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Quello che è capitato all’imprenditore e maggior miliardario cinese Jack Ma è significativo della differenza che forse correrà tra il capitalismo americano e quello cinese nei prossimi anni. E l’Europa (se ci fosse) avrebbe molto da imparare su come costruire una società migliore di quella dei due poli/leader mondiali.

Jack Ma, un insegnante di inglese, ha inventato nel 2011 Alibaba, un e-commerce molto più grande di Amazon; poi il pagamento elettronico con Alipay (usata da oltre un miliardo di cinesi). Ha creato una sua banca ed è insieme un imprenditore e un banchiere-finanziario, il più ricco cinese (50 miliardi di patrimonio nel 2020 per Forbes). Il presidente cinese Xi Jinping però non vede più di buon occhio questi miliardari privati che fanno quello che vogliono. A mio avviso, lo Stato cinese ha deciso di “condizionare” i suoi colossi tecnologici e finanziari (Alibaba, Tencent, ByteDance e le altri grandi imprese) regolamentandone l’attività in settori che hanno raggiunto un’influenza senza pari sulla vita quotidiana dei cinesi. La leadership comunista ha così deciso due anni fa, osservando formalmente le leggi cinesi, di avviare una “indagine” su ANT Group (che controlla Alibaba) sfociata in una multa da 2,8 miliardi di dollari, nello spezzettamento della società monopolista di e-commerce, nella vendita del quotidiano South China Morning Post, nell’impedire la quotazione alla borsa di Hong Kong (che avrebbe portato all’ingresso di azionisti stranieri). L’ultimo atto è stato ridimensionare Jack Ma (sceso dal 53% al 6,2% dei diritti di voto), per cui ora egli comanda un consiglio di 10 persone, tra cui lui (il fondatore), un rappresentante del personale, uno del management, e altri 7 “azionisti”, dietro cui si nasconde sicuramente lo Stato Cinese.

Gli Stati Uniti hanno permesso alla Cina di entrare nel WTO nel 2001 sotto la pressione delle multinazionali americane, che volevano far assemblare nelle affidabili fabbriche cinesi i loro prodotti, realizzando profitti molto maggiori attraverso l’utilizzo del lavoro cinese, meno costoso rispetto a quello americano. La Cina garantiva in cambio di diventare una “economia di mercato”, dando alle imprese occidentali gli stessi diritti che avevano in tutto il mondo (nel mercato “libero”) come, per esempio, quello di poter acquistare il controllo anche di aziende cinesi. Cosa che non è mai avvenuta. Nessuno in Occidente, però, in questi 22 anni ha mai protestato…forse per non compromettere gli affari delle imprese Usa e occidentali.

In questi ultimi 20 anni si sono così avvantaggiati molti milionari americani, è decollata la finanza, gli Stati si sono indebitati moltissimo (il debito pubblico e privato globale ha superato i 300mila miliardi di dollari, pari al 360% del pil mondiale, era il 100% nel 1970), ma anche i cinesi sono diventati milionari, tra tutti Jack Ma. La Cina ora pare voglia cambiare: dopo 20 anni di liberismo cinese, mette sotto controllo sia la finanza privata che le grandi aziende (non solo tech) onde evitare di perderle (tramite quotazione alle borse di Hong Kong o altrove), e per indicare come Stato quali sono i settori da sviluppare – un esempio: i semiconduttori, di cui Taiwan, sulla quale ha mire militari, è il primo produttore mondiale – nonché usare parte della ricchezza accumulata per redistribuirla alle zone povere. Lo Stato cinese vuole dire la sua in relazione a quale sviluppo considerare strategico per il proprio futuro.

Il “paradosso” è che sia uno Stato dispotico a preoccuparsi anche dei divari sociali e volere che sia il potere pubblico a decidere quali siano gli orientamenti a lungo termine della società, e non le imprese o la finanza privata. E’ un tema che dovrebbe riguardare piuttosto “le nostre democrazie, sempre più disinteressate alla scuola e all’indipendenza della stampa (che evita di fare buone domande…)”, dice nel suo libro “En finir avec le règne de l’illusion financièreJacques de Larosière (per 20 anni direttore del Tesoro francese, direttore del FMI e governatore della Banca di Francia). De Laroisière è’ molto preoccupato che “la socializzazione del rischio di un debito enorme” possa riversarsi sulle economie occidentali desertificando redditi e lavoro, atteso che l’Europa è fatta “di Governi che vivono nella paura di mercati finanziari ormai dominanti”.

Per l’Occidente liberista le azioni cinesi sono dispotiche e costituiscono violazioni del “libero mercato”, ma non è detto che la maggioranza dei cittadini (cinesi, ma forse anche americani ed europei) sarebbe contraria a vedere ridimensionato il ruolo dei grandi miliardari privati e della finanza, per conferire un ruolo maggiore allo Stato nell’economia, riportare la finanza a fare il suo mestiere al servizio di imprese e famiglie e usare parte dell’immensa ricchezza privata per operazioni di vera redistribuzione.

E’ su queste questioni dirimenti per le persone in carne ed ossa che si confronteranno Cina e Stati Uniti nel prossimo decennio. Potrebbe proprio succedere che la “competizione” aiuti a riportare il capitalismo a “quote più normali”, come successe nei primi 30 anni del secondo dopoguerra nella competizione tra Usa e Urss.

Il problema è che l’Europa non esiste. Siamo diventati alleati completamente proni agli Stati Uniti. In Europa una iniziativa pubblica del genere potrebbe anche progredire, più che per spinta dei partiti, ad opera delle associazioni dei consumatori e dei sindacati, che potrebbero comunque avviare una discussione pubblica. L’esatto contrario di quanto avvenuto col PNRR, dove tutto è stato deciso dall’alto, senza alcuna consultazione pubblica, dei Comuni, tantomeno delle associazioni o dei sindacati. Ci ritroveremo con opere spesso costosissime, a volte inutili e, nella migliore delle ipotesi, con un respiro corto. Come nel caso delle mille “case della salute”, dove l’impossibilità di assumere ci darà bellissime strutture piene di attrezzature ma senza personale.

Occorre prendere atto del fatto che redistribuire la ricchezza o individuare quali siano i reali bisogni da soddisfare per l’umanità non è un tema che interessa al capitalismo liberista. Solo un’azione collettiva promossa dalla partecipazione dei cittadini tramite le loro associazioni può orientare l’agenda economica e sociale in questa direzione, non certo il “libero mercato”. La crisi del capitalismo in Usa ed Europa, al di là dell’immagine semplificata (anche se in parte fedele alla realtà) per cui noi siamo “liberi” e “loro”  sotto il giogo di una dittatura, dimostra una cosa:  se accanto ai diritti civili di stampo occidentale non si affermano anche i diritti sociali sostanziali, non ci potrà essere autentico progresso. Non sarà semplicemente gridando al mancato rispetto dei diritti civili nell’emisfero orientale, che si potrà invertire la tendenza all’ampliarsi del (già enorme) divario sociale che caratterizza gli ultimi 20 anni di molte società occidentali avanzate.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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