A scuola da don Milani. (Prima parte)
Don Milani: i poveri, la chiesa, la coscienza e la pace, la scuola
Cosa ci dice in realtà oggi, don Milani, diventato così “di moda”? Dopo oltre 50 anni, le sue idee hanno ancora una qualche validità per i nostri problemi?
Tanto più, si potrebbe anche dire, in un tempo nel quale la scarsità di maestri e di pensiero, impone di tornare ai grandi maestri del passato. “Don Milani ci lascia una eredità scomoda, che però è una grande risorsa” è l’opinione di Paolo Landi, suo allievo a Barbiana.
La ricchezza dei contributi di questa raccolta, mi pare che ce lo confermi.
Io mi limito a riprendere qualche tema che intreccia gli irrisolti problemi di oggi, con l’esperienza del priore fiorentino, cogliendone soprattutto quello spirito alto che muoveva il suo agire.
Don Milani i poveri e la povertà
Certo che la domanda è retorica! Anche perché da Oxfam all’Istat, veniamo informati ogni volta, che la povertà aumenta, ed è addirittura aggravata dalle crescenti disuguaglianze.
La povertà è “il” tema centrale nel pensiero e nel cuore di don Milani. La sua passione. Il dono (la grazia, come la chiama lui), ma anche la sua splendida ossessione. Lui abbraccia francescanamente la povertà. A differenza di Turoldo e Pasolini che, nati poveri di pane e cultura, della povertà hanno fatto il centro della loro poetica, don Milani, nato ricco di pane e cultura, si spoglia di agi e ricchezze, per fare dei poveri e della povertà, la missione evangelica del suo sacerdozio.
Hanno connotazioni diverse, la povertà contadina del Mugello anni ’50, e la povertà urbana/metropolitana di oggi. Il problema, è che non solo rimane come presenza costante nella società, ma si aggrava sempre più. Perché la povertà cresce con la crescita delle disuguaglianze. Cresce infatti la povertà relativa e quella assoluta.
È una povertà di sistema, prodotta da una dinamica infernale del sistema capitalistico a livello globale, in cui, noi, ci siamo dentro “fino al collo”.
E don Milani ne aveva colto proprio il carattere strutturale e potente, che produce un vero paradosso: quello che vede crescere, assieme, ricchezza e povertà. La ricchezza per accumulazione, la povertà per diffusione. Fino a colpire gli stessi lavoratori. Sì che, oggi, ne è colpita perfino la classe media, quella che, secondo Bonomi, “si vergogna di andare in coda alla Caritas”.
E, purtroppo, neanche il lavoro, che ne è stato sempre l’antidoto, basta più per sfuggirla.
Cosa c’è di più tragicamente attuale, quindi, di questo fenomeno, se aggiungiamo gli immigrati che, al carico di sofferenze e sciagure che si portano addosso, devono subire anche lo stigma sociale e ideologico di parte della società e, cosa più grave, della politica? “li trattiamo da delinquenti aggiungendo la vergogna al bisogno” dice Maisto.
Ma l’idea di povertà in don Milani è ampia, e comprende ogni forma di deprivazione. “Oggi arriva la salvezza nella nostra famiglia: sei bambini tutti handicappati” dice, citato da don Colmegna.
Eppure c’è anche di più. C’è che il povero disturba più della povertà. Altro paradosso.
Non solo c’è l’egoismo tradizionale della classe borghese. C’è pure quello di una fetta importante di quelle classi popolari, vittime della propaganda reazionaria e della perdita del senso di appartenenza di classe.
Il povero disturba perché, se nella testa di molti, la povertà è un fenomeno sovrastrutturale che c’è sempre stato, ma è abbastanza distante, il povero no. Non solo è povero “per colpa sua”, e questo già infastidisce, anche se si tratta di un pregiudizio, che è un meccanismo psicologico che oggettivizza, e trasferisce sul povero il proprio senso di colpa. Ma, soprattutto, ci è vicino. Lo vediamo, lo incontriamo, lo tocchiamo perfino. Ci disturba insomma.
Così però, si scivola nella lotta alle persone: i poveri, che si vedono, piuttosto che al fenomeno, la povertà, che non è del tutto percepita. Buon che vada ci si fa un po’ di carità compassionevole, ma a distanza (legge di Rawls).
Eppure, va detto, che, rispetto alla povertà, il problema non è quello di lenire gli effetti (che va sempre bene), ma principalmente quello di aggredire le cause. “Nell’impegno sociale occorre usare due mani: una per rispondere ai bisogni immediati, l’altra per rimuovere le cause che rendono il povero povero e l’emarginato oppresso” diceva don Milani nel ricordo di Landi.
Salvo che, con la globalizzazione del capitalismo finanziario, le cause sono sempre di più e più dominanti. Grandi, lontane, irraggiungibili, inattaccabili. È più probabile che si avveri la profezia marxiana, per la quale il capitalismo sarà distrutto dalla sua avidità.
Don Milani ci ha insegnato, però, che povertà e poveri, non si possono dividere. Sono la stessa cosa, le due facce della stessa medaglia. E così lui abbraccia le persone, ama i suoi ragazzi, li considera un dono prezioso di Dio e del destino, indaga sulle loro condizioni, e su di loro costruisce la sua missione di prete.
Li aiuta ad emanciparsi, a formarsi una identità morale, culturale e civica per passare da sudditi a cittadini, e ad avere la consapevolezza dei propri diritti, a coltivare ed esercitare un forte spirito critico. È la sua idea di cristiano integrale, i cui bisogni sono materiali quanto spirituali e sono inscindibili. “ha consumato anche il suo corpo per i suoi allievi” ci dice Lizzola: “una sorta di eucarestia”.
Ma, per me, nell’innocenza e nell’ingenuità contadina, c’è anche, nel pensiero di don Milani, la ricerca di un’etica nuova (aspirazione pasoliniana), non trasgressiva, ma un’etica dura, convinto che non c’è etica senza severità. E che nella marginalità sociale, vi sia una grande potenzialità di valori. Un’etica nuova utile ad emancipare i poveri e la stessa società.
Il suo vangelo è quindi antropologico, come quello di Papa Francesco, che si identifica con questa visione. Rifiuta un cristianesimo solo dottrinario, vuole un cristianesimo che si misura sull’amore per l’uomo in carne ed ossa…”il mondo delle persone” ci ricorda Gazzaneo.
Gesù e i poveri questo il suo mondo e il suo vangelo “ciò che farete al più piccolo… “ evocando i bisogni materiali. Perché l’amore per l’uno, Gesù, è l’amore per l’altro, fratello, a partire dal più piccolo.
“Ho voluto più bene a voi che a Dio” ci ricorda padre Ronchi. Più uomo che prete, ci verrebbe quasi da dire. Sempreché le due cose, l’uomo e il prete, non debbano stare intimamente assieme, e che lui non si fosse sentito prete profondamente convinto nella fede, per tutta la vita.
Don Milani: la Chiesa e la riforma religiosa
Intanto va detto che per don Milani la chiesa è stata madre e matrigna.
Madre amata come corpo mistico di Cristo, a cui è stato sempre rigorosamente fedele (mai ha rotto la comunione ecclesiale), sebbene non stolidamente obbediente (“quando si fa una cosa che riteniamo giusta, non si deve chiedere il permesso al superiore”).
Matrigna, invece, perché nell’incapacità di capire e priva di carità, era causa delle sue sofferenze. Commovente il pianto nel letto di morte, alla lettura della lettera, molto dura e cattiva, dell’arcivescovo di Firenze Florit.
Si è ripetuto con don Lorenzo, ciò che è accaduto in tanti altri casi, quasi che la Chiesa riscopra la sua santità nel far soffrire i suoi figli, per farsene, poi, ma solo poi, un vanto testimoniale. Dal vescovo Romero, al caso eclatante a lui contemporaneo di don Primo Mazzolari, “santificato” poco prima della sua morte, da Giovanni XXIII, che lo definì “la tromba dello spirito santo”. Dopo aver subito tante angherie e sofferenze.
Analoga si può considerare la sorte di don Milani, con papa Francesco a Barbiana. Solo che lui era morto da molti anni, e non ha potuto umanamente gioire del riscatto.
Sono queste le evangeliche “pietre scartate dai costruttori”, che sono diventate pietre d’angolo.
La Chiesa fatica a riconoscere i suoi profeti, soprattutto quando cavalcano il carattere rivoluzionario del vangelo, quello che non porta “la pace, ma la spada” di fronte alle ingiustizie, che don Lorenzo definisce “bestemmie”. Una postura e un insegnamento pericolosi per l’ordine costituito, con il quale troppo spesso la Chiesa si è sciaguratamente compromessa.
E non c’è anche oggi un problema di “conversione” della chiesa? Le fatiche di papa Francesco per riformarla testimoniano che questo è vero, come conferma anche il recente sinodo dove si è discusso di temi scottanti, ma in modo molto combattuto proprio sul fronte delle riforme.
Non c’è, però, solo la riforma della chiesa, ma anche la riforma religiosa, con la quale si salda tutta l’opera testimoniale di don Milani. A cominciare dall’intreccio, dice Bettoni, “fra scuola ed evangelizzazione”, che aggiunge “è difficile che uno cerchi Dio, se non ha sete di conoscere”.
Il concilio, l’evento da cui parte la riforma della chiesa, inizia, come si sa, da una lettura aggiornata della realtà, con la Gaudium et spes, che è la richiesta forte delle correnti riformatrici. Grandi erano i fermenti che fiorivano allora in tutto il mondo e che, in Italia, avevano proprio a Firenze, con Milani, Turoldo, Balducci, La Pira, Facibeni, Bartoletti, Barsotti…., un laboratorio particolarmente vivace, a cui Lancisi dedica il libro I folli di Dio.
Una lettura indispensabile, quella della realtà, che il concilio fa per innestare l’azione della chiesa nel mondo degli uomini veri, e non su un astratto piano sovrastrutturale, che oggi si direbbe appartenere al metaverso.
Una Chiesa non autoreferenziale, ma dialogante “al servizio dell’umanità a cominciare da quella del territorio” (Bettoni). Chi più di don Milani si può dire ispiratore originale di questa istanza di cambiamento della chiesa?
Tutto il suo lavoro nasce, con “esperienze pastorali”, dallo studio della realtà che lo circonda: a Calenzano come a Barbiana, premessa indispensabile al suo ministero di radicalismo evangelico (“Dio è un mistero da non addomesticare mai”).
E la storia tormentata di “esperienze pastorali”, ci dice quanto fosse ancora distante l’avvento del concilio, a recuperare per prima cosa la dimensione della realtà. Una realtà fatta non solo di vita religiosa, ma della vita tutta. Che interessa la comunità ecclesiale e i singoli fedeli, nella loro integrità esistenziale e vitale.
Una analisi da cui trarre l’insegnamento sul da farsi. A cominciare proprio dall’insegnamento religioso, che doveva essere un processo culturale costruito sul singolo. Personalizzato quindi, a partire dal linguaggio.
Il passepartout del vivere, il linguaggio, affermando il primato della parola, necessario per entrare nel mondo della conoscenza. Quello che dà la consapevolezza di se, del mondo in cui si vive, e delle sue regole. Ma anche della dignità, che è il potere esserne all’altezza, del sapere stare al mondo.
E, soprattutto nel recupero di una coscienza critica, obiettivo escluso, normalmente, dall’insegnamento religioso tradizionale. Perché non solo il dogma, ma tutta la dottrina non si poteva e doveva discutere. L’accettazione acritica era anche l’antidoto alla tentazione protestante. Da questo un catechismo fatto di formule stantie senza pathos.
Una coscienza critica, quindi, da stimolare e recuperare particolarmente nella componente più popolare, la più colpita sui diritti. Portando con il primato della parola e della coscienza, ad affermare il primato del vangelo e la sua libertà. Ciò che pone così il vangelo e la Chiesa al di fuori e al di sopra di ogni ideologia.
Non solo la bella lettera a Pipetta ne è una straordinaria toccante testimonianza, ma sull’accostamento non gradito a rinascita, nella vicenda dei cappellani militari, quando dice che essa ”non merita l’onore di essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono, come la libertà di coscienza e la non violenza”, con chiaro riferimento al comunismo.
Una contiguità ingiustamente e maliziosamente evocata dai suoi detrattori, quella col comunismo. Un punto su cui le parole di Ichino spiegano perfettamente il pensiero e il sentire veri e distintivi di don Lorenzo.
Invece anche e proprio, il radicalismo dei poveri, è un tema che vede coincidere la sensibilità di don Lorenzo, quella del movimento riformatore e quella del concilio.
Non si può dire che don Milani abbia riformato la Chiesa, ma la sua idea di come essere prete, ha interrogato la Chiesa, anche nel concilio, sui cambiamenti da fare, come recita l’incipit della Gaudium et spes: ” le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.”
Ancora oggi la Chiesa è il campo minato del cambiamento. Lo sapeva bene papa Ratzinger che, per questo, ha dato forfait. Come lo sa bene papa Francesco, che nel suo faticoso processo riformatore, ancora incompiuto, ci ha messo un po’ di spirito di don Lorenzo, come ha riconosciuto esplicitamente nel discorso a Barbiana.
La seconda parte di questo articolo è disponibile su Periscopio martedì 9 aprile [vedi Qui]
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Benito Boschetto
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