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Ferrara film corto festival

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La “nuova” Europa, tra voglia di socialismo e rischio di barbarie

Come ormai solito, la grande parte dei media mainstream ha raccontato la rielezione di Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione Europea in modo superficiale e politicista. Quello che è stato veicolato, sostanzialmente, sono state le alleanze politiche che l’hanno resa possibile  (popolari, socialdemocratici, liberali e verdi) e quelle che l’hanno osteggiata (le varie destre e il gruppo della sinistra), soffermandosi, in particolare qui da noi, sui tentennamenti da parte della Meloni nella scelta e sul “duello” tra la stessa e Salvini, per verificare chi ha l’effettiva egemonia nel diversificato schieramento di destra.

Vale la pena, invece, andare un po’ più a fondo e chiedersi qual è il profilo che emerge e che viene proposto per l’Europa dei prossimi anni. Da questo punto di vista, la lettura critica dei testi originali, il discorso tenuto davanti al Parlamento europeo  e gli Orientamenti politici per la Commissione Europea 2024-2029 ci forniscono, come sempre, qualche elemento illuminante.

In essi viene evidenziato in modo sufficientemente chiaro che esiste, da una parte, una continuità su alcuni punti fondamentali delle politiche dell’UEin particolare per quanto riguarda la scelta prioritaria di mettere al centro il dato della competitività del sistema economico, fondato sul mercato e visto come leva centrale per costruire la “prosperità” – e, dall’altra, una sorta di discontinuità, che però avevamo già visto all’opera negli ultimi 2 anni, in particolare per quanto riguarda i temi della difesa e della sicurezza, dell’immigrazione e delle politiche ambientali. Sulla difesa e la sicurezza, c’è il segno profondo della guerra che ritorna ad essere fattore permanente nei rapporti tra gli Stati, con un’enfasi decisamente fuori luogo sulla vicenda ucraina (negli Orientamenti politici per il 2024-2029 si legge, ad un certo punto che “il migliore investimento nella sicurezza europea è investire nella sicurezza dell’Ucraina”), abbracciando totalmente l’orizzonte di costruire una reale Unione europea della difesa, supportata da un incremento forte della spesa e degli investimenti nell’industria bellica. Sulle politiche relative all’immigrazione, si riprende la stretta compiuta negli ultimi anni con l’idea di promuovere la “Fortezza Europa”, rendendo le frontiere comuni più forti e sviluppando gli accordi con i Paesi terzi ( vedi Libia e Tunisia), in particolare con quelli di origine e transito dell’immigrazione, ben poco attenti ai diritti umani. Sulle politiche ambientali, checchè ne dica il gruppo dei Verdi, si registra un significativo allentamento del “Green New Deal”, sostituito dall’ “Industrial Clean deal”, commisurato all’idea di metter da parte il vecchio approccio, giudicato “ideologico” e iper-regolatorio e, invece, ora, basato sulle “opportunità” che si possono costruire per la manifattura europea.

In quest’orizzonte, peraltro, non trovano posto, se non in qualche passaggio marginale, due grandi questioni. Il fatto di eluderle fa sì che quella narrativa, sbagliata e non condivisibile nei suoi obiettivi, nel momento in cui si assumono mercato, guerra e contrasto all’immigrazione come stelle polari del proprio agire, alla fine risulti persino inefficace e non realizzabile. La prima questione è relativa ai nuovi equilibri economici e politici che si stanno costruendo nel mondo, a partire dalla guerra commerciale (solo così, fino a quando?) tra USA e Cina, dal nuovo e importante ruolo dei Paesi cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che, di fatto, stanno mettendo in discussione l’egemonia americana che dura dalla metà del secolo scorso, compresa la supremazia del dollaro come unica moneta mondiale. Una situazione nella quale, in particolare USA e Cina, stanno investendo risorse molto consistenti per sostenere e innovare la propria base produttiva, mentre l’Europa appare sostanzialmente ferma alla declamazione, nel momento in cui, dopo l’emergenza pandemica, ha abbandonato la strada di procedere all’emissione di debito comune (che forse potrà essere riesumata solo per l’industria della difesa), sotto la spinta dei nazionalismi che si sono rafforzati al suo interno. Alla fine, così facendo, rendendosi subalterna agli Stati Uniti.

La seconda questione rilevante, che viene “curiosamente” omessa nei documenti cui ho fatto riferimento, e che aggrava ulteriormente il tema della scarsità di risorse che l’UE sarà in grado di mobilitare, è relativa al nuovo Patto di stabilità e crescita dell’UE approvato alcuni mesi fa e che porterà ad una nuova stagione di politiche di “austerità” nei prossimi anni per i vari Paesi membri. Sebbene più lasco di quello precedente, accantonato solo temporaneamente nella fase pandemica, esso comunque prevede, per quanto riguarda il debito pubblico, che esso vada ridotto in media dell’1 % all’anno se il debito è superiore al 90% del PIL, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%. Per quanto riguarda il deficit pubblico, esso dovrà diminuire almeno dello 0,5% annuo fino a quando non si rientrerà al di sotto della soglia del 3% (oggi l’Italia è al 7,4%). Ciò significa, per il nostro Paese, intervenire con tagli di circa 10-12 mld. di € l’anno per i prossimi anni, che si realizzeranno attraverso la riduzione della spesa corrente.

Insomma, ci troviamo di fronte ad un’Europa che ha perso se stessa: non più intenzionata a riproporre il “modello sociale” su cui si era progressivamente costruita dal secondo dopoguerra, basata sull’affermazione della pace e sulla lotta alle disuguaglianze, che ha sostituito con l’idea dell’ineluttabilità della guerra e la centralità del mercato; nello stesso tempo, incapace di misurarsi alla pari con le grandi potenze del mondo, USA e Cina in primis, e debole, nel momento in cui, per diverse ragioni, viene meno l’asse franco-tedesco che ne ha sempre costituito l’ossatura di governo, e cresce la forza dei nazionalismi, in misura proporzionale all’allargamento della stessa UE.

Eppure, questo non è un quadro inevitabile né immutabile. Ci sono forze ed energie per provare a metterlo in discussione, a condizione di ridare voce ai movimenti e ai soggetti politici che si battono per la pace e l’uguaglianza sociale. Ce lo dicono le vicende francesi dei giorni passati, dove, da una parte, la straordinaria vittoria del Fronte Popolare è stata sì prodotta dalla volontà di arginare la destra, ma, dall’altra, essa poggia anche su un programma, voluto in primo luogo da France Insoumise, il partito di Melenchon, che si caratterizza come molto avanzato per le politiche sociali e l’intervento pubblico. Che non a caso i potentati economico-sociali vorrebbero eliminare, ricorrendo anche a campagne false e strumentali (una per tutte l’accusa di antisemitismo nei confronti di Melenchon, solo perché strenuo difensore della causa palestinese, come a suo tempo si fece con Corbyn, ex leader di un partito laburista allora spostato su posizioni radicali). Ma tutto ciò non può occultare che la partita, quella vera, in Europa e in Francia, nel medio periodo si giocherà tra una destra reazionaria e neofascista e una sinistra rinnovata e radicale nei contenuti. Un’Europa senza testa e senz’anima, come quella prefigurata con il secondo mandato alla von der Leyen, potrà allungare i tempi del suo declino e di quello delle politiche neocentriste ( e di centro-sinistra), ma non è in grado di evitarlo. In questi tempi difficili, per usare una celebre metafora, si ripropone l’alternativa tra “socialismo o barbarie”: occorre esserne consapevoli e lavorare conseguentemente.

 

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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