Il sogno americano di Paolo Nutini
La copertina è una polaroid consumata dal tempo, in cui spiccano i riferimenti agli anni ’60 e ’70: la Gibson Hummingbird, il giubbotto di jeans, i vinili sparsi qua e là sul pavimento. Già da quest’immagine si intuisce la direzione che prenderà Last Night In The Bittersweet, quarto album di Paolo Nutini. Il sound vintage fa la spola tra le due suddette decadi, e il soul-pop del cantautore scozzese si fonde a più riprese con il blues, il country-rock e il folk. Insomma, seppur con qualche eccezione, è un campionario musicale del Novecento statunitense.
C’è Tom Petty in Petrified In Love, Lou Reed nell’elettrizzante Lose It, Bruce Springsteen in Shine A Light, Johnny Cash in Abigail e, soprattutto, Cat Stevens nell’elegante leggerezza del singolo Through The Echoes, impreziosito dall’espressività vocale dello stesso Nutini. Gli arrangiamenti, nel frattempo, fanno il loro dovere: semplici, puntuali e senza troppi fronzoli. Il più delle volte è la sezione ritmica a prendere l’iniziativa e a condurre in porto il brano, come accade nell’ipnotica Afterneath e nella ballata Acid Eyes, dalla quale fa capolino l’inguaribile ottimismo degli anni ’80.
Così, seppur in un terreno ampiamente battuto, Paolo Nutini si muove da una decade all’altra con l’eleganza e la maturità di chi sa maneggiare la materia prima. Last Night In The Bittersweet è quindi un album un po’ frammentato, ma non per questo slegato o incoerente. Il filo conduttore è semplicemente l’amore per la musica, declinato nelle sue innumerevoli versioni e immortalato nella sua bellezza senza tempo.
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Paolo Moneti
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