“La vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature” (Marcel Proust)
“La vera vita. La vita, quindi, scoperta e chiarita, e per conseguenza la sola vita pienamente vissuta, è la letteratura” (mia traduzione)
L’altra sera dopo lo splendido inizio della quarta serie di Downton Abbey (di cui è inutile ricordare che sono un appassionato seguace), riprendo in mano uno dei libri più amati, “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz. Un passaggio mi produce un brivido nel cuore e nella mente:
“Solo di libri, da noi c’era abbondanza, da una parete all’altra, in corridoio, e in cucina e in ingresso e sui davanzali delle finestre e dappertutto. Migliaia di volumi, in ogni angolo della casa. C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, invece i libri godono di eternità. Quand’ero piccolo da grande volevo diventare un libro” (p.31).
Oz è del 1939. Io son più vecchio di un anno. Oz ricorda (ha cinque o sei anni) gli avvenimenti tra il 1944 e il 45 a Gerusalemme.
Anch’io ricordo.
E quello più vivido risale a ciò che accadde dopo il grande bombardamento di Ferrara che ridusse il nonno sul lastrico e il trasferimento nel 1945 in una casa del centro storico infinitamente meno agiata di quella in cui son nato, divisa in due dalla scala che serviva i tre piani. Essendo il più piccolo dormivo nella grande camera dei nonni e non avevo uno spazio mio. Ma il corridoio che portava alle camere, buio e senza finestre, era letteralmente invaso dai libri. Appoggiati sul pavimento, trasbordanti da assi infisse sulle pareti, dilaganti in ogni dove. fino sulla porta del bagno, libri, di ogni dimensione, forma, colore. Da una lussuosa edizione de “I promessi sposi” con le illustrazioni di Gonin a cui mancava il primo capitolo diligentemente ricopiato a penna da qualche ignoto lettore, alle opere complete della Carolina Invernizio, a Salvator Gotta, a tutto De Amicis. E via elencando. Ma chi leggeva in casa? Non certo la mamma costretta al lavoro d’impiegata dopo la giovinezza agiata, non il nonno che s’industriava a far la spesa sul Listone sempre più tardi quando le bancarelle stavano per chiudere e i prezzi di frutta e verdura scendevano, ma la nonna. Implacabile nella lettura dopo che prese il lutto nel 1924 quando per motivi politici perdette un giovane figlio. Da allora la sua vera missione fu leggere. I nonni non so nemmeno se avessero fatto le elementari. Certo è che nel periodo di splendore allevarono i loro figli nel segno della cultura. E le femmine divennero maestre e laureate, fuorché la mamma che lasciò l’ultimo anno delle superiori per sposarsi. Tutte suonavano uno strumento.
In questa situazione anch’io volevo “diventare un libro” e, nonostante un vago tentativo di disciplinare le letture, mi lasciarono stare. Tra i sei e gli otto anni lessi indiscriminatamente, spesso cullandomi al flusso della riga o del capitolo, per puro capriccio visivo. Poi aprirono la libreria delle Paoline in via Cairoli presso il Seminario vecchio. La mamma poteva pagare a rate così arrivarono i meravigliosi volumi che mi confermarono ancor più nel voler essere un libro. Primo fra tutti “Il principe felice” di Oscar Wilde, poi “Incompreso” e tanti altri. Avevano una copertina cartonata verde pallido e un disegno a volte in rilievo nel mezzo. Io ci volevo saltare dentro a quel disegno e nella notte provavo incubi a pensare alla povera statua del principe o all’angoscia del bimbo incompreso e mi piaceva tanto calarmi nei panni di Fauntleroy de “Il piccolo Lord”. Le enciclopedie non mi piacevano perché riducevano a elenco la mia convinzione di voler diventare un libro.
Il sabato lo trascorrevo dai nonni adottivi al piano superiore della mia casa natale. Qui stava anche la Carla, una bellissima ragazza, che nella sua stanza aveva un cassetto pieno di volumi straordinari: la “Vita di Maria Antonietta” di Stefan Zweig (come mi sentivo un nobile pronto a essere sacrificato sulla ghigliottina!) e il bellissimo e crudelissimo “Fouché”. Le mie idee o quelle che respiravo in casa erano conservatrici: uno zio militare futura medaglia d’oro che ogni sabato convocava i nipoti: mio fratello adorante per la vita militare e il riluttante Gianni a pranzo per imparare a maneggiare posate, posture, cibo. Mi sentivo salito ai piani superiori di Downton Abbey. Sui dodici anni provavo disprezzo per gli sport e l’attività fisica. A Roma per l’anno Santo ho visto il Papa sulla sedia gestatoria e tra il caldo, l’emozione e la visione letteraria letteralmente svenni nell’immensità di San Pietro gremita. Ancor più di prima decisi di diventare un libro. Poi i “romanzoni” prestati da una parente: “Via col vento” – naturalmente stavo dalla parte dei sudisti- nonostante avessi versato lacrime a non finire leggendo “La capanna dello zio Tom”. Insomma non ciò che dicevano i libri ma ciò che il libro è.
Bisognerà aspettare l’incontro con il Maestro, Claudio Varese, a quattordici anni affinché imparassi a distinguere cosa “dicono” i libri differenziandoli da cosa sono.
E con i russi cominciò la dismissione di voler essere un libro: non volevo essere Raskolnikov o il principe Myskin. Volevo essere chi l’aveva scritto.
E non riuscendoci ho optato per il mestiere di critico.
Non si sa mai!
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Gianni Venturi
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