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APPUNTI PER UN FUTURO URBANO
In margine al dibattito su una possibile Ferrara Nuova

Tutto è ‘relativo’ quando si parla di complessità

Da quando me ne occupo, il mio modo di leggere i problemi delle città è cambiato notevolmente. Più lo sguardo si ampliava al mondo più si relativizzavano le categorie che usavo per descrivere e interpretare ciò che vedevo. Sono giunto quindi alla conclusione che oggi la parola “città” non è sufficiente per descrivere il mondo urbano che si incontra girando per il pianeta.

Certamente questa mia consapevolezza è stata alimentata dalla conoscenza del geografo francese Marcel Roncayolo, che ho avuto la fortuna di frequentare. Roncayolo era un normalien, quindi in lui metodo e spirito critico trovavano una sintesi virtuosa: affascinante da ascoltare e difficile da praticare. La puntigliosità nell’esercizio della classificazione dei fenomeni e delle cose, che emergeva sempre dalle sue riflessioni, mi ha portato a diffidare delle semplificazioni della complessità.

Una delle categorie sulle quali abbiamo discusso a lungo è stata quella dello “spazio pubblico”. Un concetto valise, come lui lo definiva, associandolo ad altri, nel senso che trascina con sé una quantità di significati e declinazioni non sempre coerenti tra loro, anzi spesso in conflitto. Diviene pertanto necessario precisarne l’uso in relazione a contesto, tempo, economia, cultura e visione. Analoga cosa potremmo dire del dibattito sul futuro delle città e sul come porci nei confronti della crisi climatica in corso.

Lo sviluppo della rivoluzione industriale si è basato sul contrasto e l’intreccio tra ricchezza e povertà, capitalismo e filantropismo, capitale e lavoro, diritti e disuguaglianze. Lo dice bene il filosofo inglese Bernard Mandeville nella sua riflessione metaforica sui vizi privati e le pubbliche virtù della società inglese del Settecento, intitolata La favola delle api.

Nel testo si descrive la sporcizia di Londra, associata al cattivo odore e al degrado che si riscontra nelle strade della città, ma tale condizione, afferma il filosofo, rappresenta comunque un indicatore di benessere, un segno di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali e dall’avvio di quel processo che prenderà il nome di rivoluzione industriale.

Tutta la letteratura dell’epoca vittoriana e in parte post-vittoriana ci racconterà questo mondo: da Dickens a London, da Balzac a Zola, a Musil. È quindi nelle relazioni, che si determineranno tra “ricchezza” e “povertà”, che si giocherà il futuro delle città, ma anche del pianeta.

Secondo l’ipotesi di James Lovelock, ripresa da Bruno Latour, Gaia non sparirà semmai muterà, secondo un processo che potrebbe non vedere più la presenza dell’essere umano. Il concetto stesso di “Antropocene” è probabilmente superato perché, tirando in ballo l’umanità intera, si basa su di una presupposta neutralità concettuale che lo rende depoliticizzato.

La festa è finita

Non tiene conto delle differenze sociali, storiche, di genere, etniche, mentre l’umanità non è una comunità indifferenziata, dove tutti hanno le medesime responsabilità. Tra il 1884 e il 2020 l’Africa ha emesso 48 miliardi di tonnellate di CO2, a fronte di una emissione globale di 1700 miliardi di tonnellate.

L’impronta di carbonio dell’Africa rappresenta pertanto il 3% mentre Stati Uniti, Europa e Cina sono ancora oggi i maggiori responsabili delle emissioni a livello mondiale. L’Italia emette più carbonio del Brasile (1,7% con 58 milioni di abitanti contro 1,2% con 216 milioni di abitanti).

La tecnologia salverà il mondo?

A volte si ha l’impressione che la comunicazione mediatica più che informare sui fatti, anche con approfondimenti e argomentazioni critiche, tenda a determinarli: creare il problema (o l’aspettativa) e poi offrire le soluzioni tecniche (sempre riconducibili a portatori di interessi in grado di condizionare la politica, che generano quel fenomeno oggi noto come greenwashing).

La tecnica, secondo Emanuele Severino, è una forma di razionalità: la più alta raggiunta dall’uomo. Appartiene alla struttura essenziale del capitalismo che ha subordinato ad essa le altre manifestazioni della civiltà occidentale, ma spesso attraverso la tecnologia si dà una risposta ai problemi del mondo senza chiedersi il perché delle cause (politiche, economiche e sociali) che li hanno generati.

Si segnalano i ‘bisogni’ senza parlare di ‘diritti’, ci si impegna nel contrasto alla ‘povertà’ tacendo sul problema delle ‘disuguaglianze’. Vengono propagandate soluzioni che non trovano riscontro nella complessità sociale della città, del pianeta e dei processi che li riguardano.

Ragioniamo su quanti alberi piantare in città e di che tipo, per contrastare l’inquinamento dell’aria che misuriamo con dispostivi sempre più sofisticati, ma non ci chiediamo quale è la causa dell’aumento dell’inquinamento. Non mettiamo in discussione il fatto che forse il problema è il modello di sviluppo e l’organizzazione delle nostre città, completamente dipendenti dalle automobili private e che quindi il problema deriva dall’uso dei combustibili fossili (riguardante, ovviamente, non solo le auto).

Saint Louis du Sénégal e l’erosione dell’oceano Atlantico

Gli effetti del cambiamento climatico stanno diventano drammatici, ce lo dice l’IPCC e le soluzioni, come ci rammenta Anthony Giddens, devono essere improntate alla massima complessità di processo e di progetto, tenendo insieme tutti gli aspetti politici, etici, tecnici, gestionali, locali e globali che questo comporta. In realtà stiamo vivendo una stagione dove, secondo Edgar Morin, se da un lato viene enfatizzata la potenza umana (nel dominio tecnologico), dall’altra si fa sempre più strada l’impotenza dell’uomo nel controllarne gli effetti.

Spesso sui media (anche alcuni nostri importanti giornali nazionali) ci vengono presentate, come soluzioni avveniristiche, progetti che propongono città eco-tecnologiche, sorte in contesti estremi come i deserti, gli oceani, addirittura su Marte e ultimamente sulla Luna (dove pare porteranno delle opere d’arte). Utopie realizzabili, grazie alla tecnica e all’estro delle archistar (e al capitale di Development Corporation e di società di Real Estate) ma, a ben guardare, sono forse delle distopie.

Il principio insediativo di questo mondo urbano “resiliente”, che riesce a sopravvivere alla mutazione climatica, è la ‘bolla’, ovvero un microambiente che simula una situazione urbana, anche estesa (una città?) in grado di creare delle forme di vita sostenibili, energeticamente performanti, circolari e socializzanti, ma a condizione che si resti nella ‘bolla’.

In un mondo di oltre 8 miliardi di persone, di cui oltre la metà vive in aree urbanizzate ed in insediamenti informali e poveri, chi potrà permettersi di accedere a queste bolle dove la città è dei 15 minuti, la mobilità è automatizzata ed elettrica, l’agricoltura è idroponica, l’energia è solare?

La distopia di questi progetti (alcuni si stanno concretamente realizzando, se ne potrebbe parlare) sta nel loro essere progetti esclusivi, e quindi fautori di disuguaglianze, lo dimostra il fatto che tutti questi progetti iper/eco-sostenibili sono realizzati da paesi autoritari, che non rispettano i diritti umani, in grado di sfruttare le enormi risorse che gli vengono dal petrolio e la cui costruzione si fonda da un lato sul savoir faire tecnologico e finanziario occidentale e dall’altro sullo sfruttamento degli immigrati dei paesi poveri. Anche in questo sta la distopia.

Perché pur sapendo non hanno agito?

La storica della scienza dell’Università di Harvard, Naomi Oreskes, in un suo saggio romanzato, Il crollo della civiltà occidentale, scritto insieme al collega Erik Conway, racconta dal 2393 le cause del grande crollo della civiltà occidentale avvenuto 300 anni prima, quindi nel 2093. Lo fa attraverso lo sguardo inventato di un giovane storico della Seconda Repubblica Popolare Cinese.

Il fatto più sorprendente che viene segnalato è che le vittime di questo crollo sapevano cosa stava accadendo e perché stava accadendo e dunque la domanda che il ricercatore si pone è: perché la società politica ed economica non fece niente? Perché la scienza non riuscì a comunicare con efficacia quanto stava accadendo? Perché molti continuarono a negare l’evidenza di ciò che stava capitando?

Si tratta di un racconto posto nel futuro ma chiaramente rivolto ad un presente che ci viene ben precisato ormai da numerosi rapporti scientifici. In una recente intervista sul quotidiano francese Le Monde, la bio-geografa sud-africana Debra Roberts e il climatologo tedesco Hans-Otto Pörtner dichiarano che noi non siamo preparati agli impatti estremi e nemmeno alle sorprese che ci riserva la mutazione climatica.

In generale gli ecosistemi sono già fortemente toccati e molte zone del mondo in particolare nella fascia equatoriale e mediterranea stanno raggiungendo i limiti della adattazione climatica, con fenomeni di estremizzazione meteorica sempre più forti (siccità e grandi piogge), che ci condurrà verso processi di migrazione climatica che riguarderanno umani e animali.

Il rischio che solo una parte del pianeta rimanga abitabile sarà reale e questo ridurrà gli spazi di vita. Molti sono coscienti degli impatti di questa trasformazione, però le misure di adattamento, associate alle politiche degli stati e degli organismi internazionali sono frammentate.

Del resto dai dati e dalle misurazioni di numerose autorità ed enti di ricerca internazionali appare evidente come la “transizione ecologica” sia più enunciata che praticata. Il recente COP 27 svoltosi a Charm El-Cheikh ha confermato che più che su misure reali, piani sostenibili in via di attuazione, politiche condivise il dibattito è stato ancora contraddistinto da desideri, proposte e appelli. Lo stesso potremmo dire per il recente summit per l’Amazzonia a Belem.

In un suo recente articolo l’editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia, Paul Krugman sostiene che il problema del contrasto al cambiamento climatico, e di conseguenza del negazionismo, si sta spostando su di un piano difficile da controllare che è quello culturale e identitario.

La sua riflessione verte sulle differenze delle politiche ambientali di democratici e conservatori negli USA, ma emergono alcuni punti di riflessione che contraddistinguono i dibattiti anche in altri paesi e su cui bisognerà fare attenzione in una prospettiva elettorale.

Lavorare per la transizione ecologica, attuando scelte sostanziali, e non retoricamente generiche, può essere impopolare, ma sono imprescindibili per un campo progressista, mentre quello conservatore può tranquillamente farne a meno, trincerandosi dietro il fatto che si vuole attaccare lo stile di vita identitario del paese (americano, italiano, francese, ecc.).

Riprendendo una canzone di Giorgio Gaber si potrebbe ironizzare che la cucina a gas, il barbecue che usa carbone o legno, la macchina parcheggiata in doppio o tripla fila, sono di destra, mentre i fornelli a induzione, la pedonalizzazione della piazza parcheggio nel centro storico, il trasporto pubblico, la comunità energetica sono di sinistra. L’interesse particolare è di destra, quello generale è di sinistra. Sono queste semplificazioni che rendono preoccupante la dimensione culturale/identitaria del dibattito sui cambiamenti climatici, perché antepone l’interesse individuale (o di clan, o di tribù) a quello collettivo.

Decarbonizzare le città

Lo scarto tra obiettivi e pratiche concrete è forte, anche in realtà urbane e metropolitane molto più attive delle nostre città. Le città e i territori urbanizzati sono oggi responsabili dell’80% delle emissioni di gas a effetto serra.

La “città decarbonizzata” è dunque un obiettivo lungimirante, doveroso, che non richiede slogan ma politiche e pratiche intrecciate, multi-scalari e multi-attoriali, attraverso il ricorso ad una “cittadinanza attiva” consapevole e informata.

Una città che oggi si appresta a votare può su questo tema costruire una visione di futuro?  Certamente, ma si tratta di fare scelte precise sulle fonti energetiche (prevalentemente elettricità da fonti rinnovabili e idrogeno verde), di conseguenza diviene necessario ripensare i modelli della mobilità urbana e territoriale, privilegiando il più possibile il trasporto pubblico, ciclopedonale e su rotaia dentro le città e tra città caratterizzate da fenomeni di pendolarismo quotidiano.

Va rinnovato il patrimonio edilizio sia residenziale che terziario, ripensando l’organizzazione delle nostre città, anche attraverso interventi di “decostruzione”. La naturalizzazione delle città va orientata verso la complessità ecosistemica e non può ridursi solo nella messa a dimora di qualche albero in più mentre vanno gestiti i fenomeni meteorici sempre più estremi, ponendosi il problema del controllo e riuso e dell’acqua piovana anche attraverso il ridisegno degli spazi pubblici.

Milton Keynes. Parco urbano e agricolo

Se la biodiversità e la cultura sono dei valori non negoziabili, i luoghi vanno usati in base alle loro caratteristiche, senza inibire la possibilità di organizzare eventi ludici di varia natura, ma trovando i luoghi giusti. Il turismo va gestito nella sua complessità, associando tempo libero e cultura, diluendolo nel tempo e potenziando le opportunità che possono derivare a una città dall’essere sede universitaria.

Non si può eludere infine il tema energetico abitativo e quindi una politica seria orientata verso la costituzione di comunità energetiche. Potremmo pertanto affermare che, per realizzarsi, la “città decarbonizzata” richiede un totale cambio di politiche e pratiche (di paradigma potremmo dire) in termini urbanistici, sociali, tecnologici, economici.

Si tratta di capire se siamo pronti a questo cambio di abitudini nei nostri comportamenti (perché anche di questo si tratta) e nell’uso delle nostre città. E soprattutto è necessario capire in che misura questo cambio inciderà sulle spalle dei cittadini di differente condizione economica.

In ogni caso bisognerà impegnarsi affinché il “decarbonizzare” non diventi una di quelle categorie valise, di cui parlavo prima. Dovremo scegliere con attenzione e cognizione di causa i significati da mettere nella valigia che ci porteremo dietro in questo complicato viaggio.

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Romeo Farinella

Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Si occupa di problematiche urbane e paesaggistiche da almeno trent’anni. Prima di approdare a Ferrara ha vissuto in diverse città, tra cui Roma e Parigi e quest’ultima è diventata uno dei suoi temi principali di ricerca. Oltre a Ferrara ha tenuto corsi anche in Francia (Lille, Parigi), Cina (Chengdu), L’Avana e São Paulo e Saint Louis du Senegal. È stato direttore per alcuni anni del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UNIFE.

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