All’uscita dall’Alta Corte londinese, dove Julian Assange ha affrontato, in absentia per motivi di salute, forse la sua ultima possibilità di contrastare l’estradizione negli Stati Uniti, la sua avvocata Jennifer Robinson ha dichiarato: “I giudici hanno chiesto a entrambe le parti ulteriori chiarimenti scritti da consegnare loro entro il 4 marzo; solo dopo aver esaminato questi scritti, annunceranno la loro decisione”.  Ovvero, la decisione se dare a Julian la possibilità di riaprire il suo caso contro l’estradizione oppure dichiararlo chiuso.

Nella seconda eventualità, Julian potrebbe essere estradato negli USA seduta stante, senza lasciare al suo team legale nemmeno il tempo di far intervenire la regola 39 prevista dalla Corte Europea dei Diritti Umani – cioè, il divieto temporaneo di estradizione, per dare alla Corte il tempo di valutare se, nel caso in questione, ci siano state violazioni dei diritti umani.

Per Julian, l’estradizione “significherebbe una condanna a morte”, ha dichiarato sua moglie Stella Moris Assange il 21 febbraio dal palco eretto all’uscita dell’Alta Corte, davanti ad una gigantesca folla venuta per questo “Giorno X” da ogni parte del mondo – tra cui più di 60 attivisti pro-Assange arrivati dall’Italia.

Infatti, un’estradizione negli Stati Uniti – un’infausta eventualità che potremmo chiamare Giorno Y – si tradurrebbe in un processo farsa presso la corte di Alexandria (Virginia) e la condanna alla reclusione per il resto della vita in una cella di isolamento di una orrenda “supermax” (prigione di massima sicurezza USA).  Julian ha già fatto capire che, piuttosto che subire un tale destino, si toglierebbe la vita.  Peraltro, nelle supermax, le morti per suicidio sono il doppio rispetto alle prigioni normali.

E se in vece i due giudici dell’Alta Corte, letta la documentazione scritta da loro richiesta, decidessero di riaprire il caso?

Questo significherebbe soprassedere per ora alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti e portare il caso davanti a un nuovo giudice distrettuale, per valutare la fondatezza del verdetto di primo grado emanato nel gennaio 2021 dall’allora giudice distrettuale Vanessa Baraitser.

I legali di Julian avevano avanzato 16 motivi per invalidare la richiesta di estradizione fatta dagli Stati Uniti; Baraitser non ha voluto esaminarli in dettaglio, ma li ha semplicemente rigettato in blocco, opponendosi all’estradizione di Julian negli Stati Uniti per gli evidenti rischi di suicidio comportati da tale decisione.  Verdetto poi rovesciato undici mesi dopo dall’Alta Corte, dopo aver ricevuto promesse, da parte del Dipartimento di Giustizia USA, che Assange, se imprigionato, avrebbe ricevuto un trattamento carcerario meno severo di quello solito e che pertanto i rischi di suicidio sarebbero stati minori.

Ma quei 16 motivi per rigettare la richiesta di estradizione che Baraitser non ha considerato sono validi o no?  Per riaprire il caso un nuovo giudice distrettuale dovrebbe rispondere a quella domanda, dando agli avvocati di Julian la possibilità di dimostrare – a prescindere dal merito delle accuse – che la sola pretesa di estradizione è irregolare e irricevibile e pertanto che Julian deve uscire subito dal regime di carcere preventivo nella prigione di Belmarsh e tornare un uomo libero.

Purtroppo, non sappiamo quanto durerebbe il nuovo processo qualora fosse concesso – sicuramente anni.  E durante tutto questo tempo, Julian Assange rimarrebbe nella prigione di Belmarsh in una cella di isolamento di soli tre metri per due, in mezzo agli orrori che ha descritto nella sua lettera al Re Carlo III – vedete la versione audiovisiva, in italiano, al link www.bit.ly/julian-3 .

Certo, avrà evitato l’incubo dell’incarcerazione in una prigione “supermax” statunitense, ma rimane pur sempre ingiusto che il suo regime di carcere preventivo duri all’infinito.  Infatti, ciò equivale alla detenzione senza giusto processo.

Nell’eventualità di una riapertura del caso, dunque, i sostenitori di Julian devono battersi perché le autorità britanniche sostituiscano la carcerazione preventiva con un regime di detenzione domiciliare – magari insieme alla famiglia.  In fondo, l’hanno concesso al sanguinario dittatore cileno Augusto Pinochet mentre decidevano in merito alla sua estradizione – peraltro, domiciliari signorili in una villa di lusso con tanto di servitù.

Gli attivisti pro-Assange hanno dunque davanti alcune settimane durante il quale definire le loro future azioni, a seconda della decisione dei giudici.  Dopo le udienze del Giorno X, , celebre attivista e giornalista britannico, si è dichiarato piuttosto fiducioso che non ci sarebbe stato un Giorno Y.  Anche Rebecca Vincent di Reporter senza frontiere, uscendo dal tribunale, ha espresso sorpresa e apprezzamento per la cura con la quale i due giudici avevano seguito il dibattito – in contrasto con la freddezza e la sbrigatività del giudice Jonathan Swift nel rigettare la richiesta di appello di Julian il 10 giugno dell’anno scorso.  “Il loro comportamento mi ispira un leggero ottimismo”, ha aggiunto la Vincent.

Se i giudizi di Medhurst e di Vincent sono corretti, allora i sostenitori di Julian Assange potranno sin da ora iniziare a prepararsi per esigere, durante la riapertura del caso, i domiciliari per Julian e quindi la fine degli orrori di Belmarsh. Altrimenti, se estradizione ci sarà, bisognerà rimboccarsi le maniche davvero per una lotta senza quartiere, con azioni nonviolente di disubbidienza civile di massa.  In particolare azioni che costano danaro, non a chi ci governa (perché quei soldi sarebbero semplicemente quelli delle nostre tasse), ma a chi detta l’agenda di chi ci governa.
Il Giorno Y deve significare una svolta nel tipo di attivismo per Julian Assange condotto finora.

Patrick Boylan
Patrick Boylan, già professore di Inglese per la Comunicazione Interculturale all’Università “Roma Tre”, si è laureato nella sua nativa California e di nuovo alla Sorbona di Parigi, dove ha anche insegnato come visiting professor. Ora co-dirige il Journal of Intercultural Mediation and Communication (Cultus), svolge training interculturali, ed è attivista per la Rete NoWar e le associazioni PeaceLink e Statunitensi per la pace e la giustizia.