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Perfect days: anche i giorni perfetti hanno un’ombra

Dice Marion, la trapezista de Il cielo sopra Berlino, di cui si innamora senza speranza l’angelo Damiel:  “Non sono mai stata solitària: né da sola con qualcun altro. Ma mi sarebbe piaciuto, in fondo, essere solitaria. Solitudine significa: finalmente sono tutto..”. Ho visto due volte in 4 giorni Perfect Day, l’ultimo film di Wim Wenders, e tornerò a vederlo, come capita quando ti accorgi di essere di fronte a un capolavoro, che vorresti capire più a fondo, che continua a interrogarti.
Un film, com’è noto, nato quasi per caso. Al grande regista tedesco, da sempre innamorato della cultura giapponese (Tokyo-Ga, il documentario dedicato al regista Yasujirō Ozu è del 1985), era stato commissionato un docufilm per “raccontare” e celebrare gli splendidi e fantasiosi bagni pubblici realizzati da alcuni famosi architetti in un quartiere residenziale di Tokio. Da qui, in sole tre settimane di riprese, è miracolosamente uscito Perfect Day, un film perfetto appunto, di una precisione assoluta, un ritmo circolare, una fotografia intensa, e con al centro una grande prova d’attore, Kōji Yakusho, nel film Hirayama.

Il pulitore di bagni pubblici Hirayama, proprio come la trapezista Marion, sceglie di vivere solo. É una scelta esistenziale, o come giustamente la definisce Giuseppe Ferrara su queste stesse colonne [Vedi qui], una scelta filosofica, che non spiega, ma di cui nel film ci sono chiari segni: “Un’altra volta è un’altra volta, questa volta è questa volta” ripete (e insegna) alla nipote, apparsa all’improvviso, che vorrebbe raggiungere il mare in bicicletta.
Vive da solo Hirayama, in un misero locale di periferia, infilato in una umile routine quotidiana, ma non è un uomo solo. E non solo perché da un’altra vita (di quale vita si tratti si intuisce solo verso la fine del film) si è portato i suoi libri e le sue vecchie cassette degli anni ’70, ma soprattutto perché quella sua nuova vita lui se l’è scelta.

La scelta di cambiare vita lascia sempre un’ombra dietro di sé – ci sono tante ombre in  Perfect days, nella veglia come nei sogni – significa infatti abbandonare la vecchia vita, luoghi, persone, affetti.  Nella nostra ex vita rimangono gli orfani, gli abbandonati. Così, quando la sorella di Hirayama va a riprendersi la figlia che ha fatto una scappatella per andare a vedere dove era finito lo zio, scende da una lussuosa Mercedes e gli dice che il padre “non è più lui”, un implicito invito a tornare indietro, al vecchio mondo, ad una vita che si presume agiata e privilegiata. Un altro abbandonato è il marito della cantante: a lui Hirayama propone un gioco infantile: ancora ombre che si sovrappongono, senza che una possa mai catturare o annullare l’altra.

Il sociologo Franco Cassano, in Partita doppia (Bologna, il Mulino, 1993) scrive proprio dell’ombra che accompagna ogni scelta di cambiare strada, pone cioè attenzione non a chi abbandona, ma a chi di quell’abbandono è vittima. E prende in esame per primo un caso esemplare, paradigmatico, quello della “chiamata” di San Francesco, della scelta di povertà, del momento esatto del distacco, così come viene rappresentato da Giotto per ben due volte nel ciclo della Basilica Superiore. “Nell’affresco di Assisi – scrive Cassano – dal cielo si affaccia una mano che da lassù attira gli occhi e l’anima di Francesco. Sul lato sinistro, al di là del baratro che ormai lo separa dal figlio, c’è Bernardone che tiene sul braccio sinistro i vestiti che Francesco ha lasciato cadere e che, nell’affresco più tardo tenta in modo ancora più drammatico di afferrare il figlio, di non farlo andar via“. 

Lo sappiamo bene, la sequela sarà per Francesco un cammino complicato, non privo di momenti di crisi e di buio interiore, ma quella è pur sempre la strada che ha deciso di percorrere, la nuova vita che ha scelto lui stesso di imboccare. Ma ecco che, dietro la sua grande luce, c’è un’ombra che fatichiamo a vedere. Bernardone e Donna Pica sono le vittime di quel distacco, volevano che il loro Francesco, quel figlio strambo ma amatissimo, rimanesse con loro.

Se quindi vogliamo trovare il significato del film – ma trattandosi di un intellettuale europeo come Wenders dovremo parlare di “uno dei significati” – dovremo aggiungerne uno, un argomento nascosto, che, così almeno ho inteso, lo stesso Wenders ha voluto coprire con un’ombra.

Hirayama, l’eroe saggio e gentile, è sempre in primo piano. Lo seguiamo momento per momento nelle sue giornate tutte uguali, il suo lavoro umile e perfetto, i brevi incontri, quando ripone il libro e spegne la abat jour e quando si sveglia alla luce dell’alba per ricominciare da capo. È un uomo visibilmente sereno Hirayama, parla poco, guarda, sorride. È la stessa vita a sorridergli. Perché è ridotta all’essenziale, si è liberata di pesi, orpelli, obblighi sociali, ma soprattutto, perché è esattamente la vita che ha scelto di vivere. In fondo Hirayama è un privilegiato: molti, quasi tutti gli altri, la vita non possono o non riescono a scegliersela.

Vicino, o appena più lontano, appena accennate in qualche inquadratura, nascoste da un’ombra, ci sono le vittime di Hirayama, le persone che ha lasciato nell’altra vita. Per loro, anche un ieratico pulitore di toilette, non potrà soffocare il pianto.

Cover: sequenza daPerfect days”

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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