Russia? E se la crisi continua e si fa lunga, come voteranno in futuro i ceti deboli?
Rafforzeranno la destra estrema o la sinistra estrema? Difficile infatti pensare che di fronte a un radicalizzarsi delle condizioni, continuino a votare per soluzioni moderate vicine all’attuale establishment che governa l’Occidente.

Non è la prima volta che sinistra e destra si sfidano per l’egemonia sui ceti più deboli.
Quando scoppiò la crisi nel 2008, il protagonismo fu assunto da movimenti sociali di sinistra (Indignados, Occupy Wall Street, Nuit debout,…costruendo il retroterra per la nascita di formazioni politiche nuove (Podemos, France Insoumise,…) o per la svolta a sinistra di partiti democratici (Labour in UK, Sanders in Usa,…).
Ma col tempo la destra si è mostrata più capace di attrarre consensi, specie con Trump: matto come un cavallo, ma che ha difeso i salari e l’occupazione local a costo dell’uscita dalle guerre Usa e dell’imposizione di dazi, che hanno reso più caro il made in China del 13%. Anche i paesi dell’Est Europa lavorano molto sul nazionalismo e la difesa dei propri cittadini, della propria identità e infatti in Spagna sta crescendo l’estrema destra di Vox. In Svezia ha vinto dopo decenni la destra.

Se si guarda ai primi passi del Governo Meloni, si nota l’intento di smarcarsi da un allineamento solo europeista-americano (non sulla guerra), favorendo la Germania (Lufthansa preferita al fondo finanziario Usa in Ita, la cordata cipro-israeliana per il polo chimico di Priolo anziché il fondo Usa; un ruolo maggiore dello Stato che gli stessi operai vorrebbero: all’Ilva votano per la nazionalizzazione, per esempio, il 98%).
Ci sono alcune politiche attente verso i ceti deboli (110% che diventa 90% escludendo le seconde case e limitato ai redditi più bassi, i bonus per l’energia alle fasce deboli…).
Già negli anni Venti e Trenta l’avvento del fascismo dimostrò che le ipotesi dei socialisti della II internazionale, i quali pensavano che da una crisi nascesse per forza una svolta a sinistra e una società più giusta, non erano così scontate.

Rosa Luxemburg (ma soprattutto Gramsci) scrissero invece che un impoverimento poteva proprio creare il terreno ideale per le forze di conservazione. Forze che oggi  sono (a mio avviso) le multinazionali e la finanza, che si vantano di essere innovatori perché propongono il digitale e l’intelligenza artificiale.

Gli Stati sono accusati dai globalisti  / neo-liberisti di essere la causa del nazionalismo, del populismo, del sovranismo che impedisce politiche comuni, per esempio a favore della natura. La Polonia difende il suo carbone e si oppone al new deal europeo dell’ambiente. Ma è anche vero, come dice Daniele Conversi in Cambiamenti climatici – Antropocene e politica ( Mondadori) che gli Stati possono cambiare, proteggendo i propri cittadini e diventando protagonisti di buone pratiche di eguaglianza e di sostenibilità.

La sfida è coniugare il nuovo sviluppo con la difesa delle classi deboli. Si pensi al problema dell’efficienza energetica delle case per ridurre l’inquinamento. L’Europa chiede che entro il 2030 le case abbiano una efficienza di classe E (tipo gli edifici costruiti tra gli anni ‘90 e i 2000 in Italia, che consumano 91-120 chilowattora al metro quadro), per poi progredire entro il 2033 alla classe D (con 71-90 kWh per mq), un salto che richiede il taglio del 25% dei consumi.
Ma oggi il 60% delle case in Italia (le più povere) è in classe F o G. Se questi ceti deboli non venissero aiutati ci sarebbe un enorme rivolgimento contro l’Europa, che sarebbe vista come la longa manus delle multinazionali dell’immobiliare, pronte ad acquistare le case svalutate da una, in teoria, “giusta” politica di riconversione ambientale.

Cover: Le prime fasi di spostamento del quadro di Pellizza Da Volpedo “Il Quarto Stato” nella Galleria del Futurismo al museo del ‘900 a Milano, 27 aprile 2022 (ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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