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Ferrara film corto festival

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Adolescenti in difficoltà, scuola a pezzi

Cresce il numero degli adolescenti “problematici”, sia ad avviso dei genitori che ad avviso degli insegnanti. Bambini dolci che si trasformano ad un certo punto in adolescenti o giovani ribelli, raccontano balle e vogliono solo i tuoi soldi. Un fenomeno che mette in crisi parecchi genitori, i quali si interrogano su cosa hanno sbagliato. Il fenomeno non è nuovo, come vedremo, ma negli ultimi 3 anni si è accentuato non poco.

La prima causa che mi viene in mente è il Covid: aver lasciato (colpevolmente) a casa da scuola per un tempo eccessivo (l’Italia ha il record mondiale) questi giovani, averli costretti a una forma di fatto di deresponsabilizzazione sia per lo studio (impossibile) on line, averne minato le relazioni in una fase cruciale della vita e aver deresponsabilizzato anche i genitori. Purtroppo adesso e nei prossimi anni raccoglieremo gli errori di una gestione sbagliata da parte delle istituzioni che hanno rubato, senza alcuna base scientifica, relazioni e vita a giovani che le hanno trasformate in rabbia e ribellione.

Il fenomeno, come dicevamo, non è nuovo se anche nell’antichità Socrate (470 a.C), Esiodo (720 a.C.) ed altri, ancora più antichi, si lamentavano dei loro giovani (..la nostra gioventù è marcia…) e se Umberto Galimberti nell’ultimo suo libro (L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani, ed. Feltrinelli) riporta un articolo di Marco Lodoli su La Repubblica uscito il 4 ottobre 2002 (21 anni fa!) dal titolo “Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare” che dice: “A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro…La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovraumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio…In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno di un sostegno, non per un qualche handicap fisico o qualche grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi…Loro sono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi sempre nelle stesse condizioni…Non riescono a ragionare su nessun argomento perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa”.  Potrà essere di consolazione per tanti genitori e insegnanti che non sanno più cosa fare, ma non cela il fatto che da allora le cose si sono molto aggravate ovunque (dai Licei ai Professionali).

Cresce il numero di studenti che in classe non seguono le lezioni, disturbano, hanno raggiunto livelli spesso incompatibili con il normale funzionamento e fanno rallentare, se non regredire, l’apprendimento di tutta la classe. E crescono anche gli studenti con problemi di apprendimento (Dsa) da 233mila del 2017 a 311mila nel 2023, per cui sono passati da 1 a 33 a 1 a 23.
Sono cresciuti anche gli insegnanti di sostegno (da 137mila del 2017 a 220 mila nel 2023, per 5 miliardi di spesa), ma la situazione è sempre più critica anche perché il 60% di questi docenti di sostegno cambia ogni anno (e quasi mai sono adeguatamente formati).
Le Università che rilasciano il titolo sono quasi tutte al Sud, mentre i posti sono quasi tutti al Nord: per cui c’è anche un crescente abbandono di questi corsi – gli ultimi concorsi vedono un iscritto ogni 20-30 cattedre (48 candidati per 1.367 posti in Piemonte alle elementari, 171 per 4.111 in Lombardia, 63 per 1.403 in Veneto). I posti vacanti saranno coperti (se va bene) da studenti universitari senza alcuna preparazione, quando questi studenti fragili (in forte crescita) hanno diverse problematiche che richiederebbero preparazione specialistica. C’è poi il problema delle materie scientifiche alle superiori (matematica, fisica, informatica, chimica) che hanno meno della metà dei candidati rispetto ai posti disponibili. Nelle scuole di periferia più turbolente c’è chi si rifiuta di insegnare a costo di perdere il lavoro: in generale non c’è docente che non si lamenti per la fatica nell’insegnamento.

Ci sono cause aggiuntive, contemporanee di questo “disagio” giovanile? Della gestione sbagliata del Covid ho già detto. Aggiungo:

– l’arrivo della “modernità” digitale che riduce la curva di attenzione e concentrazione per qualsiasi cosa;

– la mancanza di fratelli e sorelle, di genitori che stanno insieme, di una vita di relazione con amicizie non puramente virtuali;

– una scuola impostata su modelli di apprendimento basati sulla sola istruzione e non anche sulla sperimentazione. La scuola in effetti non è mai cambiata, mentre lo sono (e molto) i giovani di oggi.

I ragazzi che stanno sui social precocemente (il 40% già dagli 11 ai 13 anni, fonte Save the children) non solo cercano like e followers, ma vedono amplificati bullismo e ferite che sono sempre esistite ma che ora diventano oggetto di scherno pubblico, producendo depressione specialmente nelle ragazze.

Se il mondo reale ha fatto progressi enormi dal punto di vista soprattutto tecnologico, quando entri in classe la ritrovi sostanzialmente, in termini di istituzione “ufficiale”, come era un secolo fa: lavagna, cattedra e banchi. Gli insegnanti più appassionati usano mille strategie per motivare, fanno lavorare a gruppi, usano il cooperative learning in scuole piene di LIM, computer, ma il digitale sembra paradossalmente avere addirittura sfavorito l’apprendimento, al punto che ci sono scuole (Albertini di Roma[1]) che rifiutano una ulteriore digitalizzazione. L’idea che tutto ciò che è moderno o tecnologico sia sempre meglio di qualsiasi tradizione – o forse senza più un minimo substrato in grado di stabilire connessioni tra i fatti, come denunciava Marco Lodoli  rischia di consegnarci ad una crescente disumanizzazione.

Che fare? Da un lato crescono pulsioni d’ordine, in parte anche dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che si traducono nella reintroduzione del voto in condotta che, se insufficiente, porta alla bocciatura. C’è chi poi propone di tornare a classi differenziate (a prima del 1977) dove mettere chi disturba e non vuole seguire, lasciando gli altri (che sono la maggioranza) liberi di poter apprendere senza continue vessazioni dei pochi disturbatori. Lo spirito del tempo mi fa dire che è una soluzione gradita alla maggioranza di genitori e docenti, ma non è la via giusta.

Chi si oppone richiama l’importanza dell’”inclusione”, una conquista degli ultimi decenni, che resta però astratta per la mancanza di idee e di supporti reali e risorse (difficile fare riforme senza soldi). L’inclusione si può praticare se le classi sono piccole, se chi disturba sono 2-3 alunni su 18-20, se i docenti di sostegno sono sempre gli stessi e sono preparati, se la scuola ha laboratori che consentono di affiancare sperimentazione ad istruzione[2], se usa il viaggio come formazione, se evita di lasciare seduti al banco come detenuti gli studenti per 36 ore settimanali, ormai più del tempo medio di lavoro dei loro genitori. Ma tutto questo non accade, se non in poche virtuose eccezioni. Le risorse per la scuola si sono ridotte, i viaggi non si fanno più (per via della mitizzazione della sicurezza fisica che poi genera insicurezza interiore), tantomeno si è avviato un apprendimento da sperimentazione; infine le classi sono quasi sempre troppo numerose.

O si lascia che le cose declinino gradualmente fino al punto di rottura, o si interviene con un cambio di passo investendo maggiormente nella scuola, ritornando a destinarvi più del 4% del PIL, com’è stato per 40 anni.

Ma tutto ciò non basta. Occorre lavorare sulla sperimentazione che consenta agli studenti più “ribelli” (oppure semplicemente a chi non gradisce stare in aula seduto sei ore al giorno) di seguire percorsi personalizzati per loro più interessanti, apprendendo dalla vita e dal lavoro. Si potrebbe per esempio cambiare completamente l’attuale alternanza studio-lavoro, trasformandola da “professionalizzante” a “universale”. Offrire l’opportunità di fare un’esperienza all’interno di una équipe di lavoro in un’azienda qualificata, in cui vi sia reciproca scelta tra impresa e studente, per un mese o due in modo da apprendere sul campo le competenze sociali ma anche quelle concettuali. Questi studenti dovrebbero essere seguiti sia da un tutor aziendale che scolastico, un vero accompagnamento in aziende che saranno anche scelte da loro sulla base di colloqui con caratteristiche, appunto, di reciprocità. Non si tratta di usare il lavoro in un’ottica professionalizzante, ma come mezzo di apprendimento universale, di concetti e di socialità (anche perché sappiamo che 2/3 studiano X e faranno Y). Ma per fare ciò servono risorse e un vero accompagnamento personalizzato.

[1] Al Liceo classico Albertelli di Roma genitori e insegnanti hanno rifiutato i 300mila euro del Pnrr per modernizzare la scuola 4.0. Il progetto promosso dal dirigente prevedeva di formare esperti del web (video making, produttori di musica digitale, Manager Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor e altre figure simili). Si noti l’abuso dell’inglese che fa tanto Italietta “provincia dell’impero”. Docenti e consiglio vogliono invece un potenziamento dei laboratori di chimica, informatica, e la digitalizzazione dell’antica biblioteca. La scuola è già ampiamente dotata di tecnologie (41 smart tv, 7 proiettori, 49 pc notebook, 41 pc desktop,…) ma il dirigente voleva ancor più “modernizzare”. Docenti e genitori contestano la formazione di “operai acritici del digitale”, disarticolando il gruppo-classe e disinvestendo sulla preparazione necessaria per comprendere la complessità del mondo. 

[2] In Finlandia al liceo classico hanno introdotto la falegnameria come materia di base, in quanto si sono resi conto che l’ingaggio cognitivo che oggi viene richiesto ai giovani in molti lavori, ha bisogno di un pensiero critico e non solo di combinare algoritmi al ritmo di 1 e 0, di una capacità di innovare e non solo di risolvere problemi e che queste capacità vengono soprattutto dalle materie artistiche e manuali. L’uso delle mani favorisce infatti non solo l’abilità motoria ma le connessioni neuro-cerebrali e la capacità di sviluppare un pensiero e un sentire sono legate alle relazioni, al lavoro di équipe e non al digitale.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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