Affitti crescenti e salari stagnanti: un cappio sempre più stretto
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Affitti crescenti e salari stagnanti: un cappio sempre più stretto.
Nella nuova manovra del Governo c’è un dettaglio che spiega molto di quanto sta avvenendo nel mercato del lavoro italiano: un fringe benefit fino a 5mila euro annui per quei lavoratori assunti che, per lavorare, spostano di oltre 100 km. la propria residenza. Una misura suggerita dalla Confindustria che è spaventata da quanto sta avvenendo. Vediamo perché.
Fin dagli anni ’70 studi e sindacati misero in luce che nelle grandi città i lavoratori (ancor più quelli con bassi salari), rischiavano, a causa dell’alto costo degli affitti, di diventare lavoratori poveri. Chi poteva faceva un mutuo per una casa di proprietà. E qui si spiega perché, specie in Italia, è cresciuto in modo enorme il numero di proprietari e si è ristretto il mercato degli affitti.
Da qui sono nati i programmi di edilizia pubblica e gli accordi con i proprietari per affitti calmierati. Col tempo questi temi sono finiti ai margini, anche per la “vulgata” che la classe operaia non esistesse più.
Oggi a lanciare l’allarme su questo tema è la Confindustria, che vede salire dalle proprie imprese un grido di “dolore” in quanto non si trovano più giovani lavoratori italiani disposti a lavorare in città dove gli affitti sono elevati, mettendo a repentaglio la stessa nostra manifattura, che è la base della ricchezza della nazione. E intanto scopre che dal 2011 al 2023 sono 550mila i giovani italiani dai 18 a 34 anni che si sono trasferiti all’estero – ma secondo la Fondazione Nord Est le cifre reali sono 1,5 milioni (I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero, 2024) – mentre sono solo 70mila gli ingressi di questa fascia di età dai paesi avanzati in Italia, che risulta ultima in Europa per capacità di attrarre giovani dall’estero. Al Nord il 35% dei giovani è pronto ad andare all’estero per migliori opportunità di lavoro (25%) o di studio (19%).
Incide ovviamente anche il calo demografico e il fatto che oggi un giovane diplomato o laureato ha due genitori, almeno una zia/o senza figli e l’aspetta un’eredità, per cui è meno disposto a “tribolare” per lavorare, se il salario che porta a casa è basso e metà di esso serve per pagare l’affitto. Invece molti immigrati sono disposti a pesanti sacrifici: come quei riders che l’altro giorno nella civile (almeno un tempo) Bologna hanno pedalato fino all’una di notte con l’acqua fino alle caviglie per portare cibo a bolognesi che non solo non gli hanno dato un cent di mancia ma neppure li hanno ringraziati del servizio – una società di consegna (Just Eat) ha chiuso il servizio in quel giorno di bufera per salvaguardare l’incolumità dei suoi riders.
Dice lo studio della Confindustria [1] a pag. 97: “Il costo dell’alloggio, sia in termini di affitto che di acquisto, è un fattore chiave nella decisione di una persona o famiglia di trasferirsi per lavoro in un’altra area geografica. Quando i costi di alloggio in una determinata zona non riflettono adeguatamente le differenze di produttività e di salari offerti in quella regione, questo ostacola la mobilità territoriale. In un mercato ideale, infatti, i costi di affitto o di acquisto dovrebbero essere proporzionati al livello di produttività della regione e quindi ai salari medi. Prezzi delle case troppo alti rispetto alla produttività, anche in zone dove vi è alta domanda di lavoro e opportunità di occupazione, creano una barriera per i lavoratori che potrebbero essere disposti a trasferirsi in tali aree.” In sostanza si dice che questo fenomeno blocca lo sviluppo anche delle aree più avanzate, poiché trasferirsi in zone più “ricche” diventa proibitivo. Per le imprese di queste aree il rischio è la carenza di personale, mentre dove manca il lavoro (Sud, aree marginali) c’è disoccupazione. Più crescono le disparità regionali, più la somma di carenza di personale (in aree ricche) e disoccupazione (in aree povere) crea una miscela esplosiva. E l’Italia, avendo le maggiori disparità regionali di tutta l’Europa (Lombardia, Trentino, Emilia, Veneto sono ai primi posti nelle oltre 400 aree europee e le regioni più povere sono agli ultimi), rischia più di tutta Europa. Un esempio di come le disuguaglianze riducono lo sviluppo di un paese e del benessere di tutti, come a lungo hanno spiegato gli studi di vari economisti (J. M. Keynes, Federico Caffè, Giorgio Fuà[2], Paolo Leon, ….).
Da tempo nelle grandi città del Nord il mercato immobiliare (affitti e acquisti) era diventato molto costoso e non proporzionato ai salari medi, soprattutto dei giovani lavoratori, ma l’arrivo della “modernità” e delle multinazionali degli affitti brevi a favore di turisti ha fatto esplodere il problema, con tanto di manifestazioni di cittadini contro i turisti e di lavoratori che non riescono più ad abitare in città (neppure in periferia) dove i prezzi sono alle stelle e rinunciano al lavoro nonostante abbiano vinto concorsi nella pubblica amministrazione; con ciò mettendone in crisi la funzionalità, peraltro ulteriormente falcidiata dai tagli del Governo (blocco del turn over al 75% e 5,2 miliardi in meno per i Ministeri nel 2025).
La trappola della mobilità
Al Sud e in province deboli del Centro e Nord (come Ferrara) invece i costi di alloggio sono inferiori, ma ci sono scarse opportunità di lavoro e ciò porta ad una “trappola della mobilità”, con un pendolarismo crescente in auto e treni super affollati (e relativi ritardi) che peggiora la qualità di vita dei lavoratori.
Sono lontani gli anni in cui Adriano Olivetti apriva filiali al Sud con locali belli e spaziosi[3], anche perché le stesse aziende (che poi si lamentano) quotate in borsa oggi distribuiscono l’80% dei profitti agli azionisti (fonte Indagine Mediocredito, 2024) anziché investirli in azienda e si insediano nelle grandi città dove ci sono fornitori e clienti e il dialogo è faccia a faccia, nonostante si sia nell’era di internet[4]. Questa trappola della mobilità rende così strutturale la disoccupazione dei giovani italiani e favorisce l’immigrazione di chi è disposto a una vita dura e un rischioso trasferimento pur di sopravvivere; immigrazione che spesso viene contestata dagli stessi imprenditori quando si svestono di questo abito e indossano quello da cittadino.
Il rapporto Confindustria così prosegue: “a Milano, ad esempio, il canone di affitto mensile per un’abitazione di 60 mq. supera la media nazionale del 70%, mentre la produttività del lavoro è più alta solo del 40%. Questo significa che le differenze nei costi di alloggio sono sproporzionate rispetto alle differenze di produttività e, poiché salari e produttività tendono ad allinearsi (quando va bene, aggiungo io), il risultato è un costo abitativo proibitivo che scoraggia la mobilità dei lavoratori. Il problema si manifesta anche in altre province come Como, Venezia, Bologna, Firenze e Roma, oltre che in generale nel Nord-Ovest e nel Centro Italia. Allo stesso modo, città a bassa produttività presentano squilibri simili ma di segno opposto, specialmente nel Mezzogiorno, ma non solo. A Prato, per esempio, i costi di alloggio sono inferiori alla media nazionale del 13%, ma la produttività è più bassa del 36%”. A Prato c’è un’enorme comunità di cinesi che usa lavoro immigrato (pakistani in prevalenza) con bassi salari. Nelle province italiane si nota che la regione con più problemi, dopo la Lombardia, è l’Emilia-Romagna dove i costi di alloggio sono alti (specie a Bologna e Modena). Però c’è anche una produttività relativamente elevata, che si trascina dietro salari più decenti della media.
Città come Ferrara si pensava fossero avvantaggiate avendo costi di affitto più bassi, se avessero creato un collegamento ferroviario (una sorta di metrò) che consentisse di lavorare a Bologna o Modena e abitare a Ferrara. Ma oggi Ferrara rischia grosso: non ha creato questi collegamenti; la propria manifattura è in crisi; eppure continuano a crescere gli affitti – anche per via della città universitaria e degli affitti brevi della città turistica – per cui quei lavoratori che abitano in affitto in città (e i giovani assunti) si trovano nelle stesse condizioni delle città dinamiche (salari bassi e affitti alti). Questa combinazione crea i presupposti per una emigrazione dei giovani locali ancora maggiore e per l’arrivo di sempre più immigrati, in un processo di “sostituzione” dei ferraresi e di impoverimento generale.
Tab. 1- Affitto medio e var.% dal 2018 al 2023 in alcuni capoluoghi
Fonte: A. Gandini su dati Agenzia Entrate Osservatorio OMI
La perdita di produttività del lavoro nella manifattura non è paragonabile infatti a quella di occupati nella ristorazione e commercio (che hanno salari più bassi) e porta in sofferenza i propri lavoratori cittadini in affitto, in una spirale di crescente impoverimento.
Tab. 2 Affitti e produttività del lavoro per aree geografiche selezionate
Concludendo, il disallineamento tra differenze nei costi di alloggio e divari di produttività rappresenta un vincolo alla mobilità territoriale. In Italia, questo problema è particolarmente evidente e necessita di soluzioni sistemiche per essere risolto. Soprattutto alla luce del declino demografico che sta riducendo la forza lavoro, sono necessari interventi di politica abitativa mirati, che possano allineare meglio i costi di affitto e acquisto alle condizioni economiche locali. Misure di sostegno per i canoni di locazione e un piano composito, volto a favorire la costruzione o riqualificazione di immobili a prezzi calmierati, potrebbero aiutare a ridurre gli squilibri attuali, andando ad attenuare anche la disoccupazione in alcuni territori e la carenza di personale in altri.
[1] https://www.confindustria.it/wcm/connect/3ecdad2a-a859-4768-a5fa-1c5fe93f69a2/PDF+completo.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT_TO=url&CACHEID=ROOTWORKSPACE-3ecdad2a-a859-4768-a5fa-1c5fe93f69a2-paUmWOA
[2] Giorgio Fuà, Crescita economica, Le insidie delle cifre, Il Mulino, 1993.
[3] I Paesi dell’Europa occidentale sono stati atlantisti, fino a fare sacrifici autolesionisti. Basti pensare che l’Olivetti aveva già sperimentato il primo elaboratore elettronico al mondo, ma non ebbe il sostegno finanziario necessario perché dagli Stati Uniti vi furono tali e tante pressioni per cui Confindustria e Governo italiano intralciarono il disegno nato ad Ivrea.
[4] Si veda il libro di Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro, Mondadori 2012, che per primo ha individuato questo paradosso dello sviluppo per poli del capitalismo.
Andrea Gandini
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