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Animali umani e non umani: dalla proprietà alla relazione

di Emanuele De Gasperis
Articolo originale su Peacelink del 2 novembre 2024

Per un’inclusione all’interno della comunità morale degli animali non umani. Dal tentativo del filosofo Van De Veer di utilizzare la filosofia contrattualistica di John Rawls all’etica del rispetto della vita di Albert Schweitzer. Un percorso di rispetto per la vita.

Come possiamo osservare quotidianamente, la visione antropocentrica e il concetto di dominio sulla natura hanno portato l’uomo a rendere oggetto della propria bramosia l’intero pianeta. Un rapporto distorto questo, basato sull’esercizio del potere nei confronti dei propri simili e degli altri esseri viventi.
Quello della relazione tra animali umani e non umani è un tema complesso e spesso trattato dai media e dalle istituzioni sotto la guida di forti condizionamenti dovuti alla sensibilità diffusa e agli interessi economici prevalenti. Purtroppo, però, il senso comune non sempre corrisponde al buon senso e alle attuali conoscenze scientifiche, mentre gli interessi economici spesso non coincidono con gli effettivi bisogni degli esseri viventi, e in particolar modo con il benessere degli animali.

Innanzitutto, dobbiamo tener conto del fatto che esistono diverse specie animali e diversi modi di relazionarsi a esse, legati alla sensibilità e ai contesti culturali. Si può parlare di animali più o meno liberi in natura, di quelli confinati negli zoo, delle specie ormai adattate a livello urbano e di animali selvatici che si incontrano perché ormai costretti a cercare cibo nei centri urbani che hanno invaso i loro habitat. Esistono anche animali selezionati e/o modificati geneticamente utilizzati a scopo ornamentale o di sperimentazione e ricerca.

Le sensibilità sono tante ma, senza complicare troppo la riflessione, possiamo affermare che la maggior parte di noi vive due situazioni estreme e spesso paradossali nel rapportarsi agli altri animali: da una parte si assiste alla mercificazione, alla reificazione di esseri viventi considerati macchine da produzione; dall’altra si giunge all’antropomorfizzazione dei cosiddetti pet, piccoli animali da compagnia nostri conviventi.

“Pet” e “animali da reddito” egualmente maltrattati

“Pet” e “animali da reddito” sono due termini che, più di qualsiasi altra definizione, descrivono la distorsione che viviamo e la mancanza di rispetto per la vita animale. I primi sono entrati in quasi tutte le nostre case; ma anche se la sensibilità nei loro confronti è apparentemente aumentata, la nostra limitata conoscenza e mancanza di rispetto per le loro esigenze non ci permettono di riconoscere le loro particolarità di specie, la loro individualità, impedendoci di stabilire relazioni sane e rispettose dell’alterità degli altri esseri viventi.

Ci sono razze che vengono di fatto maltrattate a livello fisico e cognitivo. Arriviamo così a parlare di razze sofferenti o di maltrattamento genetico, che in alcuni casi vogliamo somiglianti sempre più a esseri umani (soprattutto ai bambini).

L’esempio più lampante è quello delle razze brachicefale, quelle “con il muso schiacciato”. Nel corso degli anni queste razze sono state selezionate a causa della grande richiesta di animali ‘piccolini’, ‘dolci’, ‘teneri’, con il ‘visetto’ rotondo e gli ‘occhioni’, caratteristiche che soddisfano la nostra motivazione epimeletica, infondendoci piacere.

A causa di ciò, molti cani non riescono più a respirare: per renderli conformi alle richieste, infatti, la selezione ne ha esasperato alcune caratteristiche somatiche. Si può parlare di vere e proprie malformazioni delle vie respiratorie che spesso richiedono delicati interventi chirurgici correttivi.

Questo è soltanto l’esempio più lampante di come cerchiamo di condizionare la vita di alcuni esseri senzienti per il nostro egoismo. Spesso, per costringerli ad una vita simile alla nostra, cerchiamo cani da gestire meglio in appartamento, razze toy, mini-toy e addirittura con meno pelo perché non sporchino la nostra casa.

Vediamo spesso cagnolini ai quali viene negata la socializzazione intraspecifica, costretti ad accontentarsi di traversine al posto dei prati e di peluche come surrogati dei propri simili. Oltre ai problemi di socializzazione, la riproduzione in alcune razze dipende ormai dal ricorso alla fecondazione artificiale e al parto cesareo, e ovviamente non esiste più la predazione. Questi tre importanti aspetti della vita (socializzazione, riproduzione, predazione) vengono negati a moltissimi animali.

Le varie razze canine hanno subito nel tempo le stesse imprevedibili variazioni di popolarità che vediamo nel mondo della moda, non influenzate da fattori come salute, longevità e comportamento. Al contrario, le razze più popolari sono spesso quelle a maggior rischio di problemi comportamentali e di salute.

Nonostante le numerose prove scientifiche sulla sofferenza di questi animali, negli ultimi dieci anni la popolarità di alcune razze brachicefaliche di piccola e media taglia è aumentata a livello internazionale – razze come il Carlino, il Bulldog francese e il Bulldog inglese. La stessa cosa sta accadendo nell’ambito dell’allevamento felino con razze come lo Scottish fold. Si tratta di gatti che spesso soffrono di problemi ossei a causa della manifestazione di una mutazione genetica.

Ma esempi potrebbero essere molti altri. Non è facile comprendere le motivazioni che spingono le persone ad adottare cani appartenenti alle cosiddette “razze sofferenti”, ma purtroppo è sempre il mercato (il consumatore) ad orientare la selezione e a stimolare la “produzione”.  È difficile comprendere il paradosso rappresentato da un lato da una sensibilità diffusa per il benessere animale, e dall’altro dalla mancanza di empatia, due tratti caratteristici della nostra evoluzione sociale e morale.

Se spostiamo la nostra attenzione, all’estremo opposto degli animali da compagnia troviamo gli animali da reddito. Naturalmente mi riferisco a quelli impiegati nell’allevamento intensivo, una forma di allevamento che mira a ottenere il massimo della produzione in spazi ridotti, con la minore spesa possibile e con il più ampio margine di profitto.

L’esempio più eclatante che rende palesi le criticità di cui parliamo è quello delle bovine da latte a elevata produzione (potremmo però riferirci anche ad allevamenti avicoli e suinicoli). Le bovine da latte a elevata produzione continuano a essere considerate macchine da spingere all’estremo, sebbene le condizioni intollerabili di sfruttamento raggiunte nel secolo scorso siano in parte migliorate.

Essendo comunque l’economia a dettare legge, l’attenzione per il benessere animale finisce quando intacca in maniera significativa il profitto (proprio come è successo nel corso della lotta per i diritti umani e contro la schiavitù). Oggi il benessere animale deve comunque rimanere compatibile con la produzione, conditio sine qua non è la “sostenibilità economica”.

Quindi, nonostante una maggiore attenzione per il benessere con spazi più confortevoli, una maggiore disponibilità di cibo, acqua sempre disponibile, nella pratica quotidiana siamo ancora lontani da condizioni da considerare accettabili, sulla base dell’attuale consapevolezza e conoscenza scientifica.

Per esempio, la selezione genetica ha portato a cambiare morfologicamente questi animali al punto da renderne difficile per alcuni la deambulazione a causa delle dimensioni delle mammelle. Ormai gli allevamenti intensivi sono ‘fabbriche’ nelle quali il ritmo è sempre uguale, costante, alienante. Le ‘macchine’ producono molto e quindi hanno bisogno di molto carburante. Gli alimenti sono molti e ricchi, gli organi devono funzionare al massimo, e quando il costo supera i benefici economici, le “macchine” vanno sostituite, come in una catena di montaggio.

In sintesi, se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che, sebbene spesso inconsapevolmente, viviamo un rapporto schizofrenico con gli animali, che andrebbe radicalmente ripensato. Non viviamo più ai tempi di Cartesio, in cui la maggioranza degli intellettuali e della popolazione pensava che l’animale non umano non avesse sensibilità e capacità cognitive.

In pochi anni abbiamo selezionato numerosi animali, riducendone notevolmente la variabilità genetica, per giungere alla creazione di sottospecie e/o razze che rispondono ai nostri bisogni alimentari, estetici e affettivi. La selezione estremizzata e le conseguenti deformazioni invalidanti spesso non permettono loro di adattarsi all’ambiente in cui vivono. Una distorsione di ciò che la natura ha costruito in milioni di anni che produce frequentemente caratteri disadattativi e/o invalidanti e/o addirittura mortali. Stiamo parlando di una condizione di maltrattamento particolarmente grave perché non si limita al singolo individuo, ma riguarda molteplici generazioni, e, a volte, intere specie.

Anche se esistono situazioni peggiori del nostro contesto europeo, per quanto riguarda la considerazione degli animali non umani in una società liberale e democratica, il rifiuto della sofferenza non necessaria non è solo il contenuto di diritti e norme, ma è un principio strutturale e ispiratore della stessa democrazia, che auspicabilmente è accettato e sostenuto da tutti i suoi membri (Pollo 2021: 69). Ci si potrà confrontare sul significato di “necessario”, ma non si può trascendere tale principio.

Nel caso del maltrattamento genetico dei pet c’è l’aggravante della futilità, culturalmente tollerata. Interrogandoci sulla responsabilità morale dell’attuale situazione si può individuarla in tre categorie di cittadini:

  • la responsabilità primaria ricade sul legislatore e sulle istituzioni: visto che nella letteratura scientifica l’evidenza della sofferenza non necessaria in molte razze è ampiamente dimostrata, non può più mancare un intervento legislativo;
  • allo stesso livello, si assiste alla responsabilità dei commercianti e degli allevatori che continuano a perpetrare situazioni di palese ingiustizia, anche se ancora legali, mancando leggi adeguate;
  • infine, ci sono i proprietari dei cani per i quali la responsabilità morale è direttamente proporzionale alla loro personale consapevolezza del problema.

Alla luce di tutto ciò, non c’è dubbio che debbano essere presi seri e improrogabili provvedimenti a livello legislativo e a livello culturale, leggi che vietano la riproduzione di alcune razze, già in vigore in altri paesi europei, come l’Olanda (che nel 2020 ha messo al bando 12 razze) e la Norvegia, in cui nel 2022 è stato annunciato il divieto di far riprodurre Bulldog francese e Cavalier King).

È infatti ormai urgente impedire il perpetrarsi del maltrattamento genetico, adottando leggi nazionali specifiche che vietino la riproduzione di alcune razze e/o linee di sangue di razze sofferenti almeno per gli animali definiti” da compagnia” o “da affezione”.

Purtroppo, fino a quando si applicherà il concetto giuridico di proprietà agli animali non umani, non si uscirà da dinamiche che favoriscono relazioni disfunzionali anche dal punto di vista culturale. Forse i tempi sono quindi maturi per esigere un passo in più, vietando la compravendita di questi animali da compagnia e consentendo soltanto l’istituto giuridico dell’adozione – o quello dell’affido.

Questa posizione non rappresenta una critica nei confronti della proprietà (privata o meno), ma una denuncia dell’inadeguatezza della legislazione, per andare a rimuovere ostacoli che, come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione, “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, grazie alla creazione di un terreno adatto alla fioritura di relazioni costruttive e rispettose della vita di esseri senzienti nostri conviventi.

Questa posizione abolizionista è sostenuta da Gary Lawrence Francione, attivista e filosofo statunitense. Per ora realisticamente inapplicabile nel caso degli animali da reddito, ma realizzabile per gli animali “da compagnia”, o “da affezione”, sancendo l’inizio di un percorso virtuoso e illuminato.

Grazie all’imponente e coraggioso lavoro di Charles Darwin, è stata dissolta l’illusione della discontinuità tra l’animale non umano e l’homo sapiens, perché oltre all’antropocentrismo che viviamo e all’esercizio del dominio, resta da abbattere culturalmente la credenza banale di una nostra radicale differenza dagli altri animali.

Da quando gli studi ci hanno introdotto ad una conoscenza più profonda degli altri animali e di quanto ci somigliano (o meglio, noi somigliamo loro più di quanto potessimo credere, prima delle brecce fondamentali aperte da Darwin), non possiamo più rassegnarci ad un’ostinata ignoranza. Oggi, grazie alla sensibilità contemporanea nell’ambito delle conquiste sociali ottenute, possiamo relazionarci agli altri animali come nostri simili in molte, moltissime cose, rispettandone l’alterità.

Uno statuto degli animali non umani

Storicamente ci si è interrogati spesso sullo statuto degli animali non umani e sulla loro considerazione morale, sul tema della loro inclusione o esclusione dalla comunità morale. Si tratta di un tema in cui le posizioni sono molto diverse. Sono diverse perché c’è chi propone l’uguaglianza tra animali umani e non umani, e chi invece vede ancora gli animali non umani come oggetti di cui servirsi, come semplici cose. Si tratta di estremi, ovviamente.

Tuttavia, nonostante se ne parli molto, si incontrano parecchie difficoltà ad accettare il fatto che gli animali abbiano diritti, essendo incapaci di reclamarli, o di rispondere adeguatamente con dei doveri. Più comunemente gli animali non umani vengono visti come portatori di interessi verso i quali si hanno dei doveri – diretti o indiretti.
Le leggi vengono scritte e promulgate soprattutto in base a questo principio, prendendo in considerazione i doveri indiretti. Infatti, in base a molte leggi, si ha un dovere verso un animale non in quanto essere senziente, bensì in quanto proprietà di qualcuno. Oppure a essere messi in rilievo sono ancora una volta i doveri nei confronti del genere umano: i doveri verso gli animali nascono dal dovere di non urtare il sentimento e la sensibilità umana.

Molto spesso si propone un’etica della responsabilità e della cura facendo leva sulla compassione, un approccio che aiuta all’incontro con l’altro. Vista la complessità del problema però, affidarsi alle sensibilità individuali e culturali è un atteggiamento quantomeno ingenuo, poiché senza il parallelo sostegno di un adeguato quadro normativo che ne favorisca lo sviluppo, queste proposte saranno difficili da realizzare.

Mentre la zooantropologia lavora per creare consapevolezza, incoraggiando e agevolando il desiderio di incontrare e conoscere l’alterità e il valore di arricchimento che ne deriva, si dovrebbero gettare le basi per un patto interspecifico, utile ad arginare la bramosia di potere e a liberare il desiderio di relazioni costruttive, un incontro fra le diverse specie per la condivisione di spazi ed emozioni. Un “contratto” in grado di agevolare incontri e relazioni per mezzo di una crescita culturale ed emotiva.

Per contrattualismo interspecifico si intende una proposta etica avanzata da Donald Van De Veer, ispiratosi a John Rawls e al suo celebre saggio Una teoria della giustizia. Tuttavia, nella teoria contrattualista che Rawls concepisce, si può pensare solo a un livello intraspecifico. In pratica, poiché non essendo gli animali capaci di reciprocità, sarebbero ritenuti al di fuori dei limiti del contratto etico.

Peter Singer avanza critiche a questo riguardo, evocando casi marginali come i portatori di gravi disabilità, oppure le generazioni future dalle quali non può essere pretesa alcuna reciprocità (Singer 1989: 67). Quindi, secondo Singer la mancanza di reciprocità non può limitare l’applicazione dei criteri di giustizia.

Rawls immagina che, prima di stabilire che tipo di società sia preferibile costruire e quali norme prevedere (ovvero in una ipotetica posizione originaria), sia necessario fingere la condizione di trovarsi “sotto un velo di ignoranza”, cioè di non sapere quale potrà essere il proprio ruolo nella società che si andrà a fondare. Partendo da questo esperimento mentale, sarebbe dunque interesse di tutti costruire una società in cui siano minimizzati impedimenti e ingiustizie, massimizzate le possibilità e garantita un’equa distribuzione delle risorse.

Secondo Van De Veer, come abbiamo visto anche in Singer, i criteri di giustizia riguardano tutte le creature senzienti – non solo quelle dotate di senso di giustizia. Partendo dalla teoria di Rawls, Van De Veer arriva quindi a sostenere che in questo caso l’essere umano deve rinunciare al requisito di reciprocità, assumere uno sguardo di imparzialità e, immaginando di trovarsi in una posizione preoriginaria, procedere alla ricerca di principi di giustizia “interspecifica” (De Mori 2013: 64).

La critica di Midgley all’antispecismo radicale (Midgley 1985: 106-121) verrà accolta anche da Donald Van de Veer nella sua proposta di contrattualismo interspecifico (De Mori 2013: 65), che prenderà in considerazione uno specismo sensibile agli interessi degli esseri senzienti. Uno specismo che vede le differenze di specie e ne riconosce l’alterità, si focalizza sulla responsabilità, sulla cura e sul rispetto favorendo le capacità e la fioritura della vita di altri esseri senzienti, arrivando ad aprire le porte a una rinuncia della reciprocità per riconoscere uno statuto morale e la possibilità di un contrattualismo interspecifico.

Van De Veer identifica due principi generici adattabili alle diverse circostanze:

  • nessuna creatura senziente debba essere costretta a subire trattamenti che rendano la sua vita non degna di essere vissuta;
  • nessun essere razionale dovrebbe deliberatamente causare l’esistenza di una creatura senziente quando sia certo (o altamente probabile) che tale creatura avrebbe una vita non preferibile alla non vita (De Mori 2013: 65).

È stata avanzata l’obiezione che il contratto dovrebbe avvenire fra soggetti interessati a se stessi, un contratto razionale comunicabile a tutti i soggetti. Ma l’obiezione non rappresenta un ostacolo insuperabile se pensiamo alla possibile rappresentatività di chi si assume la responsabilità di rappresentare gli interessi di altri esseri umani con gravi disabilità intellettive.

Ovviamente non si può pretendere che una proposta etica sia esaustiva per l’applicazione di un criterio ispirato alla giustizia nei diversi contesti; quindi, si potrà usufruire della complementarietà di approdare a visioni complementari ispirate a un’etica della cura e della responsabilità, facendo leva sulla compassione o meno, fino a giungere a un’etica del rispetto per la vita.

Quest’ultima fu proposta più di un secolo fa da Albert Schweitzer – filosofo, teologo, medico missionario, insignito del premio Nobel per la pace nel 1952. A una prima lettura, la sua potrebbe apparire una visione utopica, perché gli interessi in gioco per l’umano confliggeranno sempre con quelli degli altri esseri viventi, portandolo a scegliere per la propria vita.

Questo dovrà succedere per necessità di sopravvivenza e non sull’onda di frivoli desideri. Certe decisioni dovranno avere il peso di tragiche scelte: davanti a esse ciascuno sarà interpellato personalmente e in base al ruolo che sarà chiamato a rivestire, facendo appello alla propria coscienza. Ogni essere umano dovrà assumersi le proprie responsabilità per le vite che saranno sacrificate.

Anche nel preambolo della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia conclusa a Strasburgo il 13 Novembre 1987 – ratificata dall’Italia soltanto nel 2010, con la legge n. 201 – è scritto: “l‘uomo ha l’obbligo di rispettare tutte le creature viventi”. CETS 125 – European Convention for the Protection of Pet Animals (coe.int).

Schweitzer scrive:

«Il rispetto per la vita scaturisce da una “volontà di vita” che ha imparato a pensare, è dunque un SÌ alla vita, che diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e dell’umanità intera»(Schweitzer 1994: 17).

Bibliografia

  • CETS 125 – European Convention for the Protection of Pet Animals (coe.int) https://rm.coe.int/168007a67d [accesso 02/09/2024]
  • De Mori B. (2013). Che cos’è la bioetica animale. Roma: Carocci
  • LEGGE 4 novembre 2010, n. 201 – Normattiva
    https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2010-11-04;201 [accesso 02/09/2024]
  • Pollo S. (2021). Manifesto per un animalismo democratico. Roma: Carocci.
  • Rawls J. (1999). Una teoria della giustizia. Milano: Feltrinelli.
  • Schweitzer A. (1994). Rispetto per la vita. Torino: Claudiana.
  • Singer P. (1989). Etica pratica. Napoli: Liguori.
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