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Adulto è colui che è cresciuto, si è fatto una cultura, o, per lo meno, una visione del mondo,  e attraverso questa procede ad interpretare la propria vita e quella degli altri.

Ogni disturbo ai propri costrutti mentali è una rottura di equilibrio e poiché i corpi viventi tendono all’omeostasi, tutte le volte gli sforzi sono volti a ristabilire gli equilibri messi in pericolo.

Di solito è una buona dose di passato, immagazzinato come scorta delle proprie certezze, che aiuta in questa operazione di recupero dell’omeostasi tra il sé e il fuori di sé. Il nuovo non si può accumulare, figuriamoci poi il futuro che non c’è. Per cui tutto ciò che non appartiene a quanto è già stato consolidato (si potrebbe chiamare tradizione) viene vissuto con diffidenza.

Un giovane che cresce, e dunque non si può prevedere come si manifesterà, è uno dei tanti disturbi di fronte ai quali si possono trovare gli adulti, con il rischio di vedere messo in pericolo il proprio equilibrio con sé stessi e il mondo circostante.

La natura ha fornito i mammiferi, tra questi i primati come l’uomo, d’un sistema di difesa che consiste nell’addestramento dei nuovi nati, giusto perché l’equilibrio raggiunto in millenni di evoluzione non venga di volta in volta minacciato.

Gli uomini hanno definito questo processo “educazione” e con il tempo si sono costruiti luoghi e prassi a questo specificamente dedicati.

E poiché è esclusivo degli umani adulti avere ciascuno la sua versione del mondo, ne deriva  che anche le idee sull’educazione sono molteplici, alcune assurte a sistemi filosofici, altre a visioni trascendentali della vita con la pretesa di conformare ai loro télos le nuove generazioni in modo da garantire stabilità e continuità alle comunità sociali.

È successo che le comunità sociali cambiassero più rapidamente di quanto se ne potessero avvedere gli adulti, sempre più dipendenti dal passato per poter superare il susseguirsi di nuove crisi, di rotture di equilibrio e di conseguenti sforzi per tornare all’omeostasi.

Cambiamenti e tempi di recupero andavano sempre più assumendo velocità discordanti: le trasformazioni avanzavano e le crisi degli adulti crescevano, non riuscendo più a ricostruire coerenti visioni del mondo, costretti ad assistere al venire meno degli dei e delle ideologie.

Ecco che l’educazione non poteva più funzionare, perché non c’era più una visione del mondo a cui conformare le nuove generazioni, non c’erano più certezze su cui fondare le proprie condotte di adulti e la relazione con le nuove generazioni da educare.

Era successo che i rapidi sviluppi della scienza, delle tecnologie, le ricerche e i saperi avevano preso il sopravvento, rendendo sempre più obsoleta l’educazione e sempre più urgente e necessaria l’istruzione. La necessità cioè di attrezzare se stessi e i giovani ad affrontare le dinamiche di un’esistenza in continuo divenire, portatrice di sempre nuovi problemi e di sfide inaspettate.

Eravamo stati moderni, incantati dalla nostra modernità a cui avevamo affidato il nostro equilibrio perfetto, e non ci siamo accorti, o non abbiamo voluto accorgerci, che al posto della modernità ora c’era la postmodernità e noi c’eravamo dentro.

Intanto il sapere cambiava di statuto, come ha scritto François Lyotard: “l’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più di senso”.

Cade l’educazione come principio, cadono le sue istituzioni: la famiglia e la scuola. È la morte dell’educazione, è la morte dei principi su cui poggia il nostro sistema scolastico, è la morte di chi ancora ritiene che il rapporto tra adulto e giovani debba fondarsi sull’educazione dei secondi e che, a questo scopo, siano necessarie comunità educanti.

Per Lyotard ciò che la postmodernità ha messo in crisi è il carattere principalmente narrativo del sapere, tanto da delegittimare i luoghi del suo racconto, della sua trasmissione. È un gran bene che le nuove generazioni siano naturalmente digitali, perché non è più la trasmissione che li collega ai saperi, ma la connessione in rete per avere accesso alle memorie e alle banche dati.

In Scienza con coscienza Edgar Morin scrive: “ Il vero progresso si verifica allorché la conoscenza prende coscienza dell’ignoranza che essa arreca: si tratta quindi di un’ignoranza cosciente di se stessi, e non della superba ignoranza dell’idealismo determinista che crede che un’equazione suprema gli permetta di illuminare l’universo o di dissipare il mistero”.

Abbiamo bisogno di laboratori di istruzione, di botteghe di istruzione, di luoghi dove ci si attrezza ad apprende, a conoscere, innanzitutto se stessi. Non di cattedre e di classi anagrafiche educanti.

Laboratori, perché conoscere significa negoziare, lavorare, discutere, battersi con l’incognito, che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione.

Allenarsi alla conoscenza, usarne gli strumenti, possederli anziché esserne sottomessi, sono le strade per attrezzare i giovani a gestire se stessi, esercitati fin da piccoli a misurarsi con le loro dinamiche, contraddizioni e aspirazioni, a costruire se stessi lontani da ogni tentativo di educarli per conformarli ad essere ciò che non sono e non saranno.

È necessario che gli adulti ritrovino se stessi e che gli adolescenti siano forniti dall’istruzione degli strumenti che portano al sapere e a disporre del potere del proprio cervello, per essere liberi di decidere e di scegliersi la propria ‘adultità’.

La nostra scuola soffre ancora di un orrendo retaggio che all’istruzione ha portato a privilegiare l’educazione, alla scienza la dottrina. Il Ministero dell’istruzione e del merito, per non smentire il passato, resta lì a piantonare questo retrogusto di sapore antico, riabilitando il valore formativo del merito e dell’umiliazione.

Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo non funziona più nel secolo XXI, nel secolo della postmodernità. La sua organizzazione e i suoi archetipi non reggono alle sfide che abbiamo di fronte.

L’ha scritto a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.

Ci sono allora tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: Cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?

Ma, al momento,  non mi sembra che ci sia qualcuno interessato a porsele, né a destra né a sinistra.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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