IL CONCERTO
Vasco Brondi nove anni dopo sotto le stelle di Ferrara
Tempo di lettura: 6 minuti
Sono arrivata con un pochino di ansia, a questo concerto che torna sui passi del debutto musicale di Vasco Brondi e che ha aperto la rassegna di “Ferrara sotto le stelle”, lunedì 12 e martedì 13 giugno 2023. Come se stessi andando a un appuntamento. È l’appuntamento con qualcuno che ha segnato un pezzettino della mia come di altre vite, che ha fatto da colonna sonora a un tratto di storia, a qualche passaggio determinante, che ha tracciato una linea di collegamento tra la precarietà timida e incerta di quegli anni e un approdo al presente, dove persino l’inattesa fallibilità e la mancanza prendono un peso e un colore diversi. Un po’ come in “Chakra“, dove “qualcuno gli ha detto che gli ha detto” che adesso senza di lui sì che riesce a stare.
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Il cortile del Castello, a nove anni di distanza, mi sembra più piccolo. Non mi è chiaro se ci sia stato un restringimento dell’area per il concerto o se è successo come coi posti dove si è stati da bambini e che dopo, da adulti, ci si accorge che non erano poi mica così grandi. Mi guardo intorno e non vedo più il pubblico di allora, mio figlio liceale è volato via da qui, in nord-Europa, e anche l’altra gente è diversa.
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Non so se siano quegli stessi universitari ventenni che, da quel luglio 2014 ad oggi, sono cresciuti e si sono accasati; o se sono altri, dei loro parenti maggiori che più tardi hanno scoperto, conosciuto e ascoltato questa musica, questi testi.
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Fatto sta che ho l’impressione che ci siano meno persone, ma più grandi, fisicamente più voluminose, che occupano di più lo stesso spazio, illuminato dalle loro sigarette elettroniche e dai loro telefonini registra-storie meno disperate, con meno acne e più corrugata tranquillità.
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Nell’aria ci sono ancora disfattismo e pessimismo, le metafore sferzanti di Vasco Brondi e quei suoni duri, cupi, punk. Ma, in molti tratti, gli stessi brani prendono una connotazione diversa, meno amara e più soddisfatta, è un amaro fondente che si lecca un po’ i baffi e lascia più sazi che amareggiati. La sfumatura è diversa, è la tonalità di uno che ha trovato la sua strada in un sentiero aspro, che si è rivelato però rinfrescante e così pieno di ossigeno. Una pista dove riescono a trovare una collocazione armonica anche i vecchi struggimenti, perché chi li canta ha le scarpe giuste ai piedi e con queste da trekking non scivola più.
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Il concerto ripropone quella visione impervia e controcorrente, che ora Vasco inserisce in uno spazio che sa accoglierla. Una posizione da dove si può scherzare su quello che non c’era o che c’è ma è poco perfetto, come il ballare scoordinato, condiviso e naïf – e per questo bellissimo e condivisibilissimo – che rievoca un po’ quello che innesca Nanni Moretti alla fine del suo film. Il ballo che chiude con poetica, semplice e aggraziata solarità “Il sol dell’avvenire” e che piano piano anche sui ciottoli del Castello Estense contagia tutti e diventa un’armonica danza collettiva, che riavvolge tanti fili e recupera i volti e i personaggi di un’intera biografia, da Giorgio Canali in super forma al suo fianco, fino a quel Manu che Vasco cita spesso.
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Un’occasione per affermare – per Vasco Brondi come per Nanni Moretti – quanto valgano e quanto siano condivisibili i propri gusti, che non sono né trendy né luccicanti o per tutti; roba di nicchia, fatta di materiali fragili e preziosi (perché fragili) e che però riescono ad arrivare al cuore. Forse perché i cuori – dentro – sono tutti fragili. Niente a che fare con un Marco-Mengoni-prendi-tutto, salvo che non sia quello – struggente da graffiarti il cuore – che con un inedito di Sergio Endrigo chiude la versione cinematografica di “Colibrì”.
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Per andare al concerto, mi rendo conto che ai piedi ho messo anch’io le calze e le scarpe tecniche comprate per la montagna, come se avessi dovuto affrontare un cammino o una traversata. È la traversata di questi anni, da quando tutto o tanto era ancora da costruire, fino adesso che magari le cose si infrangono pure e si perdono lo stesso, ma il nucleo, dentro, ha un’altra solidità, con un tetto sulla testa e una seggiola da cui osservare il mondo e condividerlo.
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È la differenza tra ciò che era e ciò che è. E musica, suoni e luogo riattivano la memoria di questa consapevolezza. Riesco proprio a sentirli, la sensazione e il sapore di quella vulnerabilità. E mi accorgo che, come nelle vecchie e grezze canzoni delle Luci della centrale elettrica, la fragilità era comunque emozionante, come quando sei in cima al dirupo e tutto è vertiginoso e possibile: sia superare il burrone sia infrangersi di sotto.
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Mi sembra più grande, maturo e posato questo pubblico intorno a me, arrivato a qualche approdo, o anche solo a qualche impiego stabilizzante. Vasco Brondi e gli organizzatori dell’evento ne devono essere consapevoli, perché tra i gadget del merchandising è stato inserito addirittura un minuscolo body da bebè, dedicato forse a quelle “ragazze che – in “Chitarra nera” – vogliono figli/che vogliono figlie/che ci vorrebbero normali”.
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Il senso del messaggio complessivo è in quella canzone che mi aveva tanto toccato ed emozionato nell’album “Costellazioni”, e che viene offerta con i bis di quelle “Ragazze che stanno bene“, perché hanno capito che “Forse si trattava di accettare la vita come una festa/ Come ha visto in certi posti dell’Africa./ Forse si tratta di affrontare quello che verrà/Come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra/E di mettersi a ballare fuori dai bar/Come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia. /Forse si tratta di fabbricare quello che verrà/ Con materiali fragili e preziosi/ Senza sapere come si fa”.
La rassegna “Ferrara sotto le stelle” è realizzata grazie ad Arci Ferrara e Ales&Co, Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna. Tutto il programma sul sito web www.ferrarasottolestelle.it/lineup-2023.
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Giorgia Mazzotti
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