Agnese, la chiamiamo così per non renderla riconoscibile tra le pieghe di questo racconto, in un anno come un altro, ma in un giorno di un caldo estivo che sa di mare e di vacanza, riceve una comunicazione: è stata denunciata e non potrà continuare a prendersi cura delle sue due figlie. La sabbia su cui poggia i piedi si fa bollente, il sole troppo forte e il suo momento di quiete in famiglia un inferno che deve lasciare. Con la sua auto accompagna le bambine al loro padre biologico, così come le viene indicato di fare. Cinquecento chilometri per raggiungerlo ed elaborare dentro e fuori l’idea di doversi separare da loro, il ricordo di un passato di abuso di alcol che ritorna presente e che si fa un dolore tanto intenso da trasformarsi in un desiderio di morte. Inizia un viaggio attraverso l’Italia con il pensiero che l’unica possibilità sia scegliere un ponte da cui gettarsi.
È il 14 agosto, un giorno di caldo torrido che sa di inferno, non c’è alcun Servizio aperto a cui potersi rivolgere, nessuna Istituzione a cui porre domande, a cui richiedere informazioni.
Uno spiraglio di luce e di speranza viene dal contatto con una comunità terapeutica che, anni prima, l’aveva accolta e sostenuta nel suo percorso di cura dall’abuso di alcol e dal suo quadro di bulimia, aiutandola a ricostruirsi il suo presente fatto di una quotidianità serena, dedita alla crescita delle due figlie. È con questa realtà che riesce a mettersi in contatto per richiedere aiuto.
Il suo passato da alcolista le resta addosso come una cicatrice. Agnese ha un altro figlio più grande, che complice del padre e da lui probabilmente sedotto, ha testimoniato ai Servizi Sociali dichiarando l’inaffidabilità della madre. Ed ecco che è da qui che giunge la decisione di affidare al padre le bambine, un padre che non si è mai saputo prendere cura di loro. Col tempo si aggiungono dettagli, che pian piano aiutano a delineare un puzzle che rende il quadro della vicenda chiaro e completo, delineandone una complessità la cui unica certezza sembra essere il legame autentico e l’affetto sincero che lega la madre alle sue figlie.
Agnese quello stesso amore non l’ha vissuto per se stessa perché ha alle spalle un’infanzia di abusi, che l’hanno intrappolata da adulta nel circuito della violenza, che è violenza relazionale, sessuale, che la tiene legata in situazioni in cui l’abuso si perpetua in molteplici forme. È sfruttata sul lavoro, non si sente mai all’altezza, la sensazione di inadeguatezza non esce che rafforzata dall’indifferenza della sua famiglia rispetto alla sua storia traumatica, che non conosce accoglienza e cure adeguate.
È una donna con una vita diversa da tante, che si ritrova, per dirla con le parole di Winnicott, a dover cercare con tutta se stessa di dimostrare di essere una “madre sufficientemente buona”. Nel frattempo, anche il contesto circostante la mette a dura prova. Non può lavorare, ma servono un’occupazione, risorse economiche consistenti e una casa per potersi meritare la crescita delle figlie e pagare nel frattempo le consulenze del tecnico d’ufficio richieste dal tribunale. Un’abitazione ce l’ha, l’unica prova che giocherebbe a suo favore, ma lì continua a risiedere abusivamente l’ex compagno, che la costringe alla decisione di venderla.
Accadono intanto altre vicissitudini, che continuano a complicare il quadro. La sua possibilità di essere sostenuta dalla comunità terapeutica che l’aveva accolta in passato, e che ne conosce e accoglie la storia, viene meno perché l’ASL competente sul territorio di sua residenza revoca la retta che le consente di continuare a curarsi in un momento di estrema fragilità e necessità, in cui la gestione delle dinamiche con la Giustizia la mette ancora una volta in grande difficoltà. La famiglia d’origine perpetua anch’essa dinamiche già conosciute e disconosce la sua sofferenza, dunque, la sua patologia da cui essa trae origine.
Nei passaggi di congiunzione tra le tessere di un puzzle intricato il sistema incontra un cortocircuito, che ne rende visibilmente fragile l’impalcatura. Non è un uomo che uccide Agnese, né violento non riconosciuto come tale, né “bravo ragazzo” confuso come tale, così come dai fatti di cronaca siamo soliti sentire le narrazioni dei femminicidi.
La storia di Agnese è quella di un femminicidio sociale, in cui persi tra le trame di riconnessione tra le Istituzioni e nella definizione delle aree e dei confini di competenza, una donna si è trovata di fronte alla scelta di uccidersi o lasciarsi perire, trovando al posto del contenimento e dell’affetto che situazioni come la sua richiedono, un sistema confuso che in una sorta di bystandereffect rimane immobile, incapace di impedire il perpetuarsi dell’abuso.
Oggi Agnese sta meglio, è sfuggita alla morte grazie alla sua forza nel portare avanti un percorso terapeutico reso possibile anche grazie all’impegno da parte della comunità terapeutica che l’ha accolta.
Ha cambiato residenza, trovando cosi altri servizi territoriali che le consentono di proseguire le cure con il pagamento della retta della comunità. Conduce una vita regolare, sana e rispettosa. Ha trovato un’occupazione a tempo indeterminato, dove è molto apprezzata per la sua disponibilità e l’empatia nei confronti delle persone con cui entra in relazione. Ha un’abitazione idonea ad accogliere le sue figlie due volte a settimana. Permane per lei il divieto di accompagnarle in auto.
Questa è la storia non di una, ma di tante donne che, come lei, potrebbero farcela o non farcela a sfuggire a un femminicidio sociale, in cui il finale del racconto non dovrebbe dipendere dall’essere donne dalla forza straordinaria e sovrumana, ma da un funzionamento delle istituzioni che richiede di essere ripensato.
Purtroppo storie come queste non sono così infrequenti. Lo sanno bene le tante volontarie e volontari (ma spesso sono donne) che nelle associazioni, nei centri caritas delle parrocchie si dedicano all’ascolto.
Ascolto, accoglienza, farsi prossimi, farsi trovare, orientare ai servizi, sostenere, spesso sono dei veri e propri salva vita.
Abitiamo in comunità in cui le fragilità umane sono la norma, non l’eccezione.
Lo stigma nei confronti della salute mentale, dipendenze comprese, hanno radici forti che rendono la società sospettosa, moralistica e giudicante. La questione però deve essere gurdata anche con uno sguardo sociopolitico, al di là delle singole esperienze che, certo vanno raccontate come importanti testimonianze. Chi sta morendo e viene ben poco curato nella sua sgonia é il nostro SSN. La legge 833/78 ,ha come principi fondamentali l’universalita’, l’uguaglianza e l’equità. Restituusce centralità alla persona, alla prevenzione alla riabilitazione. Ci battessimo di più per questa legge che per essere realizzata ha bisogno di tanti finanziamenti avremmo una comunità più sana . Meno storie come quella di Agnese e tanti altri.