Skip to main content

Apriamo con questo  intervento  di Alessandro Saheby un dibattito su destra e sinistra. Non solo e non tanto per commentare gli ultimi o penultimi risultati elettorali, ma per riflettere più a fondo le ragioni del successo della destra (e delle varie e diverse destre) e analizzare le mancanze, le dimenticanze e gli errori della sinistra,  in Italia e in tutta Europa.  Chi volesse intervenire può inviare il suo articolo a redazione@periscopionline.it
(La redazione di Periscopio)

Il merito della destra

Avanza la destra, quella nera. E di fronte a questo ad ogni “giorno dopo” non riusciamo a far molto di più che responsabilizzare il popolo bue, nella grottesca rappresentazione razzista, omofoba, misogina a cui tanto ci piace dare credito.
È sempre colpa dei boomer, dell’analfabetismo funzionale o del populismo. È colpa dei media, del Pd o della politica. Insomma colpa loro, chiunque essi siano.
E così restiamo comodamente seduti sulla barricata di chi ha capito tutto, perpetuando gli errori del progressismo occidentale senza renderci conto che l’avanzamento della destra nasconde in realtà, per semplice correlazione complementare, l’arretramento inesorabile della sinistra. Che, badate bene, non soffre tanto di scarso appeal politico, quanto di carenza di una proposta desiderabile. E utopica.
Che utopia non è una brutta parola. Ma andiamo con ordine.

Voto utile: arginare la destra o arginare il consenso?

È dal 2008 che mi viene detto che è necessario tapparsi il naso e votare Partito Democratico per arginare la destra, Berlusconi al tempo. Nel frattempo sono passati sedici anni, sono cambiati i pericolosi avversari (prima Salvini e poi Meloni) e il cosiddetto voto utile ha perso qualcosa come sei milioni di voti.

Il meccanismo che spinge l’elettore ad aderire alla chiamata del voto utile si basa sull’assunto per cui scegliere il meno peggio sia un dovere sofferto ma necessario per frenare l’avanzata dell’onda nera.

Il meccanismo, tuttavia, è a tratti perverso. Da una parte chi vota viene investito dall’enorme responsabilità di arginare la tempesta populista sacrificando il proprio voto. Dall’altra, quel voto continua ad andare a chi offre le stesse ricette politiche che hanno causato il malessere e il malcontento che favorisce l’estrema destra. In Italia, se consideriamo gli ultimi vent’anni, il meno peggio ha governato per la maggior parte del tempo.
Naturalmente chi difende il voto utile è convinto che questo amaro compromesso abbia un carattere prettamente temporaneo e che questo serva ad arginare l’imminente pericolo reazionario, in vista di un futuro miglioramento.
Tuttavia, anche qui, l’inganno elettorale è evidente. Il voto utile, ovvero il voto all’ala progressista dello status quo, in questi anni non è stato in grado di rispettare la promessa di miglioramento sociale consolidando le offerte politiche ingiuste e scadenti del capitalismo contemporaneo. Insomma, quel “domani andrà meglio” non è mai arrivato e, con il ricatto del realismo e sotto la schiacciante leva della responsabilità dell’elettore, il meno peggio si è limitato ad accettare le regole del gioco neoliberale, rimbalzandosi di tanto in tanto il potere con il “molto peggio”.

Insomma, come dice Fisher, il meno peggio non significa solo scegliere questa opzione in questo momento elettorale ma significa innanzitutto aderire ad un sistema che ti costringe ad accettare il meno peggio come massimo a cui poter aspirare.

Ma, soprattutto, voto utile ha rappresentato una sponda alla strategia di esclusione di tutti quei movimenti e partiti alternativi al capitalismo. Qualsiasi proposta politica che abbia provato a mettere in discussione i capisaldi del sistema dominante è stata infatti schernita, silenziata, infantilizzata e falsamente bollata come irrealizzabile.
Votare per un partito piccolo ma, a suo modo, rivoluzionario è stato dipinto come atto di scarso realismo. Se non fosse che il realismo del meno peggio non ha nulla a che vedere con il reale. Al contrario: il reale è ciò che il realismo del meno peggio è continuamente costretto a sopprimere.
E il reale ci urla ogni giorno che l’elettorato non vota a destra perché non riconosce le libertà o i diritti delle minoranze. Non vota a destra perché imperniato di patriarcato e sbeffeggiante ignoranza.
L’elettorato vota a destra perché ha paura.

Il futuro ci fa paura?

È connaturata all’Homo Sapiens la paura del futuro. Oggi, in un mondo sempre più dominato dal disordine neoliberale, questa paura è accentuata. La progressiva cancellazione delle tutele sociali e dei diritti, unita allo smantellamento delle strutture di welfare e sostegno agli individui, ci ha resi terribilmente fragili.

Abbiamo il terrore di perdere il lavoro, di non riuscire a pagare un mutuo o un affitto, di vedere peggiorare le nostre condizioni. E siamo dolorosamente consapevoli di essere soli, di dipendere unicamente dalle nostre forze, privati di quei paracadute collettivi che un tempo venivano definiti diritti e che oggi, erroneamente, chiamiamo privilegi.

La differenza storica tra destra e sinistra si è sempre contraddistinta nell’approccio alle soluzioni per questa paura. La destra ha sempre offerto scenari futuri conservativi, se non passatisti. Quando Donald Trump urla “Make America Great Again“, sta evocando un passato di presunti splendori, un’epoca in cui gli Stati Uniti dominavano il mondo e il benessere economico sembrava alla portata di tutti. Bolsonaro, in Brasile, ha seguito una retorica simile, rimpiangendo i “bei tempi” del regime. Matteo Salvini ha fatto eco con il suo celebre “rivoglio l’Italia dei miei nonni“, mentre Giorgia Meloni si appella alla sicurezza apparente di un’esistenza ancorata alla spiritualità tradizionale (Dio), all’appartenenza a uno Stato orgoglioso e presente (Patria), e alle certezze di forme di aggregazione collettiva in un’epoca di aggressivo individualismo (Famiglia).

Questa nostalgia del passato proiettata nel futuro è rassicurante, perché conosciuta. È incastonata nei ricordi di un tempo in cui ci si sentiva più protetti, più comunità, più società.

L’elettore non è stupido: nessuno con un po’ di sale in zucca crede veramente che la lancetta del tempo possa arbitrariamente essere riportata indietro attraverso un’azione politica. L’elettore però non ha scelta: il mondo cambia e cambia in modo crudele, ha paura, e si trova a dover scegliere tra un futuro posticciamente tracciato con i contorni del passato e l’alternativa del futuro di progresso e prosperità sociale proposto dalla sinistra.
Futuro che, oggettivamente, non esiste.

Un futuro desiderabile

La diffusa sensazione che permea la nostra società è che il capitalismo sia l’unico percorso politico ed economico percorribile, tanto che è ritenuto quasi folle immaginare un’alternativa concreta. Intrappolati nei limiti del reale, il massimo che possiamo fare è decorare un sistema basato sullo sfruttamento illimitato di risorse e persone, senza trovare il coraggio di andare oltre, fare la sinistra, tracciare un percorso che accompagni l’elettore in una direzione desiderabile e di progresso.
Desiderare significa esattamente questo: viene dal latino siderare, ovvero l’atto di alzare lo sguardo per fissare le stelle. È sognare ad occhi aperti.
Il fascino per gli astri ha sempre caratterizzato la nostra specie, generando miti, leggende, scoperte scientifiche. Senza il desiderio di toccare il cielo, non avremmo costruito cannocchiali, aerei, satelliti, astronavi. Abbiamo guardato la volta celeste e ci siamo promessi di raggiungere le stelle. Un’utopia che poi si è incredibilmente realizzata.
Certo, dai tempi di Icaro fino all’Apollo 13, abbiamo sperimentato numerosi insuccessi, ma non ci siamo mai arresi alla disperazione o alla paura di rimanere legati al suolo. Alla fine, abbiamo imparato a volare.
Non è curioso? Siamo riusciti a sollevare l’Homo Sapiens dal suolo dopo 200.000 anni di tentativi falliti, eppure non riusciamo nemmeno a concepire l’idea di liberarci di un sistema economico che esiste da solo pochi secoli e che continua a fare paura.

Al futuricidio del capitalismo siamo stati in grado di contrapporre poco, ci siamo nascosti nella sua accettazione. Abbiamo spento ogni utopia.

E, questa rassegnazione, finisce per essere trasmessa all’elettore.
Che diventa, nei tribunali morali di cui siamo giudici auto eletti, il cattivo votante.

Il merito della destra

In un sistema che per vari motivi non funziona abbiamo lasciato alla destra lo scettro dell’anti sistema. Essere contro non significa trovare nel rozzo elettore di destra l’ennesima etichetta da affibiargli per deumanizzarlo. Non è dandogli dell’omofobo, dei razzistia o dell’analfabeta  che lo convinceremo che noi siamo migliori.
Essere contro significa proporre un modello che rappresenti un’alternativa futura alle contraddizioni del presente, significa dire alle persone è lì che ci stiamo dirigendo.
Attirerò molte antipatie, lo so. Ma la pace in Palestina, il femminile esteso o l’eliminazione della retorica classista al lavoro o in un’università sono utili a malapena a rendere il mondo più giusto, non a renderlo giusto e basta. Le battaglie che conduciamo, tutte giuste e sacrosante, non rispondono alla domanda che molti di noi si chiedono quotidianamente: che ne sarà di me domani?

Non dicono molto sul futuro, non danno soluzioni all’insicurezza e alla paura che permeano le vite precarie della maggior parte di noi. Non ci danno una direzione collettiva in grado di costruire una proposta politica se non in forme di resistenza sparsa e disordinata allo status quo.
E l’elettore, che stupido non è, di fronte alla mancanza di controllo della sua stessa esistenza si trova costretto a rispondere in due modi: o attraverso l’atto politico più svilente, la presa di coscienza della sua impotenza, con l’adesione al partito dell’astensione. Oppure affidandosi a chi promette un futuro tangibile, sicuro e alternativo. Affidandosi a chi dà risposte.
Lo sta facendo, e lo sta facendo bene, la destra. Lo sta facendo intercettando la paura e proponendo improbabili e irrealizzabili soluzioni. Ma comunque soluzioni.
Non lo stiamo facendo noi, da quando abbiamo deciso di smettere di immaginare ad un futuro desiderabile e di liberazione.
Quale è stato, in passato, il socialismo e la sua utopia.

Complimenti amari alla destra, vittoria ahimè meritata.
Ancora una volta.

Note

  1. Lo so, avevo promesso “non più di una mail al mese”. Ma non mi andava di fare post o storie su Instagram, credo che l’argomento meritasse una riflessione più profonda. Spero di non disturbare.
  2. Grazie ancora ai 1922 sostenitori e sostenitrici che mi hanno offerto un caffè, sostenendo l’indipendenza e la gratuità del mio lavoro di divulgazione.
    Questo è un progetto 100% grassroot, dal basso, senza il vostro aiuto non potrei dedicare tempo ad attività come questa.
    Grazie anche a chi mi sostiene con un caffè al mese continuativo, diventando membro. Spero un giorno che questo caffè vada oltre alla dimensione virtuale e si possa bere dal vivo.
    Per tutti gli altri, quelli che non vogliono o non se lo possono permettere, la newsletter è gratuita e lo sarà per sempre.
    Se vuoi puoi offrirmi un caffè qui
tag:

Alessandro Sahebi

Giornalista e attivista, dal 1989. https://substack.com/@alesahebi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it