Caso Soumahoro
Un lavacro per la coscienza corrotta della società italiana
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“E’ nella natura dei mortali calpestare ancora di più chi è caduto”
Eschilo
La vicenda che ha investito Aboubakar Soumahoro e la sua immagine è un autentico lavacro per tutti i maneggioni italiani, i puttanieri, i trafficoni, i piccoli o grandi delinquenti con il colletto bianco o l’appellativo di onorevoli o amministratori segnalati al casellario giudiziale. Ed è una mangiatoia anche per i loro prezzolati cantori a mezzo stampa. In un paese, dal Parlamento alle circoscrizioni, immerso nel malaffare, nelle malversazioni, con un livello di evasione fiscale unico al mondo, segnato dai patti con la criminalità siglati da chi ha influenzato il governo e il costume italiano negli ultimi trent’anni, poter infamare il nero paladino dei diritti equivale ad un pantagruelico banchetto in cui tutti si possono abbuffare, con liberatorio corollario di rutti e pernacchie all’indirizzo dell’impostore.
L’indifferente se ne frega della sorte di quelli che stanno sotto di lui. Non gli interessa nulla di nessuno, a meno che non riguardi lui e la sua famiglia, percepita spesso come fosse una famigghia. Tutti gli altri possono andare a farsi fottere.
Se la coscienza ogni tanto gli manda una puntura di spillo, casi come quello delle cooperative della famiglia Soumahoro, che dichiara una vocazione al riscatto degli oppressi mentre (forse) essa stessa li sfrutta, tacitano ogni morso interiore: lo vedi? Siamo tutti uguali. Anzi, io sono meglio di loro, perchè non sono un ipocrita impostore.
Per questo la debolezza umana, l’errore, la superficialità sono imperdonabili per chi si erge o viene erto a simbolo di lotta contro l’ingiustizia. Soprattutto se la lotta prevede un impegno di riscatto degli ultimi dalla loro condizione. Se emerge la possibilità di mostrare che il difensore degli sfruttati è uno sfruttatore, l’amoralità dell’indifferente esulta. Se poi il difensore degli oppressi opprime proprio coloro che dovrebbe liberare, l’indifferente trionfa, banchettando sulle sue spoglie. Non parliamo poi dei trafficoni, dei delinquenti, dei puttanieri. In questo caso, ad essere legittimate non sono le intime amoralità, ma le loro azioni.
L’esempio conta più delle parole. Enrico Berlinguer, come lui era, per un militante contava molto più della parola “comunismo”. Sandro Pertini, come lui era, contava per un cittadino più della parola “partigiano”. Se l’esempio è negativo, le parole (e persino le azioni) più oneste e condivisibili vengono irrimediabilmente sporcate dal fango. Che un Berlusconi abbia corrotto giudici, pagato parlamentari, messo su un giro di prostitute, alcune minorenni, non è percepito così grave da una parte della popolazione, perchè coerente con l’idea intima che si ha della persona. Che poi la stessa parte della popolazione provi ammirazione per quel tipo di persona, è un fatto che Ennio Flaiano descrive in maniera insuperabile a proposito del carattere degli italiani.
Vicende come questa inquinano e devastano il territorio dell’immaginario molto più nel profondo di quanto appaia. Il fango schizza addosso a tutti coloro che, coi loro limiti, le loro imperfezioni e debolezze, lavorano per una qualche forma di “giustizia sociale” – e il fatto che, nello scriverla, trovi l’espressione retorica, restituisce lo strame che è stato fatto di certe idee.
Da questa vicenda si ricavano due (inascoltate) lezioni.
La prima: chiunque, anche il migliore dei rivoluzionari, dovrebbe schivare come il demonio l’ipotesi di diventare il totem di un culto, anche il più nobile. I totem hanno un destino comune: quello di essere abbattuti.
La seconda: chi fa propaganda della sua lotta, deve essere più irreprensibile degli altri. Altrimenti, più viene portato in alto, più la caduta sarà rovinosa.
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Nicola Cavallini
Commenti (1)
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Illuminante: non avevo ancora letto nulla di così sensato.