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Ferrara film corto festival

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Antichi amici

Un racconto di Francesco Monini

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse (insieme senza saperlo).
Dino Buzzati

Nevicava forte da tre giorni e tre notti ma Knulp nemmeno se n’era accorto. Le grandi finestre della sua casa erano protette da strati di tende, spesse e scure. Non era una neve a casaccio, era quello il luogo e il tempo stabilito, la sua stagione, ma era esattamente la stagione che più dispiaceva a Knulp.
Knulp quella vecchia storia del Natale non l’aveva mai capita. E siccome non la capiva, gli provocava una sorda irritazione. Era in discussione la posizione in classifica del magnate Knulp, se fosse nei primi dieci o nei primi trenta, ma le classifiche contano quello che contano, e per il plutocrate Knulp non contavano un bel niente. Knulp contava solo i suoi soldi. Per dirla in breve, aveva tanti soldi che, per precauzione, non aveva famiglia né figli né amici.
Non che fosse solo, al contrario, era sempre in compagnia, e anche quella sera di Vigilia era impegnato nella sua usuale e prediletta occupazione, contare e ricontare i suoi denari, calcolare i suoi incassi, numerare i suoi averi, organizzare spostare moltiplicare i suoi investimenti nelle borse di mezzo mondo.
Grazie al suo Mac di ultima generazione e a Nostra Signora della Banda Larga, Knulp aveva diradato al massimo le sue uscite. Da più di un mese Knulp non metteva il naso fuori dall’uscio di casa. Non gli piaceva il freddo, non gli piaceva la neve, soprattutto non gli piaceva il Natale. Non capiva perché dovesse esistere nel calendario un giorno diverso da tutti gli altri. Un giorno all’incontrario, dove il buio diventa luce, l’avaro si scopre generoso, il cattivo si tramuta in buono. Quella bella storia, quella dolce leggenda, era una balla colossale, una bugia adatta per i gonzi, una truffa.
Il poderoso Knulp, la vecchia volpe della finanza internazionale, non cedeva all’inganno del Natale.
E, come gli capitava negli affari, lo affrontava in campo aperto e a muso duro, seduto comodamente sulla sua enorme poltrona Frau, affrontava il Natale da solo, senza seguito, senza esercito e senza amici. Lui di amici non sentiva proprio la mancanza, nemmeno a Natale.
“Eh, che dici?, che almeno a Natale servono gli amici?”, Knulp guardò dritto negl’occhi il signor Natale e si limitò a fare no con la testa. Lui di amici non ne aveva punto, Non ne aveva mai avuti, proprio per questo era arrivato lassù, in classifica tra i primi dieci o i primi trenta. A pensarci bene, e quella notte senza sonno sembrava fatta a posta per collezionare ricordi, molti anni addietro un amico lo aveva avuto. Ma con i ricordi, forse solo con quelli, l’impareggiabile Knulp non era proprio un campione.
Come si chiamava il suo amico? Knulp pensa, preme una mano sulla fronte, ma quel nome non gli viene. Si chiamava Paul? Sì, forse, no, non si chiamava Paul. Knulp si alza di scatto dalla poltrona, cammina in tondo nella grande sala.
Eppure lui e Paul, anche se non si chiamava Paul, stavano insieme tutti i pomeriggi dopo la scuola. Tutti i giorni, nel vento d’aprile, sotto le nuvole antropomorfe di giugno, calpestando le foglie d’autunno o facendosi largo nel bianco del Natale.
Già, lui quella storia trita e ritrita del Natale non la capiva proprio. Ma allora, quanti anni prima? Diciamo cinquanta per amore di un numero tondo, lui e il suo amico erano inseparabili. Due veri gemelli. Tutti i giorni insieme, compreso il giorno di Natale. Ma che facevano? Parlavano parlavano parlavano, anche se Knulp non ricordava una parola, nemmeno una parola dei loro discorsi infantili. E camminavano, giocavano, ridevano.
Ridevano? Probabilmente sì, ma perché, e di cosa, che avevano da ridere quei due bambini lontani e irriconoscibili? A dir la verità, per quanto in quella notte insonne si spremesse le meningi, per quanto socchiudesse gli occhi per raggiungere gradualmente il buio assoluto e cercasse in quel buio di tornare indietro nel tempo, per la verità questi esercizi di mnemotecnica non sortivano alcun effetto.
Nel silenzio assoluto della sua memoria Knulp sente le campane. Come, esistono ancora le campane? Conta meccanicamente i rintocchi: mezzanotte; per Knulp è un’ora come un’altra. Ma per dio, qual era il nome del suo antico e unico amico? Si avvicina a una grande finestra, scosta a fatica le tende e le spalanca.
In quell’esatto momento scende dal cielo l’ultimo enorme fiocco di neve. Cade proprio in testa a Knulp che si porge pieno di meraviglia, la bocca aperta contro la sua volontà. Ha smesso di nevicare e il grande giardino è illuminato a giorno. La luce lo acceca. Deve coprirsi gli occhi con le mani.
“Vorrei dare un’occhiata alla nostra matita magica.”
Knulp si volta e vede un ragazzino seduto sulla sua amata poltrona. Non è proprio seduto; sta accovacciato, le scarpe da tennis, i calzoncini corti e la maglietta bianca.
“Sono qui per la matita, ma anche per quell’altra cosa, il nostro appuntamento, ricordi?”
Knulp non riesce a parlare, sente le gambe molli e l’acqua nello stomaco.
“Allora, dov’è la nostra preziosa matita? Te l’avevo lasciata perché tu la tenessi al sicuro. Dove l’hai nascosta? Hai una cassaforte in questa tua grande casa?”
Knulp cerca di ricapitolare. Non c’è dubbio, quello è un fantasma; ma è un fantasmino giovane, un fantasma apparentemente innocuo.
Ma è proprio lui, è il suo amico Nicolas. Ecco come si chiamava, Nicolas. Finalmente la sua memoria aveva ricominciato a funzionare.
“Sei un po’ strano Knulp, non sembri nemmeno tu. Sei meno scattante, te ne stai lì fermo, come un chiodo piantato su una porta. E non capisco, non sembri nemmeno contento di vedermi.”
Nicolas va verso di lui, senza bisogno di camminare. E continua:
“Certo, se non venivo io, tu da solo la pentola non la troveresti mai, campassi cent’anni. Mi sembri un baccalà sotto sale, ma non sai quanto sia felice di rivedere il tuo muso. Era talmente tanto tempo…”
Knulp cerca dentro di sé un po’ di coraggio e prova a rispondere alla sua maniera, attaccando a testa bassa.
“Se è uno scherzo mi pare sia durato abbastanza. Ma di quale diavolo di matita parli? E quale caspita di pentola?”. Abbassa la voce e si fa più conciliante: “Lo ammetto, sei il ritratto sputato del mio vecchio amico Nicolas, ma non devi prenderti gioco di me. Dovresti sapere che personaggio sono diventato mentre tu… Mentre tu non lo so, ma non sei diventato niente, sei uguale identico ad allora.”
Nicolas fece una risatina cristallina: “Bella forza caro Knulp, io sono morto cinquant’anni fa.”
Knulp: “Appunto, caro Nicolas, allora perché mi vieni a disturbare dopo tanto tempo? E perché proprio questa notte?”
Nicolas: “Perché è Natale, lo capirebbe anche un bambino. E anche per dare un’occhiata alla nostra matita magica. E naturalmente per il nostro appuntamento con la pentola.”
Va bene, pensò Knulp, tanto vale assecondarlo.
Se ricordo bene, e davvero stava incominciando a ricordare, Nicolas è sempre stato tremendamente cocciuto. Ma di che matita parlava? In un lampo rivide la scena con assoluta chiarezza. Avevano sette anni lui e Nicolas e per terra avevano trovato una splendida matita rossa e blu, di quelle che usavano una volta le maestre per correggere i compiti. Era nuova fiammante, mai adoperata. Era stato Nicolas a battezzarla: “Sarà la nostra matita magica.”
Corse alla scrivania e, dopo cinquant’anni esatti, la estrasse dal fondo dell’ultimo cassetto.
“Eccola”, disse trionfante a Nicolas, e fece una gran risata. La prima, dopo cinquant’anni esatti.
“Bravo Knulp, ma ora è arrivato il momento. Si fa tardi, andiamo in giardino.”
Nicolas si avviò verso il portone di Noce.
“Aspetta, sono in camicia, lasciami prendere il cappotto.”
“Dai Knulp, non c’è più tempo. Sarà questione di un attimo.”
Il giardino è pieno di una luce bianca e morbida. Knulp cammina nella neve, Nicolas vola. “Dove andiamo?”, chiede Knulp. Nicolas indica col dito il fondo del grande giardino: “Là, non lo vedi?”
I due strani amici sono arrivati. Knulp tocca con le mani l’arcobaleno di ghiaccio. Ne stacca un pezzo di un rosso vivo, lo mette in bocca e sente il sapore di fragola. Un arcobaleno d’inverno? In piena notte? E proprio nel suo giardino?
Nicolas sta frugando con le mani nella neve fresca, proprio ai piedi dell’arcobaleno.
“Eccola!”, grida, “vedi Knulp, non era una stupida leggenda.”
Eccola la loro pentola d’oro.
Dovevate esserci per gustarvi la scena. Ora il grande, il poderoso, l’invincibile Knulp rideva come un bambino piccolo, batteva le mani e lanciava urla come un capo indiano.
Arrivò all’improvviso. Sentì un dolore secco, un artiglio che gli penetrava dentro il petto. Si piegò in avanti e cercò con gli occhi il suo antico e unico amico:
“Ho paura Nicolas. Ho molta paura.”
Il ragazzino fantasma gli sorrise: “Non farà tanto male.”
Allora Knulp si distese a terra. Sentì che un fiocco di neve si era posato proprio sul suo naso e gli venne ancora da ridere. La luce del giardino si era spenta. Riprendeva a nevicare.
Alcuni giorni dopo un gruppo di bambini che giocava a palla di neve trovò il suo corpo. Discussero a lungo e animatamente se fosse un uomo o una statua distesa.
Una minuziosa quanto doverosa inchiesta non riuscì a chiarire  alcune strane circostanze del decesso del senatore Knulp. Perché avesse deciso di scendere da solo in giardino in una notte di gran gelo. Perché ci fosse andato in quello stato, in maniche di camicia e a piedi scalzi. Il corpo non presentava nessuna ferita, ecchimosi o lesione. La faccia gelata di Knulp aveva un ghigno strano, pareva quasi sorridere.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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