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Autonomia differenziata. Alcuni dati e prime considerazioni

La legge 86/2024 sull’Autonomia differenziata è entrata in vigore il 13 luglio vistata dal Presidente della Repubblica. L’opposizione di centrosinistra ha indetto un referendum abrogativo che ha già raccolto in pochi giorni le 500mila firme necessarie (si farà nel 2025). Le preoccupazioni riguardano la possibilità che una parte maggiore di risorse (rispetto alle attuali) passi dalle regioni del Sud al Nord, visto che la legge impone “assenza di aggravio per le finanze pubbliche”. Tuttavia, come hanno scritto due esperti della materia su lavoce.info (che ha fatto un E-book di 250 pagine), Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo (vicini al centrosinistra), la legge Calderoli esclude questa possibilità. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che devono essere fatti entro 2 anni) e che con molta probabilità saranno “Livelli Essenziali ma Minimi”.

Per i due esperti i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri. Il primo riguarda le commissioni paritetiche “che ogni anno in una contrattazione tra Stato e singola Regione definiscono la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa. Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme”. Se si conviene che il Veneto abbia un aumento del fabbisogno in una materia, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria posto dalla legge, ci sarà un effetto su tutte le altre Regioni e ovviamente un aggravio per il Bilancio dello Stato (cosa che la legge esclude). Come possa funzionare un sistema simile con potenziali 15 diverse commissioni paritetiche in 21 diverse Regioni è un enigma. Se poi una Regione scopre che in una materia spende di più (del previsto) cercherà di restituirla allo Stato. E’ probabile quindi che anche di questa legge (come quella “mitologica” n.42/2009 sull’allora federalismo fiscale, così pomposamente definita, non se ne faccia nulla.

Il referendum potrebbe così diventare solo uno scontro politico in cui entrambi gli schieramenti rischiano: il centrosinistra perché ottenere 24 milioni di votanti come quorum, cioè il doppio degli elettori avuti come coalizione alle ultime elezioni, è molto difficile; il centro-destra perché se si raggiunge il quorum la maggioranza sarà certamente contraria. Lo è anche Marcello Veneziani, intellettuale di destra che di conti non ne se ne intende, ma vede questa legge come divisiva della patria Italia.

Il secondo tema critico, dicono Bordignon e Rizzo riguarda quante delle 23 materie sia opportuno decentrare (16 erano per l’Emilia-R.) nell’interesse pubblico. La teoria economica suggerisce che una materia dovrebbe essere decentrata quando: 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi; 2) le preferenze dei cittadini residenti differiscono molto da un territorio all’altro; 3) se non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale.

Per i due esperti ci sono alcune materie che non vale la pena decentrate in quanto potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale come Ambiente, Beni culturali, Porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, Energia (trasporto e sua distribuzione). Ma anche tra le 9 materie su cui si è deciso che non sono necessari i LEP e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità. Per esempio: Energia, Commercio con l’estero, Tutela e sicurezza del lavoro, Previdenza complementare e integrativa, Banche di interesse regionale, porti e aeroporti. Il rischio, concludono i due esperti, è che si “decentri troppo emale e anche nelle funzioni in cui un maggior ruolo delle regioni può avere un senso, non c’è alcun criterio che leghi la loro devoluzione a criteri che indichino una maggiore capacità gestionale delle regioni, effettiva o potenziale”. L’unico criterio è infatti la trattativa politica tra singola regione e lo Stato. E questo è molto bizzarro per uno Stato serio. Probabilmente si conta sul fatto che solo le regioni di grandi dimensioni chiederanno l’autonomia, perché per come è fatta la legge anche il Molise (269mila abitanti) potrebbe chiedere tutte le 23 materie e sarebbe (per il Molise) una catastrofe. Lo spirito della riforma dovrebbe essere quello di innescare una competizione virtuosa tra le regioni in grado di fare di più e meglio di quanto ha fatto fino ad oggi lo Stato centrale. In assenza però di Authority che misurano e monitorano almeno le materie più delicate (istruzione, ambiente, energia) il pericolo è quello di moltiplicare le burocrazie e i centri decisionali, di ingolfare le istituzioni (e il paese) con regole troppo diverse da regione a regione, nonché di alimentare un’ulteriore sovrapposizione delle competenze tra Stato e Regioni.

E’ tuttavia vero che la legge stessa prevede una durata di 10 anni e un monitoraggio annuale e che dunque, potremo avere informazioni (non sappiamo quanto accurate) anno dopo anno su come funziona questa sperimentazione (ammesso che decolli) e, nel caso di gravi inadempienze, lo Stato si riserva di togliere l’autonomia ad una singola regione in ogni momento. Non si potrà non riconoscere che fino ad oggi (in 75 anni) le ampie risorse gestite dallo Stato centrale a favore dei cittadini del Sud non hanno dato gli esiti che ci si aspettava e che non si vede perché Regioni che hanno dimostrato di avere buone pratiche (migliori di quelle dello Stato centrale) non possano gestire materie, a meno che non ci siano, come dicono appunto Bordignon e Rizzo, motivi seri (diseconomie di scala ed esternalità negative su altre regioni). Stiamo parlando di regioni di grandi dimensioni che hanno popolazioni come altri Stati: Lombardia come Svezia e Portogallo, Veneto Piemonte ed Emilia-R. come Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca e tutte sono dentro la cornice europea che pone normative comuni sempre più stringenti.

Nella tabella successiva riporto i costi regionalizzati al 2019 (più recenti non ci sono) relativi alle varie materie per la regione Emilia-Romagna. Ho evidenziato in giallo le materie che secondo Bordignon e Rizzo non sarebbe opportuno decentrare e in verde quelle richieste a suo tempo (2017) dalla Regione Emilia-R. Per un approfondimento delle diverse materie richieste dalle tre regioni [si veda qui]

Come si potrà notare l’Istruzione (che non comprende l’Università e gli ITS che rimangono una prerogativa nazionale) fa la parte del leone con 2.400 milioni, assorbendo da sola il 92% di tutte le risorse delle 23 materie potenziali da decentrare. Le restanti materie hanno costi irrisori tranne Ambiente (48 milioni) e Beni culturali (37 milioni) che comunque insieme fanno solo il 3,2% del budget trasferibile alla Regione, materie, peraltro, tra le 16 richieste anche dall’Emilia-Romagna.

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi soprattutto sull’Istruzione (che è quella che ha di gran lunga un impatto maggiore sui cittadini) e su cui Bordignon e Rizzo non sollevano particolari criticità in quanto è indubbio che ogni regione abbia una sua specificità produttiva (che influisce sulla formazione professionale) e per il resto, anche sulla base dell’esperienza delle 5 Regioni a Statuto Speciale Autonomo, non si notano varianze significative nei programmi e nel complesso delle procedure organizzative. Nella scuola il finanziamento pubblico per alunno al Sud è solo del 9% più basso di quelle delle regioni del Nord, un valore che non compromette l’uguaglianza in quanto vanno considerati i minori costi per alcuni servizi e attrezzature in aree dove il costo della vita (certificato dall’Istat) è inferiore del 15-20-30% rispetto alle aree del Nord. Eppure in quasi tutte le scuole del Sud mancano le mense e il tempo pieno. Un rischio/opportunità è che i docenti diventerebbero dipendenti regionali anziché statali e ciò potrebbe portare ad un aumento degli stipendi nelle regioni più ricche, come avvenuto in Trentino e Alto Adige, ma ciò risponderebbe anche ad un bisogno reale di aree dove il costo della vita è maggiore che al Sud. Sul tema “Ambiente-eco-sistemi” e “Beni culturali” le tre regioni hanno buone pratiche e spesso hanno colmato ritardi e stalli delle amministrazioni centrali. I fautori della legge sostengono quindi che non si vede perché una maggiore autonomia potrebbe essere negativa.

Credo sia importante conoscere la situazione delle entrate proprie e della spesa primaria (e di conseguenza della differenza, detto residuo fiscale) nelle singole Regioni, in base all’unico studio qualificato disponibile (Banca d’Italia, 2020: Entrate e Spese delle Regioni nel 2019). Può essere che ci siano dati più recenti ma nessuno li tira fuori. In ogni caso la sostanza non cambia.

In base a questo studio si vede bene lo squilibrio tra Entrate e Spese nelle singole regioni. Per le Entrate si va dal massimo di 20.902 euro pro-capite del Trentino o dei quasi 19mila euro della Lombardia a 8.867 della Sicilia (ma anche Campania e Calabria sono su quel livello).
La spesa primaria è invece quasi uguale: è solo di poco più alta in Lombardia (13mila euro pro-capite) e quasi 12mila nelle più deboli regioni del Sud. Come si vede c’è un fortissimo riequilibrio garantito (giustamente) dallo Stato centrale con un fondo di riequilibrio che garantisce quasi pari risorse a tutte le Regioni. I problemi sono però due:
a) in alcune regioni (specie al Sud) queste risorse non si traducono in servizi;
b) al Nord questo fondo non è pagato da tutti ma solo da 3 regioni (Lombardia, Emilia-R., Veneto), oltre che dal Lazio. Queste 4 regioni versano circa 100 miliardi all’anno allo Stato di entrate proprie (essendo più ricche), il quale Stato ne trattiene 30 miliardi per sé e altri 70 miliardi li versa alle regioni del Sud ma anche a 2 regioni autonome del Nord (Val d’Aosta e Trentino Alto Adige) che spendono più di quanto incassano, approfittandosi di una convenzione storica firmata nell’immediato dopoguerra da De Gasperi con l’Austria ratificata dall’ONU, in cui al Trentino Alto Adige lo Stato versa risorse aggiuntive a tutela delle minoranze (italiana e ladina) in Südtirol. Una riforma che tutto il mondo ci invidia e che ha consentito (con soldi aggiuntivi) a minoranze (italiane e ladine) di essere ampiamente tutelate da una maggioranza (tedesca) che, di fatto, governa. “Soldi in cambio di pace” e che potrebbe essere anche una via dove ci sono tanti conflitti etnici e religiosi nel mondo (è stata proposta anche nel Donbass). Il problema è che questi soldi sono versati solo dai cittadini lombardi, emiliano-romagnoli e veneti.

Entrate pro-capite, spesa primaria, differenza (residuo fiscale). % spesa su entrate e simulazione nel caso di trasferimenti da 9 regioni del Sud a 3 regioni del Nord pari a +/-7% della spesa (18 miliardi annui), dati 2019 su fonte Banca d’Italia. (Fonte: Andrea Gandini su dati Banca d’Italia)

A mio modesto parere, dopo 75 anni, i trasferimenti dello Stato a Val d’Aosta e Trentino A.A. potrebbero diminuire, in quanto si tratta di regioni che un tempo erano povere (e il Trentino A.A. con enormi conflitti etnici) ma ora sono ricchissime e non hanno necessità di risorse aggiuntive da parte di uno Stato italiano (largamente indebitato) per tutelare le loro minoranze che, diventate tutte più ricche, vivono in pace. Un tema a cui nessuno Governo vuol porre mano perché ridurrebbe i consensi elettorali anche se va a scapito delle regioni che lo finanziano (Lombardia, Emilia-R., Veneto e Lazio). Il Lazio ha però un vantaggio enorme rispetto alle altre regioni: a Roma lavora gran parte della Pubblica Amministrazione statale e dei Ministeri ed è per questo che risulta un residuo fiscale attivo tra Entrate e Spese. In realtà se la P.A. fosse redistribuita in vari capoluoghi di regione, come pure si era pensato in passato, questo attivo non ci sarebbe. E anche questa redistribuzione sarebbe un fattore di uguaglianza e minore congestione di una città d’arte senza paragoni al mondo.

Rimangono così nella sostanza le “ragioni” delle tre regioni del Nord che finanziano le altre (specie il Sud e le due autonome del Nord). Non stupisce quindi che siano state queste che abbiano chiesto l’Autonomia differenziata, anche se ora Bonaccini (E.-R.) ha cambiato idea (penso per ragioni elettorali) e dice che “la vuole in modo diverso”. Una delle regioni più arrabbiate è il Veneto in quanto confina con il Trentino A.A. che, pur essendo più ricco, riceve risorse aggiuntive dallo Stato in quanto Regione autonoma (più l’Alto Adige che il Trentino) ed è per questo che periodicamente alcuni comuni veneti cercano di passare al Trentino A.A. solo per questione di soldi. L’Austria dal canto suo ha detto più volte che mai accoglierebbe le richieste (sempre minori) dei nostalgici che vorrebbero passare all’antica madrepatria Austria, la quale non vuole accollarsi le ingenti risorse che l’Italia spende per questo milione di cittadini (alquanto abbienti) ormai del tutto integrati in Europa.

La legge Calderoli prevede che le singole regioni possano chiedere allo Stato di gestire in autonomia tutte le 23 materie e che le regioni che non lo chiedono abbiano però le risorse per erogare i servizi e i beni pubblici “adeguati ad un livello di prestazione essenziale” (i famosi LEP), e siano finanziate attraverso l’attuale fondo perequativo che compensa la differenza tra bisogni e capacità fiscale delle singole Regioni. E si dice anche che “la spesa pubblica nazionale non risulti in aumento”. A tutta prima e anche secondo Bordignon-Rizzo “un’attenta analisi della legge, esclude la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge e proceda a trasferimenti di soldi dal Sud al Nord e se lo facesse, sarebbe ben grave”. Nulla però esclude che nel corso di 10 anni (tanto dura la fase di sperimentazione), il Governo trovi il modo di trasferire risorse dal Sud al Nord. Ecco perché ho fatto la simulazione con una ipotesi di circa 18 miliardi. Esiste anche uno studio dell’Osservatorio della Cattolica (OCPI) fatto con 33 miliardi.

Personalmente non credo che il Governo farà una cosa del genere che viola la sua stessa legge, anche perché ci sarebbe una enorme reazione delle regioni del Sud. Credo invece che cercherà la via, senza togliere risorse al Sud, per dare qualcosa in più alle tre regioni del Nord. L’ideale sarebbe che, a parità delle attuali risorse, ci fosse una sperimentazione per chi sa gestire meglio tali risorse con tanto di monitoraggio.

Calcolare i LEP entro i prossimi 2 anni sarà poi molto complicato in quanto occorre definire: 1) i costi standard di ogni bene pubblico erogato in modo efficiente, 2) il livello di prestazione minima, 3) i fabbisogni di ogni amministrazione locale. Cosa che non si è riusciti a fare in 25 anni nella sanità coi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

In sanità I LEA sono stati introdotti nel 1999 (qualcosa di simile ai LEP), furono approvati 20 anni più tardi e dopo infinite schermaglie tra regioni e stato. Sono stati aggiornati nel 2017, ma ancora oggi non sono erogati in quantità e qualità uniformi in tutte le regioni del paese. L’elaborazione dei costi standard degli asili nido ha richiesto dieci anni, come si potrà farlo per 23 materie in 2 anni è un mistero. Quando la capacità amministrativa è poi di bassa qualità (come al Sud) chi ne fa le spese sono i cittadini, i quali però, come nel caso della sanità al Sud, non hanno alcuna penalità se non quella di venirsi a curare al Nord (chi paga sono le singole ASL introducendo qualche ticket in più per i consumatori).

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi su quali materie la gestione regionale potrebbe essere più efficiente di quella statale. Importante è che la legge 86/2024 preveda un monitoraggio annuale (oltre a quello della Corte dei Conti) e una durata massima di 10 anni e la possibilità per lo “Stato, qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza, direttamente imputabile alla Regione sulla base del monitoraggio di cui alla presente legge, dell’obbligo di garantire i LEP, dispone la cessazione integrale o parziale dell’intesa, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere”.

L’auspicio è che in 10 anni si realizzino buone pratiche (sulla base di una comparazione) che consenta la loro diffusione tra Regioni o il ritorno di alcune materie allo Stato. Una Autority pubblica (che non è prevista) avrebbe agevolato questo processo in modo da coordinare il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitorare la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia e nel caso dell’Istruzione (dato l’enorme peso che ha sulle altre) istituire una specifica Autorithy dell’Apprendimento, come aveva proposto nel 2000, Luigi Berlinguer, che analizzasse scuola per scuola (i dati aggregati non servono a nulla, essendoci enormi differenze tra le scuole nello stesso Comune) in base ad una ventina di parametri, in modo da aiutare tutti a migliorarsi. Viceversa, mancando questo approccio e un consenso con l’opposizione, il rischio è una riforma pasticciata alla Calderoli che rischia di provocare più caos che efficienza, con monitoraggi limitati e così indebolendo quel clima di unità del paese che un intellettuale di destra come Marcello Veneziani, ha condannato.

Io, che invece sono di sinistra, non sono contrario che si individui una via per rendere più responsabili gli amministratori (del Sud e del Nord) nei confronti dei loro cittadini, anche per un principio democratico e di sussidiarietà e perché non siano premiate le consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari (sia al centro, a Roma , poco controllabili) sia in alcune regioni, anche per stroncare ogni forma di opacità nelle regole di Governo, di criminalità e abusivismo (quello edilizio al Sud è al 50%). Ovviamente se dietro la legge c’è l’idea di sottrarre risorse in modo indiscriminato al Sud (vedi simulazione), essa diventerà un boomerang per le destre. La sinistra non si può però cullare in slogan “anti”, quando le ingiustizie in termini di entrate e spese sono evidenti a vantaggio sia di regioni ricche (autonome del Nord) che di povere (al Sud), perché, prima o poi chi paga (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) chiederà conto. Sono passati 75 anni dalla Costituzione e non possiamo non vedere che la gestione statalista al Sud è fallita, nonostante le ingenti risorse fino ad oggi erogate. Si dovrebbe quindi discutere nel merito perché ciò non prosegua. Certamente se ci fosse stato uno spirito di cooperazione tra le parti la legge (che non è cattiva) poteva essere migliore ed essere avviata come sperimentazione. Ma il Paese è da sempre diviso anche su cose essenziali e in particolare sull’assetto istituzionale che vede Regioni con 10 milioni di abitanti (Lombardia) e alcune come Val d’Aosta e Molise con meno abitanti di una provincia media (123mila e 289mila). Ci si dovrebbe muovere come disse 75 anni fa il compianto industriale politico visionario Adriano Olivetti con macroregioni e comuni da 100mila abitanti, senza togliere però il presidio nei piccolissimi Comuni (8mila) che potrebbero essere amministrati anche solo da pochi eletti.

Si ammetterà che in Italia si sono fatti vari pasticci (dalla DC al PCI, e con la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001 dallo stesso centrosinistra), ultimo la soppressione delle province. Per quanto riguarda le Regioni l’approccio non è stato proprio limpido neppure da parte dei nostri (pur ottimi) Costituenti. Essi introdussero l’Istituto delle Regioni infatti con non troppa convinzione. La DC era favorevole in modo più strumentale che sostanziale, in quanto convinta di perdere le elezioni del 1948, mentre il PCI era tiepidissimo in quanto convinto di vincerle e così poter governare l’intero paese senza di mezzo le Regioni. Quando nel ’48 vinse la DC le posizioni si capovolsero e il PCI diventò un fiero alfiere delle Regioni, mentre la DC ci mise 22 anni prima di introdurle nel 1970. Come si vede anche i nostri Costituenti (politici di alto rango) non furono immuni da opportunismi nella costruzione delle Istituzioni. Un vizio antico che oggi si ripropone in modo accentuato. Al di là di come andrà il referendum, bisognerebbe avviare una discussione e poi sperimentazioni (prima di introdurre leggi nazionali).

Una nota per la mia simulazione (che è a invarianza di spesa pubblica nazionale, come dice la legge). Nel caso ci fosse tale trasferimento (“il diavolo è nei dettagli”, anche in quelli futuri che potrebbero venire) ma, per onestà intellettuale, questa la legge non prevede alcun trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ho calcolato un trasferimento pari a circa 18 miliardi (+7% di spesa) nelle 3 regioni del Nord a scapito di 9 del Sud. Il Veneto ha sempre detto che si “accontenterebbe” di avere il 90% della spesa sulle sue entrate e quindi ho calcolato questa come suo massimo. L’Osservatorio dell’Università Cattolica ha invece fatto una simulazione su 33 miliardi.

Esso comporterebbe un vantaggio di circa 900 euro all’anno per i 19,1 milioni di residenti nelle 3 regioni del Nord e uno svantaggio analogo per i 22,1 milioni di cittadini delle 9 regioni del Sud (nell’ipotesi che quelle che hanno una spesa prossima alle entrate non abbiano modifiche: Marche, Liguria, Toscana, Friuli, Piemonte). Però più che un tale trasferimento dal Sud al Nord, temo che nel corso degli anni possa avvenire nelle “pieghe delle procedure” (il diavolo, ripeto, è nei dettagli) una manovra statale a vantaggio delle tre regioni del Nord senza colpire il Sud. Quando ci saranno i soldi…perché oggi non ci sono.

Il Governo infatti deve trovare: 30 miliardi per confermare gli sgravi fiscali e contributivi varati nel 2023, 12 miliardi per rispettare le nuove regole Ue di finanza pubblica, 20 per confermare il taglio del cuneo fiscale e il primo modulo della riforma Irpef a 3 aliquote: in totale fanno 62 miliardi, quando dal condono/concordato potrebbero arrivarne (se va bene) 7-8, dal taglio agli incentivi alle imprese ne arrivano 4 e fanno 12…e gli altri 50? E’ vero che nei primi 6 mesi del 2024 le entrate vanno bene…ma 50 miliardi sono una cifra imponente da trovare senza mettere mano ad una tassazione sui ricchi che non è nelle corde certo dell’attuale Governo.

Rimane così del tutto inevaso il vero problema e cioè come responsabilizzare i politici “amministratori” a gestire bene le risorse di cui dispongono, specie quelli del Sud che beneficiano di trasferimenti dalle tre regioni del Nord. La riforma potrebbe fallire se peggiorasse la capacità di saper amministrare autonomamente tali risorse, ma dubito che ciò avvenga in Lombardia, Veneto ed Emilia-R.

Il rischio potrebbe essere un indebolimento del ruolo (residuale) dello Stato al Sud, lasciando ancor più spazio alla criminalità e consorterie varie. Il vantaggio monetario del Nord sarebbe pagato da una catastrofe civile al Sud e non sarebbe di vantaggio di certo all’Italia nel suo insieme. Rimane sempre l’ipotesi che le Regioni del Sud chiedano anch’esse l’autonomia (in un’ottica di macroregioni) e non ci sia uno scatto di orgoglio dei suoi cittadini, i quali con le stesse risorse ma più poteri, ribaltino il corso delle cose esistenti, si mobilitino e chiedano ai propri amministratori quella trasparenza e correttezza di amministrazione che fino ad oggi è stata molto carente.

Come si vede il tema è complesso e non sarà certo risolto a colpi di slogan o referendum. Anche questa legge, che non è una cattiva legge, rischia il nulla di fatto. Essendo stata approvata a colpi di maggioranza è diventata materia di scontro ideologico e di referendum. Solo una sperimentazione condivisa con tanto di dati e monitoraggio da parte di una Autorithy pubblica indipendente può ri-avviare il Paese su come avere buone Istituzioni locali, che rafforzano la democrazia dal basso, sapendo che sono il principale fattore di sviluppo di un Paese. In teoria la sussidiarietà (amministrare nei luoghi più vicini ai cittadini se c’è la scala di operatività), il federalismo (più autonomi sotto uno Stato centrale, come è il caso di Germania e Stati Uniti), trasparenza e partecipazione si sono mostrati i principali fattori di sviluppo dei Paesi. Lo sono tanto più per noi che siamo un paese povero di materie prime.

 

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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PAESE REALE
di Piermaria Romani


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