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Ferrara film corto festival

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Presto di mattina. Dare all’inaudito la forma bella della parola

Una spina nel cuore

La letteratura, e con essa la poesia, è un mondo aperto: è tutta una pupilla sull’aperto; è pure un movimento nel profondo: va seminando parole primigenie nell’attesa che portino frutto a suo tempo e in ogni tempo: parole per tutte le stagioni della vita, per ricreare nel vivere le immagini del vissuto, per far affiorarne e maturare il senso attraverso significati d’altri.

La letteratura, direbbe Bachelard, «è una forza di sintesi che tiene insieme gli esseri» e con la parola, che è il suo respiro, li fa eguali: cercatori di come la vita nell’intimo mai c’immaginiamo essere.

È voce a ciò che è inaudito e inascoltato. La letteratura è fioritura del silenzio, perché essa dà all’indicibile e al non detto la forma bella della parola. Il luogo della parola è la soglia e la frontiera.

Lo sconfinamento della parola è allora vitale e generativo del continuo sconfinamento della letteratura nel tempo. Per entrambe, questo confinamento è viaggio di viandanti sotto lo sguardo di Abramo e di Ulisse. Questo comporta un vivere sempre oltre nel trascendimento dell’umano e del proprio ambiente e nella trascendenza sconfinata del suo spirito.

Scrive papa Francesco: «Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino.

La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte. A partire da questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune considerazioni sull’importanza del vostro servizio». (Papa Francesco, al Convegno promosso da La Civiltà Cattolica con la Georgetown University sul tema L’estetica globale dell’immaginazione cattolica, 27 maggio 2023).

Cambio di passo

Si comprende allora perché, dopo appena un anno, sia tornato con una lettera a proporre «un cambio di passo» nella formazione non solo dei presbiteri, ma di coloro che hanno un ministero nella chiesa per rimarcare la grande attenzione che, nel contesto della formazione si deve prestare alla letteratura, poiché «l’attenzione alla letteratura non trova al momento un’adeguata collocazione nella formazione» (Sul ruolo della letteratura nella formazione, 7 luglio 2024).

Come la letteratura anche la formazione è apertura sul mondo, anzi esercizio e pratica di sconfinamento infinito, luogo per far esperienza del già e non ancora della vita.

«La letteratura aiuta il lettore ad infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali, che a volte rischiano di inquinare anche il nostro discorso ecclesiale, imprigionando la libertà della Parola.

Quella letteraria è una parola che mette in moto il linguaggio, lo libera e lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative, lo rende ospitale per la Parola che prende casa nella parola umana, non quando essa si auto comprende come sapere già pieno, definitivo e compiuto, ma quando essa si fa vigilia di ascolto e attesa di Colui che viene per fare nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5)» (ivi, n. 42).

 Non solo spina nel cuore, ma viatico: pane in via

Viatico, pane per il viandante è la letteratura. Papa Francesco aveva già ricordato al convegno sull’estetica nel 2023 che l’arte «è una sfida al nostro immaginario, rimedio all’uniformità», ricordando che «il vangelo stesso da considerarsi una sfida artistica, con una carica “rivoluzionaria” e va trasmesso e testimoniato anche con “un linguaggio creativo” e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti».

Ora in questa lettera Francesco riporta il pensiero di un padre della Chiesa del IV secolo Basilio di Cesarea che aveva compiuto la sua formazione classica ad Atene insieme all’amico Gregorio Nazianzeno. Scrivendo ai giovani egli «esaltava la preziosità della letteratura classica – prodotta dagli éxothen (“quelli di fuori”), come lui chiamava gli autori pagani – sia per l’argomentare, cioè per i lógoi (“discorsi”) da usare nella teologia e nell’esegesi, sia per la stessa testimonianza nella vita, ossia per le práxeis (“gli atti, i comportamenti”) da tenere in considerazione nell’ascetica e nella morale.

E concludeva spingendo i giovani cristiani a considerare i classici un ephódion (“viatico”) per la loro istruzione e formazione, ricavandone “profitto per l’anima” (IV, 8-9). Ed è proprio da quell’incontro dell’evento cristiano con la cultura dell’epoca che è venuta fuori un’originale rielaborazione dell’annuncio evangelico» (ivi, n. 11).

Genziana: parola primaticcia per dire l’inedito e l’inaudito

Anche il viandante dal pendio della cresta del monte
non porta a valle una manciata di terra,
terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,
pura, la gialla e azzurrina genziana.
Siamo forse qui per dire solo: casa
ponte, fontana, porta, mandorlo,
brocca, finestra,
o, al più, colonna, torre… oppure per dire, intendilo,
sì per dire come le cose nell’intimo
mai s’immaginarono d’essere…
… così
che ogni cosa s’incanta?
(Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Torino, Einaudi, 1978, 55)

L’inaudito si cela nella piccolezza. C’è una specie di genziana “minore che è detta “crociata” (Gentiana cruciata), perché è bucata in diversi punti a forma di croce e la cui radice è bianca, lunga e molto amara al gusto.

È la meno ammirata dalla gente perché è meno bella delle altre sue sorelle, soprattutto della genziana della neve (nivalis) dal blu intenso che, rispecchiando quello del cielo, sembra una sua incarnazione sulla terra. E tuttavia essa è pianta importantissima dal punto di vista simbolico, tanto da essere inclusa tra quelle piante che simboleggiano il Cristo doloroso e la sua croce (Cf. A. Catabiani, Florario, A. Mondadori, Milano 1997, 564-565).

Rilke ci ha offerto l’immagine di quella “gialla e blu” per dire la parola primigenia, “conquistata” a caro prezzo dal viandante che discende dal monte; quella che è anche “pura”, perché donata per amore, la sola che trasfigura riempiendo di stupore e di senso nuovo l’esistenza.

Il suo nome etimologicamente è fatto risalire a gens, ma da cui deriva anche gentilis, le genti, i popoli. Così la genziana indica ad un tempo un duplice itinerario: quello della letteratura e quello del vangelo alle genti; vie rivolte e convergenti verso un comune orizzonte, un’unica meta: «Servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità». Sono queste le parole pronunciate alla chiusura del concilio da Paolo VI.

“Un’itineranza”, pure, per incontrare e soccorrere l’uomo, tanto che dirà ancora il papa: «l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce;

poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il «filius accrescens» (Gen. 49, 22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via».

La parola è piena di nostalgia di fronte all’ineffabile: invoca l’altra Parola

Richiamandosi al teologo Karl Rahner papa Francesco nella sua lettera sulla formazione ne riporta alcuni pensieri: «Le parole del poeta, sono “piene di nostalgia”, sono “porte che si aprono sull’infinito, porte che si spalancano sull’immensità. Esse evocano l’ineffabile, tendono verso l’ineffabile”. Questa parola poetica “si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito”.

Questo è proprio della Parola di Dio, infatti, e –prosegue Rahner– “la parola poetica invoca dunque la parola di Dio”. Per i cristiani la Parola è Dio e tutte le parole umane recano traccia di una intrinseca nostalgia di Dio, tendendo verso quella Parola. Si può dire che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della Parola di Dio, come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 4, 12-13)». (n. 24).

Parole primigenie

Ho ripreso in mano il testo di K. Rahner letto tempo fa e ho pensato che meritasse un approfondimento l’espressione da lui usata di “parole primigenie”: «Sono quelle parole a cui si addice un infinito sconfinamento, parole dalle quali, in un certo modo, dipende anche la nostra salvezza»;

parola primigenia «non indica solo qualcosa, ma ne manifesta la presenza», in essa si riflette la nostra umanità «nella sua indivisibile unità di finito e infinito, trascendenza e immanenza corpo e spirito… le parole primigenie appartengono a tutto il linguaggio dell’umanità… sacramento della realtà» (La fede in mezzo al mondo, Paoline, Alba 1963, 139; 140; 146).

Quelle primigenie sono parole che fanno la differenza, lasciano traccia, sono pupille sull’aperto e così si percepisce la loro diversità: «Ci sono parole che separano e parole che uniscono, parole che si possono produrre artificialmente e coniare arbitrariamente e parole che esistono da sempre o che, quasi per miracolo, rinascono continuamente.

Parole che, scomponendo il tutto, riescono a chiarire il particolare e parole che, quasi evocandolo, mettono davanti agli occhi di chi ascolta ciò che vanno esprimendo. Parole che illuminano un piccolo particolare, facendo emergere solo una determinata zona della realtà, e parole invece che ci rendono sapienti, facendo brillare il tutto nella sua unità.

Ci sono parole che limitano e isolano, ma ce ne sono altre che attraverso una sola cosa lasciano trasparire la infinita gamma della realtà, simili a conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità. Sono esse che ci illuminano e non noi ad illuminarle.

Certe parole sono chiare, perché sono senza mistero e superficiali. Esse bastano alla mente. È grazie ad esse che noi possiamo afferrare le cose. Altre parole possono invece apparire oscure, perché evocano il mistero luminosissimo delle cose. Esse sgorgano direttamente dal cuore e risuonano in inni, dischiudono le porte a grandi imprese e sono decisive per l’eternità.

Parole come queste, che nascono dal cuore, si impadroniscono del nostro essere; evocando, esse uniscono, parole glorificanti e offerte in dono, che io amerei chiamare parole primigenie, mentre le altre si potrebbero chiamare parole fabbricate, tecniche, insomma parole utilitarie (ivi, 134).

Nelle parole primigenie vivono insieme lo spirito e la carne, il pensiero e il suo simbolo, il concetto e la parola, la cosa e l’immagine nella loro unità originaria e mattinale, il che non significa che siano semplicemente identiche. “O stella e fiore, spirito e veste, amore, pena, tempo ed eternità” canta Brentano. Che significa ciò? Si può mai dire cosa significhi? È forse il linguaggio delle parole primigenie, che si devono capire senza bisogno di chiarificarle con parole più comprensibili e più correnti?» (ivi, 138).

Alla prova dei fatti

Interro alcuni semi
Nella mattina piena di sole
Prima del viaggio

Sono le parole primigenie di un haiku di Santōka Taneda (Shōichi Taneda), un autore giapponese e poeta haiku (1882-1943). L’inizio di un nuovo cammino pastorale necessità sempre di parole primigenie e ne attendo il germogliare e chissà!

Così pure in un incontro, due settimane fa, una persona mi ha posto questo quesito: “che cos’è una comunità soccorrevole?” Un’altra parola primigenia? Questa domanda sta ancora ruminando in me in attesa di confrontarmi con gli altri nei prossimi incontri.

Nell’attesa ho trovando inaspettatamente “mani soccorrevoli” a darmi conferma della sua primogenitura: una poesia di Giuseppe Ungaretti, Per sempre (Roma, il 24 Maggio 1959).

Intenti soccorrevoli

Scrive Leone Piccioni, nell’introduzione che in questa lirica di Ungaretti declina il suo coinvolgimento e partecipazione all’esistenza: un «buttarsi dentro nelle cose, con entusiasmo, con amore, con coraggio; pronto sempre a soffrire, a pagar di persona.

Per i suoi ottant’anni, lo disse pubblicamente: “Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di riparare al mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai”.

L’immagine di una umanità sofferente, da avvicinare con intenti soccorrevoli che gli si fa subito chiara nella mente, da casa sua, dalla «Baracca», dalla grande umanità (e pietà, e insieme scaltra conoscenza del mondo) di [Enrico] Pea, si rinsalda subito in Ungaretti con l’esperienza immediata della guerra e della trincea, e non l’abbandonerà più» (Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, XXVIII).

PER SEMPRE

Senza niuna impazienza sognerò,
Mi piegherò al lavoro
Che non può mai finire,
E a poco a poco in cima
Alle braccia rinate
Si riapriranno mani soccorrevoli,
Nelle cavità loro
Riapparsi gli occhi, ridaranno luce,
E, d’improvviso intatta
Sarai risorta, mi farà da guida
Di nuovo la tua voce,
Per sempre ti risento.
(da: Il taccuino del vecchio, 1960), (ivi, 286).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it