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Giuseppina di 29 anni è diventata la bidella più famosa d’Italia: abita a Napoli ma lavora a Milano per 1.165 euro al mese. L’affitto le costerebbe 600 euro e, tra bollette e vitto, non ce la farebbe, le “spese obbligate” sarebbero infatti ¾ del salario, quindi prende il treno da Napoli alle 5.09 che arriva alle 9.40, giusto in tempo per lavorare dalle 10.30 alle 17. Poi riprende il treno alle 18.20 che arriva alle 22.53 a Napoli (salvo ritardi), ma spende meno (400 euro al mese) e così ce la fa anche se fa 10 ore in treno al giorno.
Ma anche il bidello Rocco Scoleri da Bovalino (Reggio C.) che prende 1.229 euro di ruolo da 2 anni dopo 9 anni di precariato non se la passa molto meglio a Modena. Affitto condiviso in 4 in una casa di 100 mq. con servizi in comune che gli costa 400 euro al mese più le utenze. Anche a Modena ci sono gli studentati a 24 euro al giorno (730 al mese) che però non sono sostenibili.

Giuseppina e Rocco fanno parte di quei 4-5 milioni di lavoratori poveri (su 23 che lavorano in Italia) che lo stanno diventando sempre di più con l’alta inflazione. Il lavoro si genera sempre più nelle grandi città dove affitti e case costano sempre di più. Mentre cresce l’impoverimento generalizzato per l’alta inflazione, crescono nell’eurozona i banchieri che guadagnano oltre un milione di euro all’anno: dai 1.383 del 2020 a 1.957 del 2021. In Italia sono 351 (fonte: Autorità bancaria UE).

Un’indagine dei sindacati negli anni ’80 aveva dimostrato che tra i poveri c’erano anche quei dipendenti che lavoravano nelle grandi città e che erano in affitto; inoltre che le spese maggiori erano quelle per il dentista (loro o dei figli). Negli ultimi 40 anni non solo nulla è cambiato, ma le cose sono peggiorate, con affitti sempre più alti nelle città e mancanza di un servizio pubblico per i denti.

Così a Firenze studenti e lavoratori non ne possono più degli affitti alle stelle e parte il referendum per impedire che gli studentati diventino “di lusso” (a 50 euro al giorno) e che il Comune consenta la trasformazione di edifici pubblici in ennesime case acquistate dalle immobiliari per i turisti che impediscono a chi lavora e studia di trovare una casa o un affitto a prezzi decenti. Firenze sta diventando gradualmente (come Venezia e Milano) sempre meno accessibile a chi vi lavora e studia, per essere disponibile ai turisti e ai “ricchi nomadi” di tutto il mondo.

Mentre peggiorano le condizioni materiali della grande maggioranza dei lavoratori e dei pensionati, nonni che spesso sono il welfare famigliare (aiutando figli e i nipoti a studiare), avanza la transizione digitale e “verde” che vuole rendere le case più efficienti. Per il digitale saranno “sollevati” i Comuni dal dare l’autorizzazione alle antenne di 28 metri del 5G, come chiedono le big company e l’Europa propone che si arrivi entro il 2030 alla classe E, ed entro il 2023 alla classe D. Per l’Italia alcuni stimano 8 milioni di case (ma l’Ance dice che sono solo 3,7 milioni) per un risparmio energetico stimato del 15%. Quanto costerebbe per appartamento/casa? Dai 20mila ai 40mila euro. Sarebbero 30-100 miliardi di investimenti all’anno per 7-10 anni. L’ipotesi è che almeno il 50% delle spese sia detraibile a carico dello Stato in 5 anni. Ma in questo caso gran parte delle famiglie povere non si potranno permettere di spendere il 100% e poi recuperarne la metà in 5 anni. Se la detrazione fiscale salisse al 90% si potrebbe fare, ma lo Stato può permetterselo? Vedremo.

I paesi più ricchi e le famiglie più ricche preferiscono stare in affitto, si spostano frequentemente in altre case e luoghi o per lavoro o per abitare in una casa più grande e sono invece i paesi più poveri ad avere un’alta percentuale di proprietari, perché tutto quello che hanno lo investono nella loro casa. L’Italia ha il 70% di proprietari, contro il 60% della Germania e il 50% della Svizzera. In quei paesi le proprietà sono spesso di grandi immobiliari che hanno le “spalle larghe” per poter ristrutturare e/o rivendere, mentre in Italia le spese sarebbero tutte o in parte a carico del singolo proprietario.

In Italia le case dove bisogna intervenire entro il 2033 sono in teoria il 76% del totale: 34,3% in classe G, 25,4% in classe F, 16,3% in classe E. Le altre sono: 9,8% in classe D; 4,4% in classe B; 7,3% in classe A. Le tre classi più energivore (E, F, G) avevano prima del superbonus 110%, il 77% delle case, ora sono il 76%. Ciò significa che l’80% degli interventi è stato fatto sulle case che avevano meno bisogno.
Sono 62 i miliardi di lavori pagati dallo Stato per il 110% che sono andati a 360mila case (inclusi condomini, stime Ance) per 4/5 alle fasce medio alte e seconde case (che sono 5,6 milioni) che avevano quindi già buone case in classe A, B, C, D.

Il superbonus è vero che ha prodotto un aumento degli occupati, del PIL e delle imposte riscosse (stime indicano il 43% di quanto lo Stato ha speso) e non voglio dire che fosse una cattiva misura (è anche un modo per generare moneta aggiuntiva), ma proprio alla luce di questa direttiva che avanza (e che immagino fosse conosciuta) doveva essere meglio disegnato con sussidi meno generosi e per un tempo più lungo e soprattutto con incentivi tanto maggiori quanto più le case erano in classi energetiche basse (per es. max 80-90% ma poi a scalare per chi ha case meno energivore); infine privilegiando i condomini ed escludendo le seconde case.
Così, dopo un’alzata di genio italico (per certi versi è una misura innovativa), ci troviamo messi quasi come prima nella maggioranza delle case e dei condomini energivori, in quanto il 110% è intervenuto solo nel 5% delle case unifamigliari e nello 0,8% di case plurifamigliari o condomini e per 4/5 in case delle classi migliori.

Secondo l’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) servirebbero per 10 anni circa 40 miliardi all’anno solo per gli edifici residenziali (più altri 19 per gli immobili strumentali), per un totale di 59 miliardi all’anno, cioè il doppio annuo di quanto avvenuto col 110% e solo per intervenire su 3,7 milioni di immobili (il 15% dell’intero patrimonio). Sarebbe un intervento di enorme portata che potrebbe determinare un ingolfamento dei lavori e un aumento di tutti i prezzi come avvenuto col 110%. Bisogna quindi capire bene come sarà congegnata la proposta dell’Europa. Al di là delle imprese edili (che non abbiamo), sono in grado le famiglie più povere di pagare 15-40mila euro per efficientare la loro casa/appartamento (seppure agevolata al 50-60%)?

Chi sarebbero gli interessati? Uno studio della Fondazione Di Vittorio ci dice chi sono i “poveri energetici”: 6,4 milioni di persone (10,9% della popolazione), molti anziani che vivono soli e hanno poche conoscenze, dei quali la metà “vulnerabili”, che si trovano in condizione di difficoltà ad acquistare un paniere minimo di servizi energetici e che, oltre alla condizione di disagio economico, vivono in una casa non efficientata, 31% sono vedove/i, che vivono da soli o in due, 2/3 sono donne e nel 42% con la licenza elementare. Molti sono in affitto e 4/5 abitano in una casa costruita prima del 1970.
Le spese di efficientamento energetico degli edifici sono state affrontate da circa il 65%, dal 35% tra i vulnerabili e 25% tra i poveri. Si riscaldano con il camino tradizionale a legna o con gas e gasolio.  Solo il 5,5% ha pannelli solari o fotovoltaico e il 10% non ha proprio alcun riscaldamento. Spendono circa 650 euro per anno, mentre per la casa sui 900 euro per anno. Solo il 18% conosce i “bonus”.

L’ipotesi è un intervento non obbligatorio, in quanto una ristrutturazione di tutto lo stock in classe E, F, G non sarebbe possibile neanche con Mandrake alla presidenza del Consiglio, per cui le case e condomini non ristrutturati (sostanzialmente quelli dei più poveri che non hanno i soldi per farlo), verrebbero svalutati e molti, alla prima difficoltà economica (se perdono il lavoro o non riescono a pagare il mutuo), sarebbero costretti a vendere una casa svalutata. Una ghiotta occasione per le grandi immobiliari che non aspettano altro. Il che produrrebbe forse un milione di altri poveri. Spiace che sia la destra sociale a sollevare il problema, in altri tempi lo avrebbe fatto la sinistra, che oggi privilegia l’ambiente e non sempre chi lavora e i ceti deboli.

La transizione verde va coniugata con le reali condizioni dei cittadini, altrimenti il principio della “libertà di scegliere (che ben si adatta al “sovrano consumatore”) porta a dover vendere la propria casa svalutata e ad impedire di vivere nella propria città per chi ci lavora.
Due modi diversi di un neoliberismo che si richiama alla “libertà di”, senza tener conto della “libertà da condizionamenti di sopravvivenza delle persone.

Un capitalismo che si ammanta di “verde” ma che diventa predatorio e riduce il livello di vita e la natura attorno a noi e che rischia ora di espropriare la casa ai più poveri e impedire a chi ci vive e lavora di abitare nelle belle città italiane ai ceti deboli, all’insegna della “libertà teorica” di consumare. Così vanno le cose nel secolo XXI.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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