Zeno De Rossi, suoni e palpiti ferraresi di un musicista jazz
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Ci incontriamo in una sera di mezzo autunno, all’ombra del castello estense di Ferrara, dove ormai vive da anni. Intorno allegri ragazzotti che cinquant’anni fa sarebbero stati uomini, vagano mascherati per le vie del centro, conciati male e ciucchi, costretti ad esaudire le richieste degli amici come tradizionale festeggiamento per l’agognata laurea. In bocca al lupo.
Seduti al bar, lo saluto e per una sorta di riflesso la prima cosa che osservo in Zeno De Rossi sono proprio le mani, le riconduco allo strumento che suona: la batteria. So bene che in quell’arte ciò che conta più delle mani è la testa, la capacità di governare ogni singolo arto simultaneamente e autonomamente l’uno dall’altro. Più delle mani quindi, è una questione di testa, la sezione ritmica è il pane della musica, in qualche misura il tempo è ferro e cemento in attesa delle vibrazioni.
Guardo Zeno De Rossi e cerco di comprendere i fattori che hanno trasformato quel ragazzino che tifava per Bordon, il suo calciatore preferito, in uno dei più interessanti musicisti della scena jazz europea.
Ad abbandonare il calcio lo convinse la batosta rimediata quando con gli allievi del Lloyd Sanson affrontò i ben più blasonati avversari del Genoa Calcio: dieci a zero e i piedi ben piantati per terra. L’acre sapore della realtà e l’odore umido dell’erba, nonostante il sudore, la sconfitta.
“Con la musica non so quando sia cominciata di preciso, mio padre suonava il contrabbasso, mio fratello maggiore le percussioni, e in salotto avevamo un sacco di dischi jazz da ascoltare”. Forse lì ha stretto tra le mani Complete Communion di Don Cherry. Senza trascurare Dylan, i Doors, Neil Young, Hank Williams, Ray Charles, Luigi Tenco.
Comunque sia l’istinto a percuotere gli oggetti si manifesta subito per gioco, continua a scherzare col tempo, sezionare le parti, continua a scoprire qualcosa che non ha una forma definita. E magari la mamma a rimproverarlo, a chiedergli di smetterla di far rumore con le posate a tavola…che non sta bene.
A tredici anni, con gli amici, allestì la prima sala prove ignaro di ciò che avrebbe acceso nel suo futuro: “Una sera d’estate, complice il buio pesto, in un cantiere rubammo dei pannelli isolanti per poter insonorizzare la nostra nuova sala prove, assemblarli fu un lavoro duro, alla fine del quale scoprimmo che quei pannelli erano termici e non acustici. Il rumore si diffondeva in tutto l’isolato, in compenso all’interno la temperatura stazionava sui sessanta gradi centigradi tutto l’anno”.
La prima vera batteria a diciassette anni, la comprò da sé con le serate a fare il cameriere nei bar del centro, un po’ per necessità e un po’ perché a casa sua era così… occorreva guadagnarsela la fortuna.
Il resto è studio fatto principalmente di osservazione e ascolto, un autodidatta che bazzica nei clubs di Verona come “Il posto” per carpire le tecniche, col coraggio di seguire l’istinto: quella parte di te che indica la strada senza che tu realmente sappia se sia giusta o meno. Lo fai perché ti fa stare bene.
Insomma la Musica. Quella fatta di dialogo fittissimo, intessuta di emozioni, incroci. Una ricerca che a un certo punto diventa personale, fusione di elementi e scambio reciproco. In testa sempre Bill Frisell.
Ha la barba incolta e il tabacco sempre tra le dita Zeno, stasera indossa le scarpe da tennis rosse con su impresso il gallo rosso che ricorda la sua etichetta indipendente: “El Gallo Rojo”. Poi una moglie sannita studiosa di linguistica italiana conosciuta ormai dieci anni or sono nel backstage di uno dei tanti concerti con Vinicio Capossela.
Un ambulante si ferma al nostro tavolo, si conoscono e Zeno lo invita a bere un caffè, il venditore sorride, tuttavia preferisce continuare il suo giro, non è un buon periodo per sopravvivere. I minuti sono preziosi.
Oggi pomeriggio il volto di De Rossi e la sua musica sono in tutte le edicole d’Italia su una nota rivista jazz, nel tempo questo e i suoi numerosi progetti musicali con i Guano Padano, The Leaping Fish Trio, Midnight Lilacs, Shtik, Zeno De Rossi trio, il sodalizio decennale con Capossela, le soddisfazione de “El Gallo Rojo”, le tournée in tutto il mondo non hanno allontanato i suoi piedi dalla terra comune. Ho la sensazione che la terra per lui sia la stessa di quando era un ragazzino dell’Edera Veronetta. Forse ne sente ancora il sapore.
Chissà cosa ha in serbo il futuro, fino ad ora le indiscusse qualità lo hanno portato a un moto perpetuo, in continuo movimento. Un’esistenza di valigie pronte, coincidenze, treni, alberghi e aeroporti, dunque cieli solcati spesso con le borse sotto gli occhi e tante soddisfazioni. Quello che è certo è che si ritiene un viandante precario, costretto a non sostare mai troppo a lungo nello stesso posto.
In questo imbrunire ho davanti a me quel ragazzino che tifava Bordon insieme al liceale curioso che sognava la carriera musicale. Poi l’uomo che ha creduto all’istinto, perseguito i propri fini, e che ai miei occhi ha l’enorme merito di non sentirsi arrivato, di sporgersi ancora verso gli altri. E bisogna stare attenti, perché così a volte i sogni si conquistano per davvero, e qualcuno potrebbe finalmente imparare a scuotersi dallo strisciante torpore collettivo di una nazione in cui la principale arte tramandata sembra essere la rinuncia programmatica.
Continuo a cercare persone per cui il tempo sia qualcosa di più che una sommatoria di minuti scaduti nei centri commerciali o al cospetto di una infallibile tv satellitare. Oggi è andata bene di nuovo.
Ho incontrato un uomo per cui il sangue affluisce nelle vene al ritmo dettato dalla sua percussione. Tocca agli altri stargli dietro e una delle prime regole della musica dice che quando suoni, chiunque tu sia, il tempo lo devi rispettare. In mezzo il suo tocco, il suono che continua a sperimentare e fondere.
La musica inganna qualsiasi tipo di attesa, serve a sfidarsi senza per questo ogni volta vendere l’anima al diavolo. La pianura padana e il Po non sono il Mississippi di Crossroads. Stasera Zeno De Rossi non è nemmeno il Faust, benché mostri un vantaggio non da poco al cospetto di giorni arresi: finché sarà tutt’uno col proprio corpo, alla vita il ritmo lo imprimerà lui.
Metto su “Kepos”, l’ultimo album, mi fermo su “Pitula”, dedicata alla sua Nicoletta, qualcosa su cui gli uomini riflettono da sempre decide che venga giù la sera e domani poi di nuovo il giorno, al resto pensano il piano di Giorgio Pacorig e il sax di Francesco Bigoni. Stasera nient’altro.
Non fermarti Zeno…continua a correre!
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Sandro Abruzzese
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