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 L’ironico sorriso dell’avvocato. Un racconto

Spartaco Giusti, nonostante il suo nome, non era un combattente. Vicino ai settant’anni, avvocato in un noto studio legale, viveva di procedura, curandosi di modeste cause civili che il suo principale, Galeazzo Tassoni, gli affidava. Piccolo, magro, nervoso, sempre con la sigaretta pendente all’angolo della bocca, parlava a voce bassa, guardando negli occhi l’interlocutore con un sorrisetto ironico.

Abitudinario, usciva da casa e vi rientrava alle stesse ore, tranne quando si recava in Tribunale per questioni ereditarie, controversie di agricoltori confinanti, liti su diritti di proprietà. Dopopranzo, dalle due alle tre, andava spessissimo al caffè Belvedere, frequentato dalla migliore società locale, con debito contorno di fattori, mediatori, mercanti, giocatori d’azzardo incalliti, trafficoni.

Metodico e senza grandi pretese sì, ma Giusti un rovello l’aveva: desiderava ardentemente partecipare ai riti dei ricchi, particolarmente alle feste che si svolgevano al teatro Trianon, di gran moda in quei primi anni Cinquanta: sfarzosi eventi mondani con sfoggio di luci, gioielli, vestiti. Lì si ritrovavano le più affascinanti donne; la musica risuonava fino alle prime ore del mattino, quando i protagonisti uscivano incontrando gli operai che andavano a lavorare nelle fabbriche della cittadina.

L’avvocato soffriva. Quante volte aveva sognato di gettarsi nel vivo del ballo, trasportando una bella donna nelle onde della musica! Di mescolarsi alla folla elegante, riverito e rispettato! Di poter raccontare le meraviglie di quelle feste, dicendo: io c’ero! Di poter parlare con industriali e possidenti da pari a pari, come faceva Tassoni, di affari e finanza, di teatro e opere liriche, di viaggi e di corse automobilistiche!

No, questo mondo gli era precluso. Si doveva accontentare di osservare da fuori – il teatro era proprio di fronte allo studio legale – l’arrivo delle auto lussuose in uno sfavillio di luci, il tripudio dei vestiti e dei gioielli, e di annusare i profumi femminili di cui si riempiva l’aria… Terminate le apparizioni, chiuse le grandi porte del Trianon, se ne tornava a casa, nel suo modesto appartamento, da dove gli sembrava di sentire le note di qualche canzone romantica, fino a quando riusciva a prendere sonno.

L’indomani era daccapo tra le sue scartoffie, alle prese con clienti che non capivano mai quel che diceva, che pretendevano tutto e subito e s’incazzavano di brutto se una causa andava male o troppo per le lunghe.

***

Una sera Giusti uscì molto tardi dallo studio, dopo essersi rotto il capo su una causa rognosa e complicata, per la quale aveva dovuto compulsare a lungo il codice civile e numerose sentenze. Una di quelle vertenze che danno origine a interpretazioni diverse, rivoli legislativi che sembrano divaricarsi sempre più e che non ti fanno trovare la ratio, i nessi, il giudizio conclusivo.

Gli girava un po’ la testa per le molte sigarette fumate. La notte era serena, il cielo pieno di stelle. Le luci del teatro erano accese: dentro, impazzava un veglione mascherato di Carnevale.

Il desiderio di entrare prese l’avvocato alla gola. Spinto da un impulso irrefrenabile, si avvicinò al palazzo e, nella via laterale, si accorse che la porticina d’ingresso degli artisti, chissà perché, era aperta, proiettando una debole luce sulla strada.

Entrò e si diresse verso i palchi laterali. Non c’era nessuno. Salendo le scale udì uno scoppio di voci, una maschile e una femminile, provenire dal primo ordine di palchi. Una lite che diventava sempre più accesa.

«Sei una troia – diceva l’uomo – vai con tutti senza vergogna. Ed io che per te ho speso una fortuna, credendo che tu mi amassi! Maledetta la volta che ti ho conosciuto …»

«Finiscila, bastardo! – rispose la donna – Sei un essere spregevole, non ti permettere di offendermi. Non voglio più vederti. Riprenditi i tuoi gioielli e gli altri tuoi regali! Io vivo anche senza il tuo denaro.»

Giusti ascoltava trattenendo il fiato. Era arrivato all’inizio del corridoio e da dietro un tendaggio poteva intravedere due persone ben vestite che litigavano. Poi udì alcune urla acutissime e il rumore di un corpo che cadeva.

Uscì dal nascondiglio in tempo per scorgere l’uomo che fuggiva, vestito con un elegante trench bianco. A terra giaceva Luisa Galbiati, una delle più belle donne della città, colpita da diverse coltellate. Una macchia rossa si allargava sull’abito da sera e i suoi occhi ormai vitrei fissavano le lampade del corridoio.

Per un attimo il testimone non seppe cosa fare. Chiamare aiuto? E come poteva giustificare la sua presenza lì, in quel momento? L’avvocato fuggì, mentre la gente, attirata dalle grida, si riversava nei corridoi, fuori dai palchi.

***

Giusti aprì la porta di casa sudando come una fontana e in preda ad un’estrema agitazione. Uscendo dal teatro non aveva incontrato nessuno, meno male. Si accasciò sulla poltrona e subito un pensiero lo colpì: il trench bianco era inequivocabilmente quello che usava sfoggiare Saverio Durando, industriale tra i più ricchi della zona.  Quel Durando che, quando capitava nello studio legale di Tassoni, non lo degnava di uno sguardo. Lo stesso che con la moglie sedeva sempre nei primi banchi della Cattedrale, alla messa principale della domenica.

Il mattino, dopo una notte insonne, l’avvocato si recò al lavoro. Al bar, dove si fermò per un caffè, si parlava già dell’omicidio di Luisa Galbiati. Gli abitanti delle case vicine al teatro avevano sentito nella notte l’ambulanza arrivata dal vicino ospedale e il sopraggiungere delle auto dei carabinieri.  Anche se i giornali non riportavano nulla, perché il fatto era successo nella notte, la notizia tra la gente era volata. Nello studio era un continuo incrociarsi di occhiate e di commenti tra i due giovani avvocati praticanti e le tre segretarie.

Giusti si sedette nel suo ufficio e aprì a caso uno dei suoi fascicoli, mentre pensava febbrilmente cosa fare. Verso le undici arrivò l’avvocato Tassoni, scurissimo in viso: si chiuse nel suo studio senza dire una parola. Dopo una mezz’ora si presentò Luigi Manetti, il segretario di Durando, che andò difilato nello studio del capo, passando davanti ai clienti che aspettavano in anticamera.

Da queste mosse Giusti capì quasi tutto. Uscì dal suo ufficio, fingendo di dover cercare dei documenti in archivio. La presenza di Manetti confermava che Durando era stato incriminato. Nel pomeriggio seppe infatti dai colleghi di studio che l’industriale si era costituito e aveva confessato il suo delitto, venendo arrestato.

Stava riflettendo sul vorticoso succedere di tutti gli eventi, quando la segretaria di Tassoni gli disse che il capo lo voleva nel suo ufficio.

Entrò nel sancta sanctorum, foderato di libri fino al soffitto e dove troneggiavano due busti lignei di illustri giuristi.

«Si accomodi, Giusti – bofonchiò sbrigativamente Tassoni – L’ho chiamata perché ho bisogno del suo aiuto. Dobbiamo preparare la difesa dell’ingegner Durando per le prime fasi del procedimento.»

«Avvocato Tassoni, io non mi occupo di diritto penale da parecchio tempo» obiettò Giusti.

«Non si preoccupi. Per il processo mi affiancherà un collega della capitale» e Tassoni nominò un famoso principe del foro. «Adesso siamo alle prime battute. Lei mi serve perché i ragazzi sono ancora poco esperti.»

Trascorse qualche minuto di silenzio… «No, io non voglio collaborare in questa causa» si sentì dire Giusti. Subito gli parve che avesse parlato un altro al posto suo. Incredibile: si rifiutava di adempiere il suo dovere professionale? Disobbediva a chi gli aveva dato da lavorare per anni?

«Come ha detto?» domandò incredulo Tassoni «Non intende collaborare?»

«No» ripeté Giusti.

«Se ne vada! – urlò Tassoni – lei è licenziato

Giusti si alzò in silenzio e uscì dallo studio. Andò a prelevare la sua borsa e l’impermeabile e disse alla segretaria:

«Tornerò domani per prendere le mie cose. Arrivederci.»

A casa si chiuse in camera, dove restò per ore steso sul letto. Era ancora stupito per la sua reazione e insieme provava un sentimento d’orgoglio che gli cresceva dentro. Antiche simpatie socialiste riemersero nei suoi pensieri. In pochi minuti aveva chiuso per sempre il rapporto con quel mondo di privilegiati del quale aveva tante volte desiderato di far parte.

***

Qualche mese più tardi si svolse la prima udienza del processo a Durando. Giusti andò in Tribunale e si sedette tra il pubblico. Quando gli passò accanto l’industriale pallido e disfatto per recarsi al posto degli imputati, gli sguardi dei due si incrociarono.

In quel preciso momento, il volto dell’avvocato Giusti assunse la più beffarda e insolente espressione possibile, accompagnata da una lunga e sonora risata. Era una manifestazione di ciò che in tedesco si chiama Schadenfreude, il piacere della disgrazia altrui, anche delle persone importanti. Puntuale, arrivò il richiamo del presidente della Corte che lo espulse dall’aula, ma tutto finì lì.

E Giusti visse una soddisfazione intensa, come mai gli era capitato nella sua scialba vita.

© Franco Stefani
(2-3 maggio, 2016-20 agosto, 2019)

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Franco Stefani

Franco Stefani, giornalista professionista, è nato e vive a Cento. Ha lavorato all’Unità per circa dieci anni, poi ha diretto il mensile “Agricoltura” della Regione Emilia-Romagna per altri 21 anni. Ha scritto e scrive anche poesie, racconti ed è coautore di un paio di saggi storici.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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