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Ferrara film corto festival

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Questa Europa spiegata semplice

L’idea di una Europa unita e “polo” di pace nel mondo è nata durante la catastrofe della seconda guerra mondiale a Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Un’idea grandiosa che si è realizzata inizialmente (1951) con il Trattato di Parigi avviando un piccolo mercato comune della CECA (carbone e acciaio) tra 6 paesi (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo), essendo risorse strategiche per l’industria e la guerra e gestirle insieme (provenivano dalla Rhur e dall’Alsazia) avrebbe prevenuto altre guerre.

Crollata l’URSS si avvia nel 1992 l’Unione Europea col Trattato di Maastricht che vedrà poi un grande sviluppo nel 2001 con la nascita di una moneta comune (euro) tra 15 Paesi. L’Unione Europea, nata col beneplacito degli Stati Uniti (e con dentro la Gran Bretagna dal 2013) sale fino a 28 paesi. Come però ha scritto Lucio Caracciolo su La Repubblica del 7 luglio “il postulato su cui dalla 2^ guerra mondiale si orientano gli strateghi verte sulla necessità di impedire che in Eurasia nasca una contropotenza capace di sfidare il primato a stelle e strisce. Occorre stroncare ogni velleità di intesa visibile o sotterranea fra russi e tedeschi. Dalla fine del secolo scorso la catena ha aggiunto il terzo anello, quello cinese. Un’intesa Berlino-Mosca-Pechino sarebbe una versione aggiornata e assai più minacciosa dell’asse Roma-Berlino-Tokyo…un obiettivo che nella guerra in Ucraina Biden ha già raggiunto col sabotaggio del gasdotto baltico Nord Stream che connetteva l’energia a basso prezzo russa alla Germania”.

Dunque l’Europa è nata puntando tutto sull’economia (liberista): moneta unica e libertà dei mercati, non potendo contare sulla “Politica” e una propria autonomia.

All’inizio ha funzionato anche perché stare in un mercato più grande porta (teoricamente) vantaggi economici a tutti i partecipanti se ciascuno si specializza nelle cose che sa fare meglio e le esporta nel mercato unico (più grande) europeo. Ma se il libero mercato è abile a far crescere la “torta”, poi la divide in modo diseguale, per cui se non c’è una “Politica” che mitiga i “fallimenti del mercato” (per usare l’eufemismo degli economisti liberisti), le conseguenze sono quelle che abbiamo oggi dove 2/3 dei cittadini ci hanno perso e 1/3 ci hanno guadagnato. E così dicasi per i territori, con periferie e campagne marginalizzate, che votano le opposizioni: Le Pen in Francia, Labour in UK (dopo 14 anni di Conservatori), Meloni in Italia (unico partito all’opposizione da 20 anni).

Un’Europa con un ampio mercato unico interessava molto anche agli Stati Uniti, che hanno avviato nel 1999 una nuova fase della globalizzazione all’insegna della deregolamentazione finanziaria. Tanto più se è un mero mercato senza “Politica e Autonomia”, in modo da estendere l’impero e la “pax atlantica americana” inaugurata nel secolo scorso.

Il “traino” viene dal libero mercato (business as usual) favorendo in particolare le grandi imprese, multinazionali e la finanza anglosassone che esportano senza passare dalle singole normative dei 27 Paesi e avvantaggiarsi di una globalizzazione in cui più si è grandi, più si ha potere di mercato, mentre l’Europa è bloccata dalle sue misure antitrust (a tutela del mercato interno e delle singole nazioni) che impediscono la creazione di quei campioni europei capaci di sfidare americani (e oggi anche cinesi). Una situazione ideale per gli americani per acquisire le migliori aziende europee. E ciò spiega l’enorme aumento di patrimoni e redditi degli Stati Uniti negli ultimi 20 anni, rispetto per esempio all’Italia, anche se è stato sequestrato dai ricchi di entrambi i paesi. Lo dice oggi anche Mario Draghi nel suo rapporto “economico”, che ora tutti plaudono, senza rendersi conto che l’Europa ha bisogno non tanto di “più economia e finanza”, ma di “più Politica”, che significa prima di tutto fermarsi nell’allargamento ed Unirsi davvero prima che sia troppo tardi, e tantomeno includere la Gran Bretagna o i 9 paesi dei Balcani “un luogo in cui si produce più storia di quella che si consuma in loco e perciò la si esporta” (Churchill).

Fino al 2008 l’Europa cresceva come redditi, occupati, pil, i mercati si integravano, l’euro si apprezzava sul dollaro (da 1.1 a 1:1,5). Segnali pericolosi per gli Stati Uniti che si chiedono se questo nuovo potenziale colosso economico di nome Europa (che ha i piedi politici di argilla) non si sia montato la testa. Ci penseranno i derivati sub prime made in Usa nel 2008, frutto avvelenato della nuova finanza deregolamentata e speculativa ad azzopparla. La recessione dura  anni e ridimensiona l’Euro salito troppo sul Dollaro.

Intanto l’Europa liberista (euro+mercati-welfare) e atlantica (a guida Usa) ci mette del suo e fa 5 gravi errori:

1 ) non avvia alcun processo per essere una vera superpotenza politica autonoma e un “polo” di pace, che implica una propria politica estera e una propria difesa, anche perché (diciamolo) gli Stati Uniti non vogliono;

2 ) allarga ulteriormente il suo mercato unico dal 2004 ai Paesi dell’Est (100 milioni di lavoratori), creando enormi complicazioni nel raggiungere accordi politici, favorendo però la globalizzazione e le imprese americane e accentuando le disuguaglianze territoriali a svantaggio dei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma anche Francia, Gran Bretagna e Germania non sono immuni) e a vantaggio dei paesi dell’Est;

3 ) pensa che il solo liberismo (euro+libero mercato) possa risolvere i problemi di equità e delle fasce deboli e invece scopre che l’americanismo liberista applicato all’Europa, senza un welfare comune e senza politiche di compensazione di chi “rimane indietro”, produce una “rabbia” crescente che alimenta non le sinistre (scomparse nel nome della stabilità) ma le destre (spesso all’opposizione) e il populismo che soffia sul fuoco dell’immigrazione, dell’impoverimento dei ceti più deboli, degli operai abbandonati dalle sinistre che dovendo essere “mature” e democratiche, devono essere moderate. Il fatto è che anche il ceto medio e i territori periferici entrano in crisi. Solo ricchi e benestanti (1/3 della popolazione) si avvantaggiano di questo modello;

4 ) non fa regole finanziarie autonome per cui subisce i danni dei sub-prime made in Usa che la portano in recessione dal 2008 fino al 2014;

5 ) non aveva messo in conto che prima o poi l’espansione americana ad est della Nato, per rompere ogni possibile alleanza tedesco-russa, avrebbe prodotto l’invasione dell’Ucraina e una saldatura della Russia col vero nemico: la Cina. Così, stretti nella morsa di tale conflitto, anziché porci come un “polo di pace nel mondo”, avremmo dovuto scegliere l’alleato USA, rinunciando a tutti i vantaggi di un ruolo autonomo e di pace dell’Europa (seppure armato per conto proprio) capace di mediare tra Usa e Cina e di trarre vantaggi dalla cooperazione multilaterale (che comunque prima o poi avverrà). Il che non significava schierarsi con Cina e Russia (o Brics) che sono Stati autoritari, ma favorire quegli accordi mondiali sui temi globali su cui c’è interesse comune (commercio, clima, disarmo,…), che avrebbero portato vantaggi a tutto il mondo ma soprattutto all’Europa. La via che si segue invece è quella di soffiare sul fuoco di un conflitto USA-Cina che già porta svantaggi per tutti (e all’Europa in particolare e all’Italia nello specifico).

Come scrive Mauro Magatti sul Corriere della sera del 25 giugno : “C’é un modello economico che ormai da molti anni non riesce più a integrare i gruppi sociali e i territori. Le differenze di reddito tra chi ha visto migliorare la propria situazione e chi invece l’ha vista peggiorare sono sempre più ampie. Così come si amplificano i divari territoriali: ci sono intere aree che si sentono abbandonate e sempre più lontane dai centri dello sviluppo…non solo si va sgretolando il ceto medio, ma si disgregano anche i territori e le culture…la politica non sembra avere più l’autorità sufficiente per prendere le decisioni necessarie…in questo clima cresce la sfiducia e il populismo”. E astensionismo e volatilità dei voti alla ricerca di una soluzione che non arriva mai. Un’analisi che si può estendere anche a Francia e Gran Bretagna (e presto a Germania) e che spiega perché gli elettori cercano di cambiare i Governi in carica.

Oggi, in questo contesto ci sono 3 possibilità per l’Europa:

1 ) ritornare a dare sovranità agli Stati Nazionali;

2 ) continuare con piccoli cambiamenti (i “piccoli passi” della von der Leyen);

3 ) rilanciare l’Europa dei fondatori, cioè federale, con un bilancio comune di almeno 10% del Pil (oggi è 2%) e con misure rilevanti di Green Deal (ma con risorse reali aggiuntive), rilanciare un welfare comune per integrare i gruppi sociali e i territori che vengono esclusi dalla prosperità diseguale che genera lo stesso Green Deal, il libero mercato, facendo domande agli Stati Uniti e prendendo le distanze in modo che siano rispettati anche i nostri interessi di lungo periodo (e non solo i loro).

La prima via è stata sperimentata dalla Gran Bretagna con la Brexit nel 2019. Il risultato è stato negativo in quanto alle famose promesse di grandi benefici non c’è stato seguito, nonostante la Gran Bretagna avesse risorse (finanziarie, una propria moneta, relazioni internazionali) che nessun paese in Europa ha. Ci sono stati invece seri problemi alle dogane con la necessità di assumere 100mila impiegati pubblici che sono un costo supplementare. Ha pesato anche l’alta inflazione e la spesa nel settore militare (2,5% difesa sul Pil) per via della guerra in Ucraina (politiche che il Labour non cambierà) e di conseguenza poco arriva ai cittadini in termini di migliori servizi e le case e gli affitti nelle città (con le disuguaglianze anche territoriali) hanno prezzi alle stelle. Il Labour promette 300mila case pubbliche all’anno, un’agenzia nazionale pubblica sull’energia che faccia scendere le bollette, di sistemare la sanità e nazionalizzare i treni dopo la privatizzazione della Thatcher. All’immigrazione di tipo europeo è subentrata quella dai paesi del Commonwealth, ma è sempre esplosiva al punto che UK è cresciuta negli ultimi 4 anni di un milione di abitanti. Sta di fatto che i sondaggi dicono che se si votasse oggi la Brexit non si farebbe più (dal 51,6% con cui vinse, i favorevoli sono scesi al 45%). Ciò che ha travolto i Tory, insieme alle bugie sui benefici mai visti della Brexit, è l’enorme immigrazione e la mala sanità, così dopo 14 anni gli inglesi vogliono cambiare. In conclusione uscire dall’Europa non sembra vantaggioso.

La seconda via sarà quella che verrà intrapresa (i piccoli passi) dall’attuale maggioranza “Ursula”, che non solo non cambierà le tendenze in atto, ma porterà ad una ulteriore crescita delle destre e dei movimenti anti Europa e anti-immigrazione (come avvenuto in Italia, Francia, GB e Germania), in quanto crescerà lo scontento generato dalle politiche di austerity (che ora riprendono) nel segno del liberismo. La Strategic Agenda Europea dei prossimi 5 anni è peggiorata. 5 anni fa si diceva: “Costruire un’Europa climaticamente neutrale, verde, equa e sociale” con un rimando all’attuazione del pilastro dei diritti sociali, sia a livello centrale sia negli Stati membri”.
Oggi il preambolo dell’Agenda uscito prima delle elezioni a Grenada identifica ben altre priorità: “Sicurezza e difesa, resilienza e competitività, energia e migrazioni”. A riprova che la destra aveva condizionato la linea ancor prima del voto europeo. In sostanza si passa da un Piano ecologico (Green Deal), da un piano sociale e da un debito comune a un Patto di austerità e a scorporare dai deficit nazionali solo le spese in aumento militari e nessun debito comune. Per l’Italia significa un taglio di spesa pubblica di 13 miliardi all’anno fino al 2032 per non far crescere il debito pubblico. Lo stesso Green Deal è a rischio in quanto non si sa dove siano i 500 miliardi annui aggiuntivi che la stessa Commissione indica necessari per finanziarlo. Un ulteriore disastro per i nostri salari e occupati arriverà dall’ingresso dei 9 paesi Balcani “low cost”. Avremo così un’Europa ancora più extralarge dedita più alla guerra che al Welfare.

Rimane una terza via che però l’attuale maggioranza non vuole percorrere sia perché è fortemente atlantista, sia perché non si vogliono toccare i “fondamentali” (liberi mercati, rendite finanziarie, evasione ed elusione fiscale, le poche imposte sui ricchi, l’austerità) e tantomeno trovare le risorse per finanziare il Green Deal, un Welfare Europeo minimo comune, mitigare le disuguaglianze crescenti che genera il libero mercato e il Green Deal che produrrà molti esclusi.
La logica del “dio quattrino” senza veri leader politici, che è il vero valore che traina l’Occidente, non sarà capace di toglierci dai guai, al di là dei nostri miti narrativi ad uso interno e di consenso (libertà, democrazia, diritti formali, eguaglianza, inclusione, welfare) che pure ci sono ancora (anche se sempre meno) e che fanno dell’Europa il luogo migliore ancora dove vivere. La “marea nera” crescerà ancor più in Francia e in UK con Farage (già salito dal 2% al 14%), se gli effetti dei “piccoli passi” di Starmer non saranno in grado di ridurre il malcontento diffuso.

Uno scossone potrebbe avvenire dall’elezione di Trump in Usa. L’uomo d’affari, fuori dagli schemi, potrebbe portare novità inaspettate tra cui interrompere le guerre (lo ha già fatto con l’Afghanistan), abbandonare l’ideologia americana di controllare tutto il mondo (e quindi continuare a fare guerre, peraltro, perdendole). Un’America più concentrata su se stessa, potrebbe essere un bene per il mondo e costringere l’Europa, ad avviare nuovi processi di cooperazione e multilateralismo, facendola diventare adulta e autonoma, con una propria difesa (che non significa più spesa militare ma una sua ottimizzazione) e una propria politica estera.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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