Martedì 9 aprile la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito che il Governo della Svizzera ha violato i diritti umani di un gruppo di anziane cittadine riunite nell’associazione delle Klimatseniorinnen, letteralmente “anziane per il clima”.
Da molte parti la sentenza viene definita storica, perché è la prima volta che la Corte annovera il diritto a un clima stabile tra i diritti umani, anche se nello stesso giorno ha respinto, per questioni procedurali, analoghi ricorsi promossi da sei giovani portoghesi e dall’ex sindaco di una cittadina francese. Le questioni affrontate nelle 260 pagine della sentenza della CEDU sono molte e complesse, ma vale la pena di soffermarsi su alcuni punti chiave, per le loro possibili ripercussioni che vanno ben oltre al caso specifico.
Il primo punto è il riconoscimento della crisi climatica come questione che mette in pericolo i diritti umani dei cittadini e delle cittadine dei 46 Paesi che aderiscono alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sul rispetto della quale vigila la CEDU. Si tratta del primo pronunciamento in tal senso, che ha un grande potenziale di essere replicato in casi analoghi. Per questo la Corte ha voluto delimitare il perimetro di coloro che possono ricorrere su questa questione, accettando il ricorso dell’associazione ma non quello di quattro singole cittadine. La sentenza riassume in modo molto efficace i passaggi chiave della scienza sul clima, discute le cause e le conseguenze del riscaldamento globale e descrive il complesso sistema di accordi e convenzioni internazionali costruito per affrontarle. Da questa analisi trae una serie di conseguenze sul dovere degli Stati aderenti di agire per ridurre le emissioni di gas climalteranti nella misura e con i tempi concordati dagli accordi via via sottoscritti, dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992 all’Accordo di Parigi del 2015. La sentenza è molto chiara nell’individuare l’obiettivo generale di questi accordi (mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale) e nel definire il riferimento temporale entro il quale le emissioni di gas climalteranti devono essere del tutto eliminate. Coerentemente essa stabilisce che gli Stati devono definire un vero e proprio “budget di carbonio” (cioè un tetto alle proprie emissioni coerente con quanto stabilito dai rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) e che i governi devono adoperarsi affinché le emissioni restino all’interno di questo budget.
Uno secondo punto saliente della sentenza è il riconoscimento del margine di discrezionalità dei governi nella loro azione di contrasto al cambiamento climatico, margine che viene però precisato in due modi diversi. La CEDU, infatti, da un lato riconosce l’ampio margine di discrezionalità dei governi nella definizione delle modalità con cui affrontare il problema, ma dall’altro stabilisce che tale margine è molto stretto per quanto riguarda il raggiungimento degli obiettivi derivanti dagli accordi internazionali sottoscritti. Detto in altri termini, la Corte definisce in capo agli Stati un “obbligo di risultato” e stabilisce che il dovere dei governi non si esaurisce nella firma di accordi internazionali ma si materializza nella predisposizione di atti legislativi coerenti e nella messa in pratica di misure concrete ed efficaci. È importante soffermarsi su questo punto anche in relazione alle posizioni espresse nel nostro Paese in merito alle sempre più numerose iniziative legali sul clima e sull’ambiente da alcuni commentatori i quali paventano il pericolo che alcune “toghe verdi” possano sindacare la discrezionalità politica dei governi nazionali e regionali e delle amministrazioni locali. La sentenza della CEDU fa sul punto una chiarezza indispensabile: la discrezionalità di chi governa è massima sulle modalità con le quali si persegue un risultato ma è minima rispetto all’obbligo di ottenere il risultato, soprattutto quando sono in gioco diritti fondamentali come quello alla salute: la nostra e quella delle generazioni future. Vale la pena notare che a sostegno del Governo svizzero si sono pronunciati i governi di diversi altri Paesi, dall’Irlanda all’Austria, dal Portogallo alla Norvegia e, naturalmente, anche quello italiano. Ciò testimonia la preoccupazione diffusa di chi detiene il potere politico che l’azione giudiziaria dei cittadini possa arrivare laddove non arrivano le proteste e la normale dialettica tra i partiti.
Merita una riflessione, infine, il fatto che l’iniziativa legale sia stata condotta da un’associazione di 2500 anziane signore, che rivendicano il diritto alla propria salute appartenendo a una categoria particolarmente esposta ai rischi dovuti alle ondate di calore, sempre più frequenti e intense. Dopo anni nei quali giovani e giovanissimi hanno riempito le piazze di tutto il mondo e sono diventati protagonisti della lotta al cambiamento climatico, sono ora le loro nonne ad aver registrato uno dei risultati più importanti, almeno sul piano del diritto internazionale. È un messaggio straordinario, che dimostra l’importanza di far uscire la lotta per il clima dalla dimensione generazionale nella quale è stata confinata dalla retorica del “mondo salvato dai ragazzini” (retorica che, peraltro, non li salva dalle denunce e dalle manganellate quando il potere di turno li ritiene troppo fastidiosi). Non potremo mai ringraziare abbastanza i giovani che si sono spesi e si spendono ogni giorno per tenere viva e alimentare questa lotta e senza di loro la Commissione europea non avrebbe trovato la spinta necessaria per far partire il Green deal. Tuttavia, senza una chiara presa di responsabilità degli adulti che occupano oggi tutte le posizioni di potere, non esiste alcuna possibilità di fermare il riscaldamento globale.
Abbiamo un disperato bisogno di un patto tra generazioni: nonne e nipoti ci sono, ora tocca ai padri e alle madri.
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