Per salvare il lavoro martirizzato dalla tecnologia (e dal capitale) bisogna convertirsi
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Possiamo tranquillamente scommettere sul fatto che, in pochi anni, almeno la metà dei lavori che oggi consideriamo normali saranno spariti, diventati inutili o sostituiti da processi automatizzati e da macchine. L’intero percorso della modernità può essere visto come un grande processo di sostituzione di modalità di lavoro, che ha spostato milioni di persone dal lavoro agricolo a quello industriale prima e da quello industriale a quello del terziario poi. In un certo senso la tecnologia alimentata da una costante ricerca scientifica e affiancata da grandi miglioramenti nell’organizzazione delle catene di produzione, ha trasformato milioni di lavoratori spostandoli dall’uso diretto delle mani e della forza del corpo verso attività caratterizzate da una sempre più forte componente intellettuale.
Oggi, mentre i computer stanno velocemente sostituendo anche questo tipo di attività, ci si chiede se esista un altro settore dove spostare le persone in cerca di lavoro. E ci si domanda giustamente quale sia il futuro del lavoro e dell’occupazione per milioni di persone che proprio sul lavoro hanno costruito la loro identità e hanno ipotecato il loro presente e il loro futuro. Le trasformazioni economiche e culturali degli ultimi decenni hanno spinto il lavoro al margine della riflessione politica, facendolo diventare residuale rispetto alla finanza e al capitale, all’efficienza dei mercati, alla flessibilità, alle borse, alla crescita. In caso di conflitto ad essere sacrificato è sempre il lavoro o, meglio i diritti a esso associati; mai il (grande) capitale, raramente la (grande) rendita. Anche il pubblico dei media sembra assai più interessato all’andamento degli indici finanziari che alle oscillazioni del tasso di occupazione. Eppure è ancora il lavoro che garantisce alle famiglie la capacità di spesa indispensabile ad alimentare il consumo che traina l’economia. E’ il lavoro che garantisce alla stragrande maggioranza delle persone di strutturare la propria identità e dare senso compiuto all’esistenza. Ed è ancora il lavoro che sta alla base della nostra Costituzione.
Certo, in un nuovo ambiente dominato dalla produzione automatizzata di beni e servizi, è lecito supporre che il lavoro, così come abbiamo imparato a conoscerlo nel secolo scorso, sarà destinato a modificarsi radicalmente. Forse, come molti auspicano, le persone avranno diritto a un reddito di cittadinanza universale e la vera sfida sarà, per le future generazioni, quella di inventare modi creativi e generativi di usare il tempo e le risorse disponibili. Forse gli unici lavori indispensabili saranno quelli connessi allo sviluppo dei diversi settori della ricerca scientifica. O forse, in un mondo che ha risolto il problema delle produzioni e della equa allocazione dei beni essenziali, l’unico lavoro sarà quello relazionale, mentre quella che oggi chiamiamo genericamente spiritualità diventerà la frontiera da esplorare nella ricerca di senso e felicità. In attesa di un nuovo quanto urgente modello economico adeguato a una società allo stato nascente, ma che rischia di implodere sotto il peso delle sue stesse scoperte e del suo passato successo, per ora e nei prossimi anni, l’esigenza del lavoro resta fondamentale. E con essa la sfida di produrre milioni di nuovi posti che possano garantire una transizione più morbida verso una realtà di cui ancora non si intravvedono le forme e i confini. Si tratta di una sfida che, se sottovalutata e persa, rischia di portare alla fine della civiltà che conosciamo: le guerre attuali, le migrazioni bibliche, la scandalosa ripartizione delle ricchezze, l’ampia diffusione del malcontento e della infelicità nel bel mezzo dell’abbondanza materiale, sono chiari indici di una tendenza in atto che potrebbe portare velocemente al collasso.
La grande emergenza – che non è solo economica ma anche sociale, culturale e antropologica – va innanzitutto riconosciuta come tale e quindi va affrontata con mezzi straordinari: così fece Roosevelt nel 1933 lanciando il New Deal per superare i disastri sociali causati dalla crisi del 1929. Non saranno infatti la finanza, né i burocrati europei, né il mercato abbandonato a se stesso, a risolvere magicamente questi problemi; in questo mercato squilibrato giocano infatti troppi attori incappucciati (come affermava Federico Caffè), soggetti troppo grandi per fallire, lobby troppo potenti, automatismi impersonali troppo complicati, interessi di parte troppo radicati. Per vincere questa sfida serve ancora una politica che sia capace di proporre leggi e costruire alternative possibili, che si fondino su strategie ad alta intensità di lavoro, assolutamente non assistenzialiste, ma adatte a fronteggiare la disoccupazione, strategie che si affianchino ed usino anche i meccanismi del ‘normale’ mercato che non appare, in questo specifico momento, capace di garantire automaticamente l’equilibrio e l’equità.
Le possibilità in Italia di creare lavoro in questo modo sono straordinariamente alte e connesse a bisogni assolutamente prioritari: la messa in sicurezza del territorio, il recupero dei beni architettonici compromessi dall’incuria e dalle catastrofi naturali, la riqualificazione del patrimonio scolastico disastrato, la riconversione delle zone sfregiate dalla cementificazione e dalla speculazione edilizia, il recupero delle zone agricole di pregio e delle antiche colture, la pulizia dell’ambiente. Un impresa titanica ad alta intensità di lavoro finalizzata a ricostruire quei beni comuni dissipati dagli automatismi della modernità e del capitalismo imperante che sono invece il fondamento della società e dell’economia. Ma per avviare questo nuovo corso servono nuove organizzazioni efficienti, agenzie trasparenti e istituzioni snelle, leaders capaci ed operatori integerrimi, proprio quel tipo di persone che in Italia sembrano scarseggiare e che spesso sono state messe da parte da una politica clientelare superficiale e corrotta. Servono piani e progetti che si fondino sulla assoluta unicità culturale ed antropologica e sulle profonde differenze regionali che caratterizzano l’Italia.
Serve una profonda capacità di anticipare il futuro per individuare chiaramente quali saranno i settori sui quali investire. Servono politici visionari, con la statura degli statisti, capaci di guardare davvero al futuro e non alle prossime scadenze elettorali. E servirebbe un’ Europa all’altezza, capace finalmente di mostrare con i fatti di essere stata la più grande invenzione politica, sociale, civile ed economica degli ultimi due secoli. Servono a tutti nuovi occhi per guardare i problemi e vedere in essi nuove opportunità; bisogna liberare la creatività e la voglia di fare che, malgrado tutto, sono ancora parte del patrimonio e della cultura degli italiani.
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Bruno Vigilio Turra
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