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7 Ottobre: prima e dopo. “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

articolo originale su pressenza del 6 ottobre 2024

“Dove fanno il deserto, lo chiamano pace” Publio Cornelio Tacito

Il 7 ottobre è l’anniversario dell’attacco delle milizie palestinesi ai kibbutz israeliani nel Negev. Il 7 ottobre 2023 ha rappresentato la prima aggressione all’interno del territorio di Israele dalla guerra arabo-israeliana del 1948.

L’intervento delle milizie palestinesi è avvenuto durante la festa ebraica della Simchat Torah e lo Shabbat, e anche nel cinquantesimo anniversario della guerra del Kippur fra Egitto e Israele, anch’essa iniziata con un attacco a sorpresa nel Sinai occupato.

Subito dopo l’assalto, il comandante delle Brigate al-Qassam, Mohammed Deif, ha dichiarato che l’operazione militare palestinese, denominata Operazione Alluvione Al-Aqsa, costituiva la risposta alla “profanazione della moschea di Al-Aqsa” e all’uccisione e al ferimento di centinaia di palestinesi da parte di Israele durate tutto il 2023.

L’operazione militare palestinese, condotta dalle brigate militari di Hamas, della Jihād Islamica, del Fronte democratico e del Fronte Popolare, e la successiva reazione di Tsáhal (l’esercito israeliano) ha prodotto almeno 1200 morti fra militari e civili israeliani e il sequestro di più di cento cittadini israeliani.

La reazione del Governo sionista ultraconservatore a guida Netanyahu non si è fatta attendere ed è stata di una violenza inaudita e sproporzionata, causando la distruzione quasi totale delle città della striscia di Gaza (dove vivono due milioni e centomila palestinesi), senza risparmiare moschee, scuole, ospedali, sedi dell’ONU, campi profughi, e provocando la morte accertata di più di 40.000 civili.

La stessa strategia la stiamo osservando in questi giorni anche contro la popolazione libanese che subisce quotidianamente massicci bombardamenti che mietono centinaia di vittime civili.

Una strategia chiara ed inequivocabile: fare deserto, distruggere tutte le infrastrutture civili, costringere la popolazione palestinese ad abbandonare la propria terra. Strategia già perseguita tante volte e in tante parti di quella martoriata terra mediorientale.

Lungi da me voler giustificare la strage di civili del 7 ottobre 2023, ma questa non può assolutamente giustificare la condotta criminale dell’esercito israeliano.

Una storia lunga un secolo

Il 7 ottobre, del resto, non è l’inizio della storia, è solo una tappa: tutto comincia da molto lontano, da più di un secolo fa.
La stessa creazione del Medio Oriente come lo vediamo oggi è la causa evidente di un secolo di conflitti che hanno reso quella regione uno dei posti più pericolosi del Pianeta.

Dobbiamo riandare al 1916, quando i diplomatici dell’Impero Britannico Mark Sykes e della Repubblica di Francia François Marie Picot con un righello tracciarono confini, fino ad allora inesistenti, dividendo l’Impero Ottomano, e quella che per secoli era stata un’unica regione e luogo d’incontro di genti differenti, in zone d’influenza delle potenze coloniali europee, zone che successivamente sarebbero state elette a stati-nazione e governate in modo dispotico da monarchie o dittature assoggettate ai vari imperialismi.

Tracciando linee col righello, su forte pressione britannica, fu disegnata la Palestina, terra da assegnare all’immigrazione ebraica, indicata come “terra senza un popolo, per un popolo senza terra”.

L’immigrazione ebraica in Palestina, favorita dal governo britannico e dal movimento sionista, diventò fenomeno di massa nel secondo dopoguerra anche a causa l’olocausto per mano nazifascista.

Questa invasione portò allo scontro violento fra le popolazioni palestinesi stanziali e i nuovi coloni ebrei. L’intervento della neonata ONU partorì il Piano di partizione della Palestina (Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale ONU) che prevedeva la divisione del territorio palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.

Cartina Piano di partizione della Palestina 1947 – foto Wikipedia

Lo Stato ebraico proposto era più ampio di quello arabo (ammontava al 56% del territorio complessivo) e comprendeva la maggior parte delle zone più fertili per l’agricoltura, l’arido deserto del Negev, e l’accesso esclusivo al Mar Rosso e al lago di Tiberiade. La parte essenziale delle terre costiere coltivabili sarebbero peraltro state di sua pertinenza. In totale sarebbero stati assegnati così alla comunità ebraica, circa il 55% del territorio totale, l’80% dei terreni cerealicoli e il 40% dell’industria della Palestina.

Agli ebrei sarebbe stata assegnata la parte più sviluppata economicamente, che comprendeva quasi del tutto le zone di produzione degli agrumi.
Nonostante ciò, la destra sionista giudicò inaccettabile la divisione e il comandante dell’Irgun (futuro primo ministro di Israele) ’immigrazione ebraica in Palestina dichiarò: «La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre.»

Al momento del Piano di partizione della Palestina dell’ONU, la popolazione totale della Palestina era composta per due terzi circa da arabi e per un terzo da ebrei. Su un totale di 1.845.000 abitanti, il 67% (1.237,000) era composto da cittadini arabi e il 33% da coloni di religione ebraica (608.000).

Questo Piano totalmente iniquo scatenò la prima guerra arabo-israeliana del 1948, guerra vinta dal neonato stato d’Israele, che con la Conferenza di Losanna del 1949 accrebbe ulteriormente la sua estensione dal 55% al 78% dell’intera Palestina, anche se tale estensione allora fu accettata solo in modo provvisorio.

Foto NOMAD PUBLISHING

Con la vittoria israeliana si generò l’esodo forzato della popolazione araba palestinese. I palestinesi chiamano Nakba (la catastrofe) questo dolorosissimo evento. Durante tale conflitto, più di 700.000 arabi palestinesi furono espulsi da città e villaggi e, successivamente, si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre.
I rifugiati palestinesi e i loro discendenti nel 2015 sono stati censiti dall’ONU in 5.149.742 individui, distribuiti in Giordania, Striscia di Gaza, Cisgiordania, Siria e Libano.

Oggi il governo sionista di Israele sta usando lo sdegno generato dall’attacco del 7 ottobre 2023 per portare a termine il progetto della Grande Israele, dal fiume al mare, ripulito dalla ingombrante presenza palestinese.

L’estensione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, la distruzione totale delle città della striscia di Gaza, la pressione violenta sul Libano, ma anche sulla Siria (ricordiamo che Israele occupa le alture del Golan siriano dal 1967) sono il preludio dell’allargamento dei confini dello Stato sionista che vede nella possibile elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti un grande viatico per la realizzazione del progetto d’espansione territoriale e di pulizia etnica.

Al criminale piano sionista si contrappongono le tendenze più retrive dell’integralismo islamico che, cavalcando la comprensibilissima rabbia dei palestinesi per i crimini subiti da Israele e la loro legittima aspirazione a vivere in pace in una terra libera dall’apartheid e dal terrore, spingono nel radicalizzare in senso religioso il conflitto arabo/israeliano contrapponendo allo stato sionista un futuro stato islamista.

Una soluzione possibile al delirio nazionalista e integralista religioso che impregna ambedue le parti israeliana e palestinese è l’unità dei popoli di quella terra per la costruzione di una società laica, multietnica e multireligiosa.

Prospettiva che oggi appare lontana, ma che a mio avviso rimane l’unica perseguibile, guardando anche con attenzione l’esperimento che si sta realizzando in Siria del Nord dove diverse etnie, diverse tendenze religiose, convivono e cooperano nella costruzione di una nuova società basata sul Confederalismo Democratico e dove le popolazioni curde (anche esse penalizzate e private di un proprio territorio dal piano Sykes-Picot del 1916) costituiscono un forte collante e l’elemento propulsivo e vitale di quel progetto.

Renato Franzitta
Attivista politico e sindacale sin dai primi anni del liceo nei movimenti studenteschi, giovanili e di quartiere. Protagonista del movimento del ‘77 e dell’IMAC (international meeting against Cruise) di Comiso. Fa parte sin dalla fondazione dell’Esecutivo Nazionale della Confederazione COBAS. Attualmente impegnato nel movimento NoGuerra, è animatore e coordinatore politico-culturale del Laboratorio “Andrea. Ballarò” di Palermo.

 

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